Tracce di umanità

Le condizioni di squallore e degrado in cui versano molte delle nostre stazioni hanno molteplici cause. Una delle principali è la consuetudine, purtroppo abbastanza diffusa, di considerarle un po’ come discariche personali, in cui possiamo liberarci comodamente dei nostri piccoli rifiuti quotidiani, senza perdere troppo tempo a cercare cestini, cassonetti, o comunque luoghi e contenitori più idonei. Cartacce, fazzolettini di carta usati, lattine, giacciono un po’ ovunque, come relitti alla deriva, contribuendo all’atmosfera sciatta e trasandata di questi luoghi.

In questo contesto poco gradevole si inserisce il mio primo incontro pendolare di oggi, a metà della scala che porta dal sottopassaggio al marciapiede lungo il binario da cui parte il mio treno. Abbandonata, su un gradino, in posizione ortogonale rispetto alla direzione di percorrenza, mi accoglie un’inusuale suola di scarpa. Usata, e anche parecchio, a giudicare dall’ombra scura che riproduce in modo inequivocabile l’impronta di colui o colei che l’ha indossata. Un’altra immagine di sciatto degrado che denuncia maleducazione e disinteresse. Eppure, inaspettatamente, non posso fare a meno di trovare, in questa scena, un qualcosa di estetico, di aggraziato, in qualche modo. Sarà la posizione, sarà il contrasto tra la forma approssimativa ma armoniosa dell’impronta e le linee nette e squadrate dei gradini e delle piastrelle, sarà il chiaroscuro, sarà che sono sveglia da poco e i miei canali percettivi sono ancora assopiti. Scatto velocemente una foto con il cellulare (lo so, non è tanto normale mettersi a fotografare suole di scarpe lungo le scale dei sottopassaggi).

Chissà di chi era? Dove stava andando? Perché? Perché proprio sui gradini, visto che a pochi metri, sul marciapiede, ci sono delle panchine (e dei cestini, anche), dove tutta l’operazione si sarebbe potuta svolgere in modo più comodo e discreto? Accompagnata da tutte queste domande filosofiche, più o meno, mi avvio a prendere il treno.

piede

Problemi pendolari

Problema

State aspettando un treno lungo il binario uno. Il treno successivo diretto verso la vostra destinazione partirà dal binario sei venti minuti dopo. L’altoparlante annuncia che il treno che state aspettando ha venti minuti di ritardo.

Quale dei due treni partirà prima?

Soluzione: quello in arrivo al binario dove non siete voi.

 

Dimostrazione:

Supponiamo che voi siate al binario uno. Tanto lo sapete che di solito parte prima quello, perché è un Regionale Veloce e fa pochissime fermate intermedie. L’altoparlante annuncia il treno in partenza al binario sei, siete tentati, ma subito dopo annuncia quello al binario uno. Inizia a lampeggiare la lucina sul tabellone, accanto al binario sei. Vi state già incamminando verso il sottopassaggio, quando con la coda dell’occhio vedete che anche quella del treno al binario uno ha iniziato a ballare a destra e a sinistra. Al binario sei sta arrivando un treno stracarico di pendolari, mentre al binario uno ancora niente. Vi decidete, finalmente, a cambiare strategia e vi fiondate nel sottopassaggio. Avete quasi raggiunto la vostra uscita da quel maleodorante tunnel quando venite investiti da una slavina umana formata dai pendolari appena scesi dal treno,  che si stanno velocemente incamminando verso l’uscita, trascinandovi, come una corrente impetuosa, in direzione opposta alla vostra.

Il treno al binario sei, nel frattempo, riparte. Quello al binario uno matura un ritardo aggiuntivo di dieci minuti.

Supponiamo, viceversa, che una vocina interiore, l’istinto pendolare che c’è in voi, tanto per citare il buon Raf, vi suggerisca, senza alcun motivo apparente, di scegliere il treno al binario sei. Come si dice, meglio un treno locale oggi che un Regionale Veloce mai… Vi incamminate tranquillamente verso il binario sei, salite le scale, raggiungete una panchina e vi sedete. Di fronte a voi, scorgete, lungo il binario uno, gli altri viaggiatori, in attesa. “Tze, che bischeri…” pensate, forti della vostra pluriennale esperienza. E infatti, ecco spuntare, all’orizzonte, il trenino locale, in perfetto orario. Salite sulla carrozza, soddisfatti di aver fatto, ancora una volta, la scelta giusta, alla faccia di quei poveretti, ancora lì, lungo il binario uno. Vi accomodate su uno dei sedili, in una carrozza semi vuota e aspettate la partenza del treno. Aspettate… aspettate…

E intanto ecco arrivare al binario uno il Regionale Veloce, che essendo Veloce, appunto, e in ritardo, si ferma e riparte prima che voi possiate pensare di scendere dal trenino locale. Che, per dare la precedenza, accumula dieci minuti di ritardo.

C.V.D.

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Toni di grigio

IMG_2380 copyGli ingredienti per una giornataccia, stamani, ci sono tutti. Una nebbia fitta mista avvolge la stazione e, insieme ad una pioggerellina insistente, rende l’atmosfera fredda e inospitale. C’è ancora poca luce, le giornate si stanno accorciando velocemente e il mio umore è dello stesso colore del cielo. La banchina è più affollata del solito, capisco presto il motivo: il treno precedente al mio è stato soppresso, ci informa la voce sintetica dell’altoparlante. La prima parte del mio viaggio quotidiano sarà probabilmente… come dire… compressa.

Arriva il treno, riesco a salire con difficoltà a causa delle persone che sostano nel vestibolo. Con qualche sforzo riesco a entrare nello scompartimento. Non c’è ovviamente posto a sedere, mi sostengo come posso alla sommità di un seggiolino. La mia sistemazione non è molto stabile, non posso far altro che reggermi e aspettare che il viaggio passi. Peccato perché ero arrivata a un punto chiave nel libro che sto leggendo.

Arrivo alla stazione dove devo cambiare treno con qualche minuto di ritardo, mi affretto a raggiungere il binario giusto. Appena imboccato il sottopassaggio, sono travolta da un’ondata di altri pendolari che si muovono in massa in direzione opposta alla mia a causa di una variazione del binario del loro treno, comunicata, come sempre, all’ultimo momento. Passata la valanga umana, il sottopassaggio rimane semi-vuoto. Dal fondo del tunnel sento echeggiare un frastornante rutto, seguito da grasse risate e commenti impronunciabili: realizzo subito che si tratta del solito gruppo di studenti svogliati, con cui spesso devo condividere il viaggio. Oggi però, per fortuna, hanno altri programmi e si dirigono allegramente verso l’uscita.

Il secondo treno è stranamente quasi vuoto e il viaggio tranquillo, nonostante ciò l’umore non migliora. Dal finestrino, guardo i girasoli rimasti nei campi. Non sembrano proprio le stesse piante di qualche mese fa, sempre alla ricerca dei raggi del sole, con i petali di quel bel colore giallo brillante che mi mette tanto di buonumore. Adesso sono smorti, avvizziti e ingobbiti, come spettri.

Arrivata a destinazione, entro nel bar. Stamani prenderò solo un caffè, non sono dell’umore giusto per il cappuccino: ho bisogno di svegliarmi. Dalla radio arrivano note inconfondibili, mi concentro sulla musica, e non sono sola: anche il barista si lascia andare e libera le sue insospettabili doti di vocalist.

Voglio una vita spericolata 

Voglio una vita come quelle dei film

Voglio una vita esagerata

Voglio una vita come Steve Mc Queen

Dalla mia borsa arriva un fastidioso beep, è un SMS: ”Ci sei vero? La riunione è alle nove e mezzo”. Rispondo velocemente: “Sto arrivando”.

Voglio una vita che non è mai tardi, di quelle che non dormi mai…

Veramente io ho un gran sonno stamani e avrei dormito volentieri un altro po’…

Voglio una vita, la voglio piena di guai…

Se faccio tardi alla riunione di stamani effettivamente potrei essere accontentata in questo senso.

Ehhhh

Ed eccolo, l’immancabile ”ehhhh” liberatorio, una costante irrinunciabile in tutte le canzoni di Vasco, per l’occasione enfatizzato e amplificato dalla possente ugola del barista.

E poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxy Bar, o forse non ci troveremo mai, ognuno a rincorrere i suoi guai.

Indugio ancora un po’ davanti al bancone: ormai voglio godermela tutta, la canzone.

Ognuno col suo viaggio ognuno diverso, ognuno in fondo perso dentro ai cazzi suoi…

Quando finalmente mi riprendo da questa specie di trance musicale, mi rendo conto che ho passato tutto il tempo a far girare a vuoto il cucchiaino nella tazzina, ancora non ho bevuto nemmeno un po’ di caffè. Ed è già freddo, accidenti.

Il silenzio dei manifesti

Ha colpito di nuovo, freddo e calcolatore come sempre. Non ha resistito neppure un giorno, appena ha visto le sue prede, non ha pianificato, non si è fatto sfuggire l’occasione. Come un predatore nella savana, ha trovato e colpito le sue vittime. Chi è? Nessuno lo sa. Nessuno conosce il suo volto. Nessuno l’ha mai visto all’opera. L’hanno soprannominato in tanti modi: il terrore delle fotomodelle, l’incubo dei pubblicitari, il fantasma del sottopassaggio.

La sua ultima apparizione risale a pochi giorni fa, quando una nota compagnia telefonica ha promosso una nuova tariffa, tappezzando la stazione e il relativo sottopassaggio con grossi manifesti, dai quali simpatici fotomodelli e fotomodelle ci invitano, in varie lingue, a prendere in considerazione l’offerta proposta. È bastata una sola notte e lui, il misterioso e oscuro serial writer, ha colpito. Ed ecco i risultati.

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Le facce sorridenti e rassicuranti sono state velocemente trasformate, grazie all’abile azione di un pennarello esperto, in smorfie grottesche. Un incisivo qua, un canino di là, tutti i volti sui manifesti sono stati sfregiati in questo modo. A differenza degli atti vandalici a cui siamo abituati, particolarmente frequenti nelle stazioni e dintorni, in questo lo sfregio è solo ed esclusivamente odontoiatrico: non ci sono altri scarabocchi, firme o scritte. E questo infittisce il mistero. Perché lo fa? Sicuramente è stato un trauma subito da piccolo. Forse, durante una rissa con dei bambini più grandi, per un cazzotto un po’ troppo forte ha perso un incisivo. O magari, qualche anno dopo, il dentista, un vecchio sadico dall’aspetto tutt’altro che rassicurante, gli ha voluto togliere un dente del giudizio senza fargli l’anestesia.

Esce la sera sul tardi, quando è buio, e si aggira circospetto per la città in cerca della prossima vittima, che non può evidentemente ribellarsi o difendersi dal suo pennarello nero. Magari a casa sua ha una stanza dove si rifugia, uno scantinato debolmente illuminato da una vecchia e polverosa lampadina a incandescenza da pochi watt. Uno di quegli scantinati che quando scendi le scale, i gradini di legno scricchiolano e senti in sottofondo una musica inquietante, che ti fa pensare “ma chi me lo fa fare di scendere fin quaggiù?”.  Lì dentro, di nascosto, colleziona riviste patinate di moda e, con perizia, sfregia, uno a uno, i sorrisi di modelle, attrici e soubrette…

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Dieci modi per perdere (e trovare, magari ritrovare) un ombrello

Una delle conseguenze del lavorare lontano da casa è che può capitare che le condizioni meteorologiche del posto dove abiti siano significativamente diverse da quelle dove lavori. Come stamani: appena uscita di casa diluviava, a destinazione il cielo era azzurro e la temperatura mite. Tra i vari disagi che una simile variabilità di condizioni comporta, c’è l’elevata probabilità di perdere l’ombrello. Ci sono varie occasioni per dimenticare l’ombrello, ne ho individuate almeno dieci, eccole qua:

 

  1. Ovviamente, sul treno. Salita affannosamente sulla carrozza, dispongo l’ombrello fradicio su quella specie di gradino sotto il finestrino. Mi metto a leggere o lavorare, sono così concentrata che mi accorgo all’ultimo di essere arrivata, rimetto il libro o il computer in borsa, indosso velocemente il giubbotto e scendo. Un attimo, ho dimenticato l’ombrello… Ma le porte si sono già richiuse e il treno sta ripartendo…
  2. Al bagno della stazione. Cerco di evitarlo quando possibile, ma certe volte non se ne può fare a meno. In questi casi cerco di limitare al massimo il contatto del mio corpo e delle mie cose con qualsiasi superficie estranea. Con una serie di manovre e contorsioni riesco a fare quello che devo fare… ed esco, dimenticando nell’angolino l’ombrello.
  3. Al bar. E’ un classico. Per evitare che il pavimento diventi una palude, il barista ha sistemato all’ingresso un bel portaombrelli. Ne approfitto per lasciarci il mio. Prendo il mio quotidiano cappuccino, intanto smette di piovere e spunta uno spicchio di cielo azzurro tra le nuvole. Rigenerata dalla caffeina e rincuorata dai raggi del sole, esco e me ne vado al lavoro… senza il mio ombrello.
  4. All’edicola. Chiedo il quotidiano, prendo dalla borsa il portafoglio, per farlo ho bisogno di due mani, per cui appoggio alla parte bassa del bancone l’ombrello. Prendo il mio quotidiano, pago, sistemo il portafoglio, chiudo la borsa ed esco… E l’ombrello?
  5. In ufficio. Ok, in questo caso non è che lo perdo, domani lo ritroverò nello stesso posto, il problema è che, se stasera quando torno piove, quando arrivo a casa non importa che faccia la doccia.
  6. Nella pizzeria a taglio dove sono andata a pranzo con i colleghi. Presi da una discussione di lavoro, abbiamo allungato la pausa pranzo, nel frattempo è smesso di piovere e quindi… addio ombrello!
  7. Sulla panchina lungo il binario, dove mi sono seduta a leggere in attesa del treno in ritardo. La lettura mi prende, sono molto concentrata e mi accorgo solo all’ultimo dell’arrivo del treno. Mi alzo velocemente, rimetto il libro a posto nella borsa e, ovviamente, dimentico l’ombrello.
  8. Nel sottopassaggio, mentre sto andando al binario giusto: mi arriva una telefonata, devo recuperare il cellulare dentro la borsa, appoggio un attimo l’ombrello alla parete e… rimane lì.
  9. Nella biglietteria o alla macchinetta. Ho la caratteristica di rimandare le cose che non mi piacciono più possibile. Pagare l’abbonamento mensile ovviamente fa parte delle cose che non mi piacciono, per cui per farlo aspetto sempre l’ultimo minuto della prima mattina del mese. Appoggio da una parte l’ombrello, prendo l’abbonamento, lo pago (ahimè) e me ne vado velocemente, perché il treno sta arrivando… Ma non dimentico niente?
  10. Sull’autobus. A volte quando piove a dirotto devo rinunciare alla passeggiata in centro e prendere questo scomodo mezzo di trasporto e tra la convalida del biglietto, la ricerca di una configurazione stabile, l’ombrello viene abbandonato da una parte…

 

Stamani sono partita da casa con un simpatico ombrello arancione, al ritorno non ce l’avevo più, secondo voi, dove l’avrò mai lasciato?

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Cronaca di un viaggio che doveva essere diverso dal solito e invece…

Una sorpresa inaspettata… Marco ed io siamo stati invitati alla presentazione di un libro che si tiene nientepopodimeno che in uno dei palazzi più belli di Roma, un posto che noi umani e pure pendolari di solito vediamo solo in tv. Ovviamente non ci siamo fatti sfuggire l’occasione e abbiamo accettato con entusiasmo. L’invito riportava che in quel luogo, per l’uomo vige l’obbligo di indossare giacca e cravatta, per la donna è richiesto un abbigliamento sobrio. Marco allora, a dieci anni dalla laurea, rispolvera la veccchia cravatta blu e io mi rassegno a passare la giornata su un paio di tacchi più alti e più scomodi del solito.

A me piacciono le scarpe con il tacco, le indosso anche volentieri, ma spesso non posso, di fatto sono incompatibili con la vita di una pendolare. Nella vita di tutti i giorni bisogna essere pronti a tutto: corse improbabili contro il tempo, lunghi tragitti in piedi strizzati tra valigie e zaini, attraversamento dei binari (lo ammetto, una volta l’ho fatto, ero proprio al limite, sono stata attenta però!).Oggi però non è un viaggio normale, oggi prendiamo il treno vip, la Frecciargento, quindi anche i tacchi ci stanno bene.

Usciamo di casa con comodo anticipo per prendere il treno per Firenze Santa Maria Novella. Piove a dirotto. Alla stazione, la prima amara sorpresa: il treno che volevamo prendere è stato cancellato a causa del maltempo e quello successivo è già segnalato con un ritardo previsto di venti minuti. Ci rendiamo conto subito che non ce la faremo a prendere in tempo la Frecciargento che abbiamo prenotato. Decidiamo di prendere la macchina fino a Firenze Rifredi, dove prevediamo che ancora sia traffico affrontabile, è più facile trovare un parcheggio e ci sono molti treni in più per raggiungere Santa Maria Novella. Inizia una corsa frenetica senza esclusione di colpi (non fisici, per fortuna) e clacsonate. Arriviamo a Rifredi e constatiamo che i “molti treni in più” su cui confidavamo, a causa delle cancellazioni e dei ritardi per il maltempo, si riducono ad uno solo. Che sta arrivando al binario cinque. Adesso. Allora, via, di corsa nel sottopassaggio, scavalcando mendicanti, studenti, gente che sta contemplando il tabellone come davanti a un’immagine sacra (solo che, invece di pregare, imprecano). Saliamo rovinosamente sul treno, siamo strizzati come le alici in un vasetto sott’olio. Io, purtroppo, sono abituata a queste cose, mi rassegno e non ci faccio troppo caso, Marco invece, inizia a brontolare.

Il treno, o meglio il contenitore di umanità compressa, si ferma dopo pochi metri dalla partenza, probabilmente il traffico ferroviario è perturbato (e anche il nostro umore) e le precedenze nella circolazione sono cambiate. Le lancette dell’orologio scorrono velocemente, la probabilità di prendere la Frecciargento diminuiscono sempre di più. Oltretutto, da inguaribili ottimisti quali siamo e soprattutto per risparmiare qualche euro, abbiamo scelto un biglietto non modificabile, in cui non sono previsti rimborsi o cambi di prenotazione.

Non abbiamo tenuto conto del fatto che il viaggiatore ferroviario è un perfetto esempio a cui si può applicare la Legge di Murphy, esiste anche un corollario il cui enunciato è più o meno questo: “Se il tuo treno è in ritardo, la coincidenza partirà puntuale”.

Quando ormai le speranze sono ridotte al minimo, il treno riparte e, seppure a passo d’uomo, arriva nella stazione di Santa Maria Novella con un margine di ben tre minuti rispetto alla partenza della Frecciargento, necessari per teletrasportarsi dal binario uno al dieci. Quindi, ancora una volta, ripartiamo con  uno scatto frenetico, con rischio di scivolamento a causa del pavimento in marmo bagnato per la pioggia.

Ma la Legge di Murphy, per fortuna, non si smentisce nemmeno in questo caso: dato che comunque, siamo arrivati con tre minuti di anticipo, le condizioni di validità del corollario che ho enunciato in precedenza non sussistono e difatti anche il Frecciargento ha quindici minuti di ritardo… E quindi, appena arriveremo a Roma, ci aspetterà una nuova corsa, ma questa è un’altra storia…

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Non sopporto

Ispirata dalle prime pagine del libro di Paolo Sorrentino che sto leggendo (Hanno tutti ragione, Universale Economica Feltrinelli), stanca, stressata e desiderosa di ferie, voglio fare un elenco delle cose che non sopporto della mia vita da pendolare.

Quindi, oggi eccomi in versione Puffo Brontolone.

Non sopporto i treni affollati, dover smettere di leggere per estrarre dalla borsa l’abbonamento richiesto dal controllore, quelli che mettono i piedi sul seggiolino, quelli che gettano la plastica nel contenitore della carta e viceversa, dover cambiare treno perché quello su cui sono salita è rotto, l’aria condizionata che non funziona, l’aria condizionata che funziona troppo, arrivare alla stazione e dover scendere quando mi manca mezza pagina per finire il capitolo del libro che sto leggendo, i libri con i capitoli troppo lunghi, arrivare in ritardo e non avere il tempo di prendere il caffè al bar della stazione, la gente che urla quando parla al cellulare, le suonerie dei cellulari sparate a tutto volume, assistere alla scenetta tra controllore e passeggero senza biglietto e senza documenti, i bambini che piangono, le panchine tutte occupate quando vorrei sedermi, gli scioperi il venerdì, quelli che rubano il rame, i turisti che invadono con le valigie il corridoio, scendere e risalire le scale del sottopassaggio per cambiare binario, incontrare una vecchia conoscenza (di cui non sentivo proprio la mancanza) e rischiare di perdere il treno perché questa ha da raccontarti tutto-vita-morte-miracoli degli ultimi dieci anni in cui non ci siamo visti.

Non sopporto non avere nessuno che mi aspetta alla stazione, aver voglia di scrivere ma non sapere cosa, avere qualcosa da scrivere ma non avere tempo perché bisogna scendere, ascoltare i resoconti del weekend il lunedì mattina, che pare che tutti siano stati in località meravigliose e abbiano avuto esperienze fantastiche mentre io sono dovuta rimanere a casa per rimettermi in pari con i panni da stirare, arrivare trafelata di corsa sul binario proprio quando il treno sta iniziando a muoversi e le porte sono ormai tutte chiuse, il cambio del binario all’ultimo minuto, avere pochi minuti, a volte secondi, per cambiare da un treno in arrivo al binario 1A ad uno in partenza al binario 17, quelli che prendono il Frecciarossa in orario mentre io sto aspettando la mia caffettiera con le ruote in ritardo, prendere finalmente il Frecciarossa e scoprire che il posto indicato sul biglietto acquistato ieri sera on line coincide con quello di altre due persone, di cui un turista tedesco che non capisce e che pensa che io sia la solita italiana-pizza-mandolino che vuole fregarlo, comprare un ombrello a cinque euro dai venditori ambulanti perché improvvisamente è iniziato a piovere, che si romperà sicuramente appena uscita dalla stazione.

Non sopporto l’odore di umanità che si spande nella carrozza nel tardo pomeriggio quando l’aria condizionata è rotta, i cartelli gialli alle porte rotte, lo spread e il bund, le notizie catastrofiche riportate sui giornali gratuiti distribuiti alla stazione, le mamme che brontolano i bambini che piangono, il telefono che squilla mentre mi sto preparando per scendere, i finestrini bloccati, le porte aperte delle toilette, svegliarsi di soprassalto al suono della sveglia, addormentarsi alle nove di sera davanti alla televisione per la stanchezza accumulata durante il giorno, le pareti del sottopassaggio imbrattate dalle scritte, quelli che ogni  giorno mi si avvicinano per chiedermi qualche spicciolo benedicendo la mia famiglia e raccontandomi per l’ennesima volta tutte le loro sventure, non trovare l’abbonamento nella borsa perché l’ultima volta  il controllore me l’ha chiesto appena prima di scendere e per la fretta non l’ho rimesso nel solito posto.

Non sopporto il salasso al conto corrente che devo fare ogni inizio del mese per rinnovare l’abbonamento, il caldo torrido dell’estate se non sono in ferie, bruciarsi il palato con il caffè bollente, perché sono arrivata tardi stamani, ma non troppo tardi da doverci rinunciare, la nebbia che fa svolazzare i capelli stirati ieri dal parrucchiere, l’affollamento sull’autobus, il treno in ritardo quando ho un appuntamento importante al lavoro, il treno in ritardo la sera quando devo tornare a casa, il treno in ritardo, sempre.

Non sopporto i bivacchi nella stazione, quelli che chiedono di firmare per una petizione e poi chiedono un contributo per sostenere le loro iniziative, gli adolescenti che dicono le parolacce e bestemmiano in modo raccapricciante, la gita della scuola, l’uscita degli scout con i loro zaini megalitici, la gita dei pensionati, che attaccano discorso a chiunque gli capiti a tiro, quelli che dicono “si stava meglio quando si stava peggio”, quelli che dicono che i giovani di oggi non sono buoni a niente, le coppiette di adolescenti che stanno tutto il tempo del viaggio a baciarsi, le ragazzine che passano tutto il viaggio a discutere di smalti, i professori delle scuole superiori che si lamentano dell’inadeguatezza e della maleducazione dei loro studenti.

Non sopporto gli uomini d’affari impinguinati che passano il tempo del viaggio al telefono, discutendo le loro strategie vincenti, le signore che, andando a una visita medica, ritengono opportuno informare chiunque sul loro stato di salute e sull’originalità e gravità dei loro sintomi, gli aumenti del prezzo dell’abbonamento, dimenticarsi di convalidare il biglietto, i surgelati, quelli che salgono sul treno prima di far scendere le persone che sono arrivate, quelli che si piazzano proprio davanti alla porta ostacolando chi vuole scendere, la voce della macchinetta dei biglietti che esclama a tutto volume: “inserire la carta!!!”, non avere lo spazio libero accanto per posare la borsa, l’inizio della scuola, le toilette delle stazioni, la voce dell’altoparlante che mi informa che il treno che sto aspettando “oggi non sarà effettuato, ci scusiamo per il disagio”.

Amnesie e allucinazioni mattutine

Scendo dal primo treno della mattina e, visto che è stranamente in orario, posso impiegare parte dei minuti che mancano alla partenza del secondo per prendermi un caffè. Mentre percorro il breve tragitto tra il binario e il bar della stazione, ancora tra il sonno, mi accorgo di una donna che, fissandomi, si sta dirigendo verso di me, sorridendo.

Il viso ha qualcosa di vagamente familiare, ma non lo riconosco, non riesco a ricollegarlo a un nome o a un evento, insomma, non so proprio chi sia. Mentre si avvicina, la sento pronunciare un allegro “Buongiorno!”.

Sono sempre più in crisi, che sia una vecchia compagna di scuola? Oppure, magari, dell’università? O la commessa di un negozio dove di recente ho comprato qualcosa? Niente. Buio completo. “Eccoci!” penso, “Questa è proprio una bella amnesia, sintomo di vecchiaia incipiente…”. Inizio a preoccuparmi seriamente, deve essere colpa dello stress, sto lavorando davvero troppo in questo periodo, intanto continuo a rovistare nei cassetti della memoria, tra i file del mio hard disk.

Ormai è vicina, sto per rispondere al suo saluto con un altro sorridente, anche se un po’ disorientato “Buongiorno” (non posso mica passare da maleducata o da smemorata), quando il suo sguardo si sposta verso i binari dietro di me. La donna continua a sorridere e parlare, mi raggiunge e mi oltrepassa. Guardando meglio, vedo spuntare, tra i capelli e il foulard, il filo di una cuffia, collegata a un cellulare.

Tiro un sospiro di sollievo, in realtà stava soltanto chiamando qualcuno al telefono utilizzando un auricolare e casualmente aveva guardato nella mia direzione, il suo saluto non era diretto a me! E` effettivamente una perfetta sconosciuta. Menomale, non sono impazzita e non ho perso la memoria (almeno per ora)!