Pendolo a Busan

Una trasferta di lavoro organizzata in fretta e furia mi ha strappata via per una settimana dalla consueta vita pendolare e catapultata in Corea del Sud, a Busan, per la precisione. La cosa non mi è dispiaciuta poi tantissimo, è stata pur sempre l’occasione di conoscere un pezzo di mondo che mi mancava.

Per i trasferimenti quotidiani tra l’hotel e la sede in cui avevo l’impegno lavorativo ho utilizzato ovviamente i mezzi pubblici, la metropolitana in particolare. E così per una volta sono stata io la straniera, la viaggiatrice svampita, sempre in mezzo, a disturbare il normale flusso dei pendolari-automi attraverso i corridoi delle stazioni, che non sa mai dove andare, con la mappa in mano, che cerca di capire qualcosa nelle misteriose iscrizioni in questa lingua di cui non conosce nemmeno l’alfabeto.

Il primo impatto è stato disorientante, veramente.

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Le uniche facce amiche e sorridenti mi sembravano quelle dei numerosi cartelloni pubblicitari.

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Anche qui i viaggiatori devono stare lontani dalla linea gialla.

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E anche qui i pendolari devono essere piuttosto stressati, a giudicare dai manifesti pubblicitari (dei quali comprendo solo i disegni).

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Anche se hanno a disposizione, nelle zone di attesa delle stazioni, dei graziosi angoli con tanto verde e giochi d’acqua, per ritemprare lo spirito.

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Non mancano i colori accesi, nei cartelli informativi, nei distributori di bevande.

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Non c’è troppa calca, neppure nelle ore di punta.

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Le fermate vicino alle spiagge hanno decorazioni che ricordano il mare, quando la metro vi si avvicina, oltre al consueto (per me quasi incomprensibile) annuncio, dall’altoparlante si sente il rumore dei gabbiani.

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E i pendolari? Che fanno, i pendolari, in Corea del Sud? Beh, più o meno quello che facciamo noi…

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Non ho visto molti libri cartacei, anzi, a dire il vero, solo uno… e, ispirata da Pendolante, mi sono sbrigata a fotografarlo. Potrei mandarlo a Cartaresistente, ma non ho nessuna idea di autore e titolo…

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Rispetto al pendolarismo normale, qui devo fare un tragitto ben più breve, non faccio in tempo a sedermi che sono già arrivata.

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Ormai mi sono ambientata, dai, vado spedita per i meandri delle stazioni sotterranee come i pendolari autoctoni, ma la vac… ehm trasferta di lavoro già volge al termine. Dalla prossima settimana si riparte con il pendolarismo “nostrano”!

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Enigmi pendolari

In questo periodo dell’anno, non ancora abituata al caldo, durante il viaggio di ritorno sono più stanca del solito. Per questo motivo oggi pomeriggio decido di passare i dodici minuti di attesa tra un treno e l’altro nella sala d’attesa della stazione, dove la temperatura è più clemente e posso stare seduta. Sono in compagnia di vari personaggi: un uomo che dorme sdraiato su una delle panchine della sala, un altro che guarda nervosamente il tabellone con gli orari di partenza dei treni, una suora impegnata in una vivace conversazione telefonica, una donna elegante, con una grossa borsa di pelle chiara, anche lei alle prese con il suo smartphone, seduta alla mia sinistra.

L’attesa è monotona e tranquilla finché nella saletta irrompono quattro adolescenti: tre ragazzi e una ragazza, allegri e spensierati. Dagli asciugamani colorati che spuntano dai rispettivi zaini, dagli abiti sbracciati e dalle ciabattine ai piedi deduco che devono aver passato la giornata in piscina. Beati loro.

Chiacchierando e ridendo rumorosamente si siedono nei posti liberi accanto alla signora con la borsa elegante, dalla parte opposta rispetto alla mia.

“Dai ragazzi, si va un po’ avanti?”, propone uno dei quattro.

“Sì, vediamo se ce la facciamo ad arrivare in fondo!”, risponde la ragazza.

“No, dai, ancora?! Che palle!”, replica un terzo.

Il promotore prende dallo zaino una copia dell’inconfondibile e inimitabile “Settimana Enigmistica”, con le pagine tutte arricciate sugli angoli.

“Dove eravamo arrivati? Ah, ok, ci sono. Questa è difficile: Castruccio, famoso nobile di Lucca!”.

“Quante lettere?”

“Tante, è una parola lunga…”

“Boh, io non la so.”

“Io nemmeno, proviamo ad andare avanti, magari dopo ci viene in mente…”

“Va bene, quindici orizzontale: Valutazione del perito…

“Come si dice quella cosa che fa il perito? Giudizio?”

“No, il giudizio lo fa il giudice, non il perito. Quante lettere?”

“Sette, la terza è una erre!”

La signora accanto a me distoglie l’attenzione dal cellulare e si drizza sulla schiena, come una scolara diligente che sa la risposta alla domanda del professore e freme dalla voglia di dirla.

Perizia”, mormora, “la valutazione del perito è la perizia!”, lo dice titubando, a mezza voce, i ragazzi non la sentono. La sento io, e mi volto inconsciamente verso di lei. Accortasi che la sto ascoltando, è allora a me che si rivolge: “Non è perizia?”.

Annuisco un po’ imbarazzata, non era mia intenzione intromettermi nella ludica discussione.

“Dai, proviamone un’altra”, incalza la ragazzina, rivolgendosi all’amico con il giornalino.

“Questa forse ce la facciamo: Zingara spagnola, sei lettere, finisce con la A”.

Ancora una volta, è a me che la signora si rivolge: “Secondo me è nomade, sei lettere, ci sta, no?”.

Questa volta non la assecondo: prima di tutto perché non sono per niente convinta della correttezza della sua risposta, e poi sto rispondendo a un messaggio con il cellulare.

“Ragazzi, facciamo pena, non ne sappiamo una!”, commenta il ragazzo che non aveva voglia di fare il cruciverba.

“Aspettate, non vi scoraggiate! Questa ce la possiamo fare, sono solo tre lettere: Donne molto devote…”

Ora, io non sono un’esperta di Settimana Enigmistica, ma dal poco che so, questa è una delle definizioni che c’è sempre, in ogni cruciverba che si rispetti.

Anche la signora al mio fianco è sicura, questa volta, e finalmente declama con voce chiara e udibile in tutta la sala: “Pie! Le donne molto devote sono Pie!”.

Il promotore dei quiz conferma: “E’ vero, Pie!”, e compila diligentemente le tre caselle corrispondenti nello schema.

Mi viene da guardare verso la suora, come se fosse in qualche modo chiamata in causa da questa definizione, ma è troppo concentrata nella sua telefonata e pare non curarsi minimamente dei dubbi enigmistici degli altri viaggiatori della sala d’attesa.

“E’ come mia nonna!”, aggiunge la ragazza, compiaciuta, “Anche mia nonna è bravissima a fare i cruciverba, indovina sempre!”.

Ecco, fossi stata nei panni della signora, questo paragone con la nonna della giovane non mi avrebbe fatto molto piacere: noi donne, si sa, arrivate a una certa soglia, siamo piuttosto suscettibili ai confronti anagrafici, seppure indiretti, a nostro sfavore. Voglio dire: se avesse detto: “E’ come mia sorella…”, o, più realisticamente, “E’ come mia mamma…” sarebbe stato un altro conto, insomma. Ma la signora non sembra dar peso alla cosa, anzi, mi pare molto soddisfatta di aver richiamato l’attenzione dei quattro e di poter finalmente contribuire con la sua esperienza alla soluzione del cruciverba.

E, infatti, incalza subito: “La definizione di prima, quella della zingara spagnola, secondo me la risposta è Nomade!”.

Il ragazzo con la Settimana replica, giustamente: “Non mi torna, dovrebbe finire con la A!”.

E la signora, prontamente: “Allora sarà nomadA!”.

Vedendo un po’ di perplessità nei quattro, è a me che si rivolge, di nuovo: “Perché, non si dice nomadA?”.

Non mi va di ribattere, perché questo comporterebbe la mia inclusione nel gruppo di lavoro del cruciverba  e non ne ho molta voglia. Tentenno qualche istante, poi, inaspettatamente, è la voce impassibile dall’altoparlante a salvarmi, annunciando l’imminente arrivo del mio treno. Prendo le mie cose, mi alzo, saluto con un sorriso la combriccola improvvisata e me ne vado al binario… portando con me la soluzione dell’enigma… 🙂

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La ragazza del treno

Rachel è una donna sulla trentina con alle spalle un matrimonio naufragato e una gravidanza tanto desiderata ma mai realizzata. Non ha amici, non ha una famiglia, non ha una casa. Divide un appartamento con una coinquilina/padrona di casa carina e perfettina, che con i suoi modi gentili la fa sentire ancora più brutta e inadeguata. Quando il mondo intorno a lei inizia a scricchiolare, quando sente che non ce la fa più, cerca un’evasione bevendo. L’alcol non solo la consola, ma la trasforma in qualcosa che non è, le fa compiere azioni sciocche e imprudenti, di cui neppure si ricorda, una volta smaltita la sbornia.

L’unica parentesi in qualche modo piacevole, in questa esistenza che sta cadendo a pezzi, è rappresentata, pensate un po’, dal quotidiano viaggio in treno che la porta da Ashbury, nella periferia di Londra, dove vive, a Euston. Dal finestrino osserva scorrere il mondo, là fuori, e per un po’ dimentica tutti i suoi problemi.

Lungo il percorso c’è un segnale ferroviario che impone al treno una breve sosta, ogni giorno, nello stesso punto. Ogni giorno, a causa di questa fermata, Rachel si trova, solo per qualche minuto, a osservare una villetta in cui vive una giovane coppia, dall’apparenza serena e spensierata. Sono belli, sono felici, sono perfetti. La vita che Rachel avrebbe sempre voluto avere, che per qualche tempo ha avuto, e che le è stata portata via. Ha persino dato un nome alla giovane coppia di sconosciuti: sono Jess e Jason, nella sua immaginazione.

Una mattina però, dal finestrino del treno, Rachel vede qualcosa che non va, qualcosa che incrina l’immagine di pura felicità che si era costruita dei due. Qualcosa che la fa infuriare più di quanto sia logico aspettarsi. In fondo, si tratta solo di due sconosciuti, o no? E quando si sente così lei non riesce a non ricadere, come al solito, nell’alcol. Da quel momento, da quel flash, tutto cambia, e la grigia esistenza di Rachel precipita in un vortice di intrighi, menzogne, tradimenti e drammi.

E non vi dico altro, non voglio anticipare troppo…

È l’inizio del libro The girl on the train, di Paula Hawkins, Doubleday 2015, un thriller ambientato nel mondo dei pendolari di Londra.

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Ho trovato questo libro nel reparto “novità” di una libreria a Londra, durante una breve vacanza fatta di recente. Appena letta la trama sul risvolto della copertina, non ho potuto fare a meno di portarmene a casa una copia. Periodicamente mi cimento in qualche lettura in inglese per cercare di arricchire un po’ la mia conoscenza della lingua, che è piuttosto artigianale, e integrare il mio lessico. Scelgo solitamente libri non troppo complicati e con una trama avvincente, altrimenti mi scoraggio e lascio perdere. Il libro di Paula Hawkings mi sembrava  proprio una buona opportunità, vista la trama e l’ambientazione pendolare, e, in effetti, la storia mi ha preso fin dalle prime pagine. Nonostante le mie difficoltà con l’inglese, l’ho finito in appena una settimana! Quasi quasi, quando uscirà, lo rileggerò anche in italiano…

Il libro dovrebbe uscire in Italia a giugno, l’ho letto qui:

http://www.illibraio.it/la-ragazza-del-treno-e-il-coinvolgimento-dei-librai-187136/

Ulteriori informazioni sull’edizione italiana sono invece disponibili qui:

http://www.edizpiemme.it/libri/la-ragazza-del-treno

Vi lascio un piccolo assaggio, dalle prime pagine.

The train crawls along; it judders past warehouses and water towers, bridges and sheds, past modest Victorian houses, their backs turned squarely to the track.

My head leaning against the carriage window, I watch these houses roll past me like a tracking shot in a film. I see them as other do not, even their owners probably don’t see them from this perspective. Twice a day, I am offered a view into their lives, just for a moment. There’s something comforting about the sight of strangers safe at home.

Someone’s phone is ringing an incongruously joyful and upbeat song. They’re slow to answer, it jingles on and on around me. I can feel my fellow commuters shift in their seats, rustle their newspapers, tap at their computers. The train lurches and sways around the bend, slowing as it approaches a red signal. I try not to look up, I try to read the free newspaper I was handed on my way into the station, but the words blur in front of my eyes, nothing holds my interest. In my head I can still see that little pile of clothes lying at the edge of the track, abandoned.

[…]

It’s a relief to be back on the 8.04. It’s not that I can’t wait to get into London to start my week – I don’t particularly want to be in London at all. I just want to lean back in the soft, sagging velour seat, feel the warmth of the sunshine streaming through the window, feel the carriage rock back and forth and back and forth, the comforting rhythm of wheels on tracks. I’d rather be here, looking out at the houses beside the track, than almost everywhere else…

 

Ecco un tentativo di traduzione… fatto alla mia maniera 🙂

Il treno avanza lentamente, lasciando dietro di sé magazzini, depositi di acqua, ponti e baracche, vecchie villette vittoriane, con il loro lato posteriore allineato esattamente con i binari. Con la testa è reclinata verso il finestrino, guardo queste case sparire dietro di me come una carrellata in un film. Le osservo da un punto di vista insolito, neppure i proprietari possono vederle da questa prospettiva. Due volte al giorno, posso dare un’occhiata nelle loro vite, solo per un momento.

Il telefono di qualche viaggiatore suona una melodia inadeguatamente allegra. Non risponde subito, continua a squillare intorno a me. Sento i miei vicini pendolari muoversi nei loro sedili, sfogliare i loro giornali, tamburellare con le dita sulle tastiere dei loro computer. Il treno oscilla lungo la curva, rallentando in prossimità del semaforo rosso. Provo a non guardare, provo a leggere il quotidiano gratuito che mi hanno dato alla stazione, ma le parole mi appaiono sfocate, niente cattura il mio interesse. Nella mia mente vedo ancora quel mucchietto di vestiti abbandonati lungo il bordo del binario.

 […]

È un sollievo tornare sul treno delle 8.04. Non che io sia particolarmente impaziente di arrivare a Londra per iniziare la settimana, a dire il vero non mi interessa affatto stare a Londra. Voglio soltanto starmene qui, appoggiata al soffice, comodo sedile di velluto, sentire il calore del sole attraverso il vetro del finestrino, sentirmi cullata avanti e indietro dal vagone, con il rassicurante ritmo delle ruote sui binari. Voglio essere di nuovo qui, a guardare fuori dal finestrino le case lungo la ferrovia, più che in qualsiasi altro posto.

Buona lettura! 🙂

 

di pirati, corsari, bucanieri e guasti temporanei all’infrastruttura

Sono già alcuni minuti che cammino, su e giù, lungo la banchina in attesa del treno, quando la voce meccanica dall’altoparlante annuncia che il treno che sto aspettando “arriverà con un ritardo previsto di dieci minuti a causa di un guasto temporaneo agli impianti di circolazione”. Mmmh… la cosa non mi convince molto, di solito quando ci sono guasti di questo tipo i minuti di ritardo sono ben più di dieci, ma cosa posso farci? Mi rassegno a prolungare l’attesa. Dieci minuti sono troppo pochi per andare al bar fuori dalla stazione a prendere qualcosa di caldo, ma sono troppi per starsene lì in piedi ad aspettare. Nell’ultima panchina c’è un posto libero, accanto a una ragazza alle prese con il suo smartphone. Mi siedo, prendo il libro dallo zaino e riprendo la lettura dal punto in cui l’avevo lasciata, ieri sera.

Il libro è “I segreti di Londra” di Corrado Augias. Ho scelto questo saggio come lettura di oggi, perché ho recentemente soggiornato per alcuni giorni nella capitale britannica, che non avevo mai avuto occasione di conoscere “per bene”, e ne sono rimasta davvero affascinata. Dello stesso autore avevo già letto “I segreti di Parigi”, e proprio grazie a quel libro avevo avuto occasione di scoprire e visitare luoghi veramente interessanti, al di fuori delle solite mete turistiche.

Stamani parto da pagina 164, dal capitolo intitolato “Corsari, pirati e bucanieri”. Fin dall’inizio la narrazione è interessante. Chi mai si ricordava le definizioni e le differenze tra corsari, bucanieri, filibustieri, farabutti?

Stanno ormai passando i dieci minuti di ritardo previsti, quando la voce meccanica dell’altoparlante aggiorna la previsione a venti. I miei compagni di viaggio iniziano a spazientirsi: c’è chi cammina nervosamente avanti e indietro, chi inizia a brontolare, chi scende nel sottopassaggio per controllare il monitor, chi telefona per avvisare del ritardo, ecc.. Anche a me quest’annuncio provoca un certo disappunto: se lo avessi saputo subito che il ritardo era così consistente sarei potuta andare al bar ad aspettare, almeno lì l’attesa sarebbe stata un po’ più confortevole. Che faccio, ci vado ora? Ma no, per dieci minuti non ne vale la pena. Riprendo la lettura.

Inizio a figurarmi in un’isoletta dei Caraibi: spiagge bianchissime, vegetazione lussureggiante, acque cristalline su cui galleggia una grossa nave dall’aspetto sinistro, dal cui albero maestro sventola l’inconfondibile Jolly Roger.

Sulla nave, poco a poco si materializzano figure dall’aspetto affascinante e al tempo stesso grottesco, oscuro e minaccioso, ma variopinto, uomini capaci di grandi avventure e gesti ignobili e crudeli. Sono catturata dalle loro imprese, le avventure, i viaggi intorno a un mondo nuovo, enorme rispetto a quello in cui viviamo noi, in buona parte ancora sconosciuto e inaccessibile. E, ancora, gli attacchi per depredare navi cariche di tesori a loro volta sottratti dalle terre appena scoperte nel continente americano, le liti, le risse, le tempeste in mare, i naufragi, le condizioni di vita precarie.

E intanto i minuti di ritardo diventano trenta.

Conosco e ritrovo personaggi immaginari e realmente esistiti: Barbanera, Francis Drake, il Corsaro Nero, Edward Low, capitan Kidd… Leggo con interesse i riassunti delle loro vite e delle rocambolesche imprese.

Quaranta minuti… Ma dai, così non si fa, però, non possono centellinare così le informazioni! Ma come si fa? Le telefonate di aggiornamento a colleghi, compagni di scuola e familiari si infittiscono e si arricchiscono di epiteti coloriti, un gergo quasi marinaresco, quasi come quello dei protagonisti delle storie che sto leggendo. Il volume delle lamentele nelle conversazioni lungo la banchina aumenta, non è semplice rimanere concentrati nella lettura.

Leggo delle tecniche di attacco, delle armi utilizzate, delle regole di comportamento. Una vita non semplice, la loro. Se un pirata veniva giudicato colpevole di un furto, ad esempio, veniva “sbarcato su un’isola deserta con una bottiglia d’acqua, un fucile e qualche pallottola”. In caso di disobbedienza o ammutinamento erano previsti vari tipi di punizioni, fustigazioni, torture, tra cui il temutissimo “giro di chiglia”.

Cinquanta minuti, sessanta…

E alla fine sono poco meno di settanta i minuti passati su quella panchina a leggere e ormai mi manca solo mezza pagina per finire il capitolo del libro, quando finalmente appare all’orizzonte il tanto atteso vascello… ehm… treno, tra i brontolii e gli improperi degli ormai esasperati pendolari superstiti.

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Qualunque sia la verità…

“Qualunque sia la verità”, diceva lui, “essa deve dipendere da una bizzarra e rara combinazione di eventi, per cui non dobbiamo esitare ad ammettere per veri tali eventi per arrivare a una spiegazione. In mancanza di dati, dobbiamo abbandonare il metodo analitico o scientifico d’indagine e dobbiamo usare quello sintetico. In altre parole, anziché partire da eventi conosciuti e dedurre da essi ciò che è accaduto, dobbiamo fabbricare una spiegazione ipotetica che sia però compatibile con gli elementi che conosciamo. Poi metteremo a confronto la nostra spiegazione con ogni nuovo fatto che possa emergere. Se tutti i fatti s’incastreranno, vorrà dire che probabilmente siamo sulla strada giusta; e con ogni nuovo fatto questa probabilità aumenterà in progressione geometrica finché la prova non diventerà definitiva e convincente.”

Dal racconto “L’uomo con gli orologi” di Sir Arthur Conan Doyle.

Vi chiederete, ma che c’entra questa citazione con la mia  vita da pendolare? C’entra, perché l’ho ripresa da questo libro:

Delitti in Treno, AA.VV., Mystery Collector’s Edition, Polillo Editore

che ovviamente sto leggendo durante i miei quotidiani viaggi in treno 🙂

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Pendolari in moto… apparente

“Scusi, sono liberi questi posti?”

La domanda mi desta dalla lettura e dal torpore mattutino.

“Sì, sì, prego!”

Le due ragazzine si accomodano nei sedili di fronte al mio, si sfilano gli zaini e i giubbotti e si siedono. Quella a sinistra, lungo il corridoio, porta nelle orecchie un paio di cuffie bianche, collegate a un grosso smartphone dello stesso colore e ha l’aria piuttosto assonnata. L’altra è invece ben sveglia e nervosa.

“Oggi mi interroga, me lo sento…”

Annuncia a voce alta, in modo che l’amica la possa sentire nonostante le cuffie, aprendo lo zaino per estrarne un libro dall’aspetto piuttosto vissuto: i bordi sono tutti ondulati e gli spigoli arricciati. Lo apre circa a metà, in corrispondenza di uno dei tanti segnalibri adesivi disposti tra le pagine. Il testo è stato quasi integralmente pitturato con un evidenziatore rosa, a margine ci sono alcune scritte a penna, in una calligrafia rotonda e decisa. Provo un istintivo sentimento di disappunto per com’è stato trattato il povero volume, colpevole solo di voler insegnare un po’ di scienze a un’adolescente, ma poi ricordo che anch’io, quando andavo a scuola, torturavo i miei libri di testo in modo simile, con fitte note a margine e dosi massicce d’inchiostro fluorescente. Oggi non lo farei mai!

Riprendo la lettura.

Poche pagine dopo, con la coda dell’occhio noto che la giovane studentessa s’interrompe, alza gli occhi dal libro, li rivolge in un punto indefinito alla mia sinistra, nel sedile vuoto accanto a me, e inizia a recitare meccanicamente:

“Quindi… Anche se sembra che il sole si muove (ma… il congiuntivo?) rispetto alla terra da est verso ovest in realtà è la terra che si muove da ovest verso est, mentre il sole sta fermo.”

E, aggiunge con una punta d’incertezza, voltandosi verso l’amica:

“Giusto?”

La sua interlocutrice annuisce, non troppo convinta, a dire il vero.

“C’è altro da sapere sui moti apparenti?”

“Boh?!” risponde l’altra, sollevando le spalle.

“Va bene!”

Chiude il libro e lo rimette nello zaino, dalla tasca anteriore prende lo smarphone e con l’amica inizia a guardare le foto di una serata passata insieme, commentando e ridendo allegramente.

Riprendo nuovamente la lettura, ancora mancano diversi minuti all’arrivo, e penso a come Tolomeo stamani abbia perso una (o forse due?) fan. Certo, di strada ce n’è ancora tanta da fare, prima di arrivare al bosone di Higgs e ai wormhole, ma… mai dire mai!

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Pendolare multi-tasking

Vorrei invitare tutti gli sceneggiatori di fiction, fotoromanzi, telenovelas, soap opera e affini a farsi qualche viaggio su un treno pendolare, la mattina, vi assicuro che è una fonte inesauribile di ispirazione 🙂

Il treno è piuttosto affollato stamani e sono costretta a condividere lo spazio compreso tra i quattro sedili con cui è suddiviso il vagone con altre due donne. Una è seduta al mio fianco, a destra, l’altra di fronte a me. È quest’ultima, stamani, a catturare la mia attenzione. Indossa abiti e accessori scelti con cura, siede con eleganza, anche se la postura è abbastanza piegata su un lato e le gambe accavallate sconfinano nello spazio del sedile di fianco al suo, vuoto, sul quale ha sistemato le due borse che porta con sé. La testa è piegata un po’ in avanti e un po’ a sinistra, cosicché lo sguardo può concentrarsi sul tablet appoggiato sulle ginocchia, mentre la spalla e il lato sinistro della mandibola  contribuisce a sorreggere il telefonino seminascosto dai lunghi capelli biondi contro l’orecchio. Con la mano destra sfiora ritmicamente la superficie del tablet, in orizzontale e verticale, alternativamente. Di tanto in tanto dal dispositivo esce un’allegra musichetta: deve trattarsi di uno di quei giochini elettronici che vanno di moda. Allo stesso tempo porta avanti una confidenziale conversazione con l’incognito interlocutore all’altro capo del telefono. Le due azioni sono totalmente scollegate tra loro: non esiste alcuna relazione tra la traiettoria del suo indice sulla piastra di vetro e le variazioni del ritmo della voce nella comunicazione, come se fossero controllate da due processori distinti e indipendenti tra loro. A un tratto, uno squillo sonoro la distrae momentaneamente da entrambe le mansioni. Proviene da una delle due borse, anzi, per essere precisi, dal secondo telefonino, bianco in questo caso, in essa contenuto.

“Scusa, scusa, amore, aspetta un attimo, ho un’altra telefonata.”

Posa delicatamente il primo cellulare dentro la borsa, aperta, senza chiudere la comunicazione, e prende l’altro. Inizia una seconda conversazione, con lo stesso tono affettuoso e confidenziale della prima.

“Buongiorno, amore, come stai? Dormito bene? Sì, sì, anche io, sono già in treno…”

Continua così per alcuni minuti, e riprende anche l’attività ludica con il tablet. Poco prima della stazione di arrivo, si congeda frettolosamente con il secondo misterioso interlocutore:

“Amore, sono quasi arrivata, devo prepararmi per scendere, ok, ti chiamo più tardi, va bene?”

Chiude la chiamata con il telefonino bianco e riprende il primo, quello nero, che nel frattempo aveva aspettato pazientemente nella borsa.

“Scusa, amore, ci ho messo più del previsto e ora sono quasi arrivata alla stazione, ti devo salutare. Ti chiamo più tardi, ok?”

Termina anche la seconda chiamata, che poi era la prima… Mancano ancora alcuni istanti all’arrivo, il treno ha appena iniziato a rallentare. Giusto il tempo di finire la partita sul tablet, e pure con successo, a giudicare dalla festosa musichetta, prima di riporre anche questo in una delle due borse e prepararsi a scendere.

E intanto a me inizia a frullare per la testa un famoso motivo di Renato Zero…

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La bella addormentata… sul treno

Pomeriggio di inizio giugno, rientro dal lavoro, sul treno.  Il primo caldo della stagione ha un effetto soporifero su di me, ma anche sugli altri viaggiatori. Tutto lo scompartimento, stranamente, è avvolto in un silenzio ovattato: cullati dalle lievi oscillazioni sui binari, c’è chi legge, chi ascolta la musica, ma siamo tutti mezzi addormentati.

In questa scena quasi onirica a un certo punto irrompe il controllore, per la consueta verifica dei biglietti. Tutto procede regolarmente, con discrezione direi, quasi per non disturbare. Poco distante da me sono sedute due ragazze, giovani e carine, con abbigliamento estivo che lascia libere le gambe e le braccia, sulle quali sfoggiano una bella abbronzatura ambrata, il viso è nascosto da giganti occhialoni da sole. Dormono profondamente, a giudicare dalla postura stravaccata e dalla bocca semi aperta. È il loro turno per la verifica del biglietto: il controllore con discrezione accenna:

“Biglietto, prego!”

Nessun cenno di reazione.

“Biglietto, prego… ticket please…”

Ancora niente, prova delicatamente a scuotere la spalla della ragazza seduta sul lato del corridoio.

“Ticket please!”

Niente. Prova con quella seduta accanto al finestrino.

Ticket please!”

La ragazza pare riprendersi da un sonno ancestrale, come se dormisse da un secolo, con aria tra l’assonnato e l’infastidito rivolge finalmente la sua attenzione al controllore.

Ticket please!”

Ripete ormai ossessivamente il controllore. La ragazza gli risponde, non capisco in che lingua, indicando la sua amica. Intuisco che i biglietti li ha lei, che ancora giace serena tra le confortevoli braccia di Morfeo.

Il controllore risponde ancora in inglese, lei ribatte accennando a un airport. Alla fine è lui a cedere, dicendo:

“Scendete a Firenze? …Florence?

E la ragazza, con aria innocente e un po’ disorientata, tipica proprio delle turiste americane appena atterrate (un attimo, però, manca qualcosa… non hanno le tipiche mastodontiche valigie con loro!):

“Yes, Florence…

E lui:

“Va bene, via, ripasso tra un po’ allora, later…

Appena il controllore esce dallo scompartimento, le facce di entrambe le ragazze, anche quella della bella addormentata, si contraggono in una smorfia che in pochi secondi si trasforma in una grassa risata. Tra le risa, commentano la scena, in un perfetto italiano con la “c” bene aspirata.

Scendono entrambe nella mia stessa stazione, due fermate prima di Firenze Santa Maria Novella.

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Il Vade-mecum del Viaggiatore

Un po’ di tempo fa, casualmente, nel sottopassaggio della stazione, tanto per rimanere in tema, ho incontrato un libro un po’ curioso che non conoscevo.

Si tratta di “Un romanzo in vapore” di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, pubblicato nel 1856, una trentina di anni prima che nascesse il suo ben più famoso burattino.

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Nonostante il titolo, il libro non è un vero e proprio romanzo, ma piuttosto un insieme di brevi interventi a volte eterogenei tra loro, aventi come filo comune la descrizione di un viaggio in treno da Firenze a Livorno, che l’autore reputa “lungo e pericoloso”. Chissà cosa ne pensa Ilaria, che lo percorre tutti i giorni come pendolare!

Uno dei capitoli che mi ha fatto più sorridere è quasi alla fine, il XVII, intitolato “il Vade-mecum del Viaggiatore”. Molti dei punti mi sembrano ancora oggi più che mai attuali! Lo riporto qui di seguito, per  i viaggiatori di ieri, oggi e domani… buona lettura!

– Avendo necessità di partire con un dato treno, è sempre meglio giungere alla stazione dieci minuti avanti la partenza… che cinque minuti dopo.

– Procurate, dovendo comprare il biglietto, di pagare con moneta da ventiquattro carati – perché i bullettinai delle Strade-ferrate su quest’articolo sono schizzinosi fino alla nausea.

– Cercate di porre il vostro biglietto in una tasca sicura, per evitare il caso di smarrirlo, e trovarvi costretto a ripagare il prezzo di tutta la gita, con biglietto di prima classe (prepotenza che sa di Medio-Evo lontano un miglio).

– Se non vi spinge necessità o veduta economica, preferite i treni ordinari ai così detti treni diretti: perché quantunque da Firenze a Livorno lo stradale non sia lunghissimo, nonostante la natura umana, è così caduca, così esigente e così avvezzata male, che difficilmente può stare due ore di seguito, senza domandarvi qualche servigio, o qualche piacere per forza.

– Se dovete partire con un treno diretto, prima di salire in vagone fate il vostro esame di coscienza, per vedere se v’occorre nulla. Accade che, durante la gita, si fanno sentire alle volte dei bisogni più imperiosi dei bisogni sociali… e allora, credetelo a me, la gita di piacere diventa un sanguinoso epigramma.

– Sulla scelta della Classe, in cui dovete entrare, consigliatevi col vostro porta-monete. Se amate stare in piedi, entrate in quarta classe, nuovo genere di supplizio inventato recentemente, a benefizio delle persone poco facoltose, dagli azionisti delle strade ferrate.

Se poi amate l’aria fresca, la durezza delle panche e i reumi di Cervello, entrate in un vagone di terza classe e sarete esaudito.

Volendo salvare i rispetti umani e mettersi al coperto dalla sorpresa di una pioggia improvvisa o di un colpo di sole, la seconda classe è fatta apposta.

Se amate i comodi della vita, o se viaggiate per conto di qualche cliente, non c’è da esitare: la prima classe è quella che più conviene.

– Se dovete fermarvi in qualche Stazione intermedia, non vi divagate troppo: e particolarmente, non vi lasciate prendere dalle carezze di Morfeo. Rammentatevi che il sonno è traditore. Il sonno tradì Parisina – e non era in wagone!

– Viaggiando in terza o quarta classe, dove il vento ha libero dominio, sarà bene che il vostro cappello sia fortemente adeso alla vostra testa – perché restandone senza (del cappello, beninteso, non già della testa) avreste è vero, la soddisfazione di mettere il buonumore e l’ilarità in tutta la brigata, ma vi toccherebbe poi  l’umiliazione di fasciarvi il capo col fazzoletto da naso, per il rimanente del viaggio. Io non ho mai creduto che il cappello conico sia il coperchio più artistico che potesse toccare all’uomo: ma  neppure il fichu si addice gran cosa alla fisionomia maschile, specialmente se questa è fornita di baffi e fedine. Se per disgrazia il vento vi involasse il cappello, e foste di coloro che hanno la velleità di coltivare sul mento, e nei dintorni una barba alla cappuccina, allora vi consiglio piuttosto di prendere un cimurro di testa, che a fasciarvi la nuca col fazzoletto da naso. L’ilarità dei vostri compagni di viaggio, ne sono sicuro, diventerebbe smodata e provocante.

– Ogni volta che il treno è sul punto di partire, se voi parlate caldamente con la persona di faccia, procurate che tra il vostro naso e quello dell’interlocutore, ci passi una rispettosa distanza – poiché, nell’urto che si danno tra loro i wagoni, movendosi, potrebbe accadervi, come è accaduto a tanti, che il vostro interlocutore venisse a darvi un bacio (coi denti) sul tenerume delle vostre narici. Questi baci, di sovente, arrivano all’anima assai più… del primo bacio d’amore!

– Se il wagone in cui entrate vi lascia libero nella scelta del vostro posto, fate in modo di scansare la vicinanza dei ragazzi e dei parlatori di vantaggio. Tanto i primi che i secondi finirebbero per cavarvi di cervello.

– La vita è breve… ma la noia è lunga! Perciò se desiderate ammazzare in qualche modo le lunghissime ore del wagone, procacciatevi un libro… o fate mentalmente il riepilogo delle vostre passività.  

Lezioni di make-up e non solo…

 

Durante il viaggio di ritorno sono seduta accanto a tre studentesse universitarie. Come al solito, tento di estraniarmi dalle loro questioni, ma è un problema, dato che condividiamo uno spazio piuttosto ridotto. Cerco allora di distrarmi immergendomi nella lettura, ma con scarsi risultati.

Una delle tre sta copiando gli appunti della lezione a cui hanno partecipato su un quaderno dalla copertina blu. La sua calligrafia è rotonda e ampia, mentre scrive cambia spesso il colore della penna, utilizza alternativamente un bel colore azzurro, un rosa fluorescente e un viola brillante per evidenziare le cose più importanti, sottolinea, disegna cerchi, freccette con le ombre e effetti 3D e nuvolette. Questa sofisticata attività di editing degli appunti è svolta contemporaneamente a una vivace conversazione con le altre due. Ammiro la capacità con cui riesce a dissociare le due operazioni: il chiacchierare amabilmente e il copiare appunti, a me non riuscirebbe. Del resto, come darle torto, l’argomento della conversazione è sicuramente più interessante della lezione appena terminata.

La sua collega intanto sfiora in modo convulso il touch screen del suo smartphone. Trovato finalmente quello che cercava nella memoria del dispositivo, inizia a leggerlo ad alta voce alle amiche (e di conseguenza anche a me). Trattasi di una conversazione, avvenuta non so se tramite sms, email, whatsapp, chat, skype o che altro, riguardante il compleanno di una quarta amica non presente in quel momento, e soprattutto l’organizzazione dell’apericena per festeggiarlo, programmata per la sera stessa. Aggiornate le amiche con i dettagli dell’imminente rendez-vous, inizia la discussione sull’organizzazione logistica. Una delle tre, quella degli appunti,  non ha a disposizione la macchina per quella sera e per lei può essere un problema tornare a casa dopo la festa. D’accordo con le altre due tenta allora di giocare il jolly, prende il telefonino e compone il numero  fiduciosa.

“Pronto…” esclama con un’intonazione della voce approssimativamente un’ottava sopra a quella utilizzata finora.

“Amore, senti, stasera ci sarebbe il compleanno della Cate, lo festeggia al … “, (non ricordo il nome del locale) “… ti va di venire? Dai amore ci divertiamo…”

Immagino l’entusiasmo con cui l’interlocutore apprende la notizia, visto che dopo un attimo lei riprende:

“Dai, dai pucci, non essere pigro…”

Me lo immagino in quel momento il signor Pucci, spaparanzato sul divano, dopo una giornata di studio o lavoro, che stava già pregustando la serata pantofolaia: c’è anche la partita della Juve, stasera in televisione.

La ragazza continua:

“No, no che non sei solo, c’è anche il ragazzo della Simo… ma sì, vi siete conosciuti, non te lo ricordi?”

La conversazione procede con questi toni supplichevoli ma non troppo per un paio di minuti, dopo di che intuisco che l’interlocutore cede alle richieste e accetta di partecipare all’evento.

“Graziegraziegrazie amore!”

Seguono i dettagli su luogo e ora, e i saluti frettolosi, nel frattempo il tono della voce della ragazza, è tornato quello originario.

Le due amiche commentano entusiaste l’esito della telefonata:

“Beata te, se lo chiedevo al mio ragazzo sai dove mi mandava?”

“Sei proprio fortunata!”

Una volta risolto il problema logistico, si passa alla fase preparatoria vera e propria. La ragazza dello smartphone prende dalla borsa una capiente trousse, da fare invidia a Clio, la make-up artist di Real Time tv, e inizia la fase del trucco.  Come da manuale, partono realizzando la base con il fondo tinta, poi stendono gli ombretti sulle palpebre, sapientemente sfumati in modo da creare una bella ombra che enfatizza lo sguardo, con la matita scura sottolineano il bordo dell’occhio, sulla palpebra superiore disegnano una riga perfetta con l’eyeliner (come faranno, con le vibrazioni del treno!)  e infine un bel po’ di mascara.

Contrariamente a Clio, che in tv è sempre carina con le ragazze che vanno a imparare i segreti del make-up da lei, le mie tre compagne di viaggio non si risparmiano commenti pungenti e aciduli, del tipo:

“Ma guarda che sopracciglia che hai, sei peggio di Bergomi”

Oppure:

“Hai una pelle così smorta che sembri uno zombie”

E anche:

“I tuoi capelli sono orribili oggi, ti si arricciano da tutte le parti, ma ti si è rotta la piastra?”

Sentendo il commento sui capelli istintivamente porto la mano sulla testa e con amarezza realizzo che anche i miei sono tutti in disordine. Mi aspetto da un momento all’altro che rivolgano anche a me le loro sentenze, ma per fortuna pare proprio che io non ci sia, sono trasparente ai loro occhi.

Terminate le operazioni di messa a punto con una bella spazzolata ai capelli, finalmente le tre arrivano a destinazione e scendono dal treno, lasciandomi sola e meditabonda. Il vuoto del silenzio, contrapposto al fitto chiacchiericcio e alle frenetiche operazioni di pochi minuti fa, risveglia in me una sensazione fastidiosa, che avevo quasi dimenticato: quel senso di inadeguatezza che si prova nella prima parte dell’adolescenza, quando ammiri le ragazze più grandi, che si truccano, che vanno in discoteca, che hanno il ragazzo, che sono belle e sicure di sé, mentre tu sei ancora goffa, brutta e piena di brufoli. Che dire, menomale che quella fase della vita ormai l’ho passata da un bel po’…