Forse, sull’autobus…

Per evitare la pioggerella fastidiosa di questi giorni, oggi pomeriggio ho rinunciato alla consueta e salutare passeggiata dall’ufficio alla stazione e ho preso l’autobus. Nonostante sia abbastanza affollato, riesco con sollievo a trovare un posto a sedere. Fuori dal finestrino è già quasi buio e non c’è molto da vedere, per cui mi volto verso la parte interna del mezzo, per curiosare un po’ tra i miei odierni compagni di viaggio. Come al solito, quella che mi si presenta davanti è una accozzaglia di personaggi curiosi ed eterogenei. Davanti alla porta di uscita, una ragazza si sorregge con entrambe le braccia ad uno dei supporti. È piuttosto alta e sottile, indossa un elegante tailleur pantalone nero, dalla giacca s’intravede un’impeccabile camicia candida. La carnagione olivastra, i lunghi capelli lisci e corvini, gli occhi grandi e allungati svelano un’origine probabilmente mediorientale. A poca distanza, sempre in piedi, appeso a uno dei supporti verticali, un uomo di statura ben più bassa si dondola per effetto del moto del mezzo: in avanti nelle frenate, all’indietro durante le ripartenze, in direzione laterale nelle curve. Ha posato sul pavimento, tra le gambe, una borsa di carta plastificata, ornata con motivi natalizi. Nel gruppetto di sedili allineati nella parte posteriore dell’autobus noto un ragazzetto, seduto in modo scomposto, con il punto di appoggio dei glutei sul bordo anteriore della seduta, le gambe piegate in fuori, come quelle di un burattino buttato per terra a casaccio, il cavallo dei pantaloni molto prossimo alle ginocchia. Le spalle sono un po’ curve, alle orecchie porta un paio di auricolari bianchi, collegati allo smartphone stretto nella mano sinistra. In testa indossa un berretto con la visiera un po’ storta e girata verso l’alto.

Accanto a lui, un uomo magro e canuto, siede diritto con le mani sulle ginocchia, una delle due regge una borsetta di plastica bianca, senza particolari iscrizioni o marchi, con vari oggetti dentro. Ho deciso: è lui il protagonista del viaggio di oggi.

Poco dopo la mia salita, dalla borsa estrae una grossa lattina bianca, con il tappo di plastica arancione, sulla sommità, e si mette a leggere le scritte sul lato posteriore del contenitore, quelle piccoline dove sono riportate le indicazioni per l’uso e la composizione del prodotto. È una confezione di acquaragia, la riconosco. Da una parte intravedo il tipico simbolo quadrato arancione con la croce nera che avverte della pericolosità della sostanza. L’uomo si impegna molto nella lettura: strizza gli occhi per mettere meglio a fuoco i minuscoli caratteri e contemporaneamente allontana la confezione. “Perché non ho preso gli occhiali con me?” immagino che si stia domandando.

Inizia così il mio consueto passatempo dei forse. Forse sta facendo un lavoretto di restauro, a casa. Forse si tratta del vecchio mobiletto che era nel ripostiglio, quello di legno massello che sta per essere sostituito da una più pratica scaffalatura dell’Ikea, quello che dovrebbe essere gettato via, ma l’uomo c’è troppo affezionato e, allora, perché non risistemarlo e metterlo in fondo al corridoio? Forse aveva già preparato tutto: lo aveva svuotato, spostato nel garage, sistemato su un tappeto di fogli di vecchi giornali. Forse la moglie l’ha anche brontolato per la confusione. Chissà se è sposato. Sbircio l’anulare della mano sinistra: non porta la fede, rimango con il dubbio. Forse si è accorto solo alla fine che gli mancava proprio l’acquaragia, o forse l’ha finita a metà del lavoro. Forse gli è scivolato il barattolo e ha sparso tutto il contenuto sul pavimento. Forse è uscito per andare a ricomprarla lasciando tutto in disordine, tra i brontoloni della moglie: “Che confusione, ma cosa stai combinando? Sei sempre il solito!”

Forse, tutto sommato, è quasi contento che l’acquaragia sia finita. Forse il barattolo non si è rovesciato per caso. Forse ci ha ripensato, quel mobiletto non è poi un granché. Forse aveva una gran voglia di uscire e non sentire più quella brontolona. Forse gli ci voleva proprio una bella gita in uno di quei grandissimi e fornitissimi negozi di oggetti per il bricolage, dove potersi perdere in mezzo ai lunghissime scaffalature, tra scatolette, bombole di vernice di tutti i colori, attrezzi per qualsiasi necessità, cacciaviti di tutte le fogge, e, ancora, tasselli, viti, cornici, solventi, chiavi inglesi, chiavi di tutte le nazionalità, rotoloni, rotolini, sacchi di terriccio, sementi, contenitori, lampadine, mensole, pannelli di compensato… forse

Il mio fantasticare è interrotto dall’arrivo di altri due ragazzi, quasi cloni di quello seduto in fondo all’autobus: berretto con la visiera storta in testa, girata verso l’alto, jeans con il cavallo molto basso, auricolari alle orecchie. Appena intravedono il loro compagno, gli si avvicinano e lo salutano con un secco “Oh!” Si mettono a parlare e ridere sguaiatamente insieme. Dopo qualche convenevole uno dei due ultimi arrivi prende il suo smartphone, stacca le cuffie e, strisciando freneticamente l’indice sullo schermo, richiama l’attenzione degli altri due: “Oh, ragazzi, guardate qua, troppo forte!” Dal dispositivo parte una musica ritmata, riesco a intravedere sullo schermo un altro ragazzo, vestito come i tre, che canta, o, per meglio dire, recita una lunga filastrocca, la cui cadenza è sottolineata da ampi movimenti rotatori in avanti delle braccia. I tre commentano entusiasti la performance del rapper del telefonino: “Figo!” esclamano a turno.

L’uomo con l’acquaragia, seduto proprio lì accanto, smette di leggere le istruzioni sulla confezione del solvente e viene attratto dalla nuova sorgente sonora. Si protende verso il gruppetto dei tre in modo vistoso: essendo seduto in modo eretto ed essendo i sedili leggermente sopraelevati rispetto al pavimento, la sua testa li sovrasta. Inizia anche lui a fissare il piccolo schermo, come se nulla fosse, come se conoscesse bene i tre giovani. Rimangono così per alcuni istanti, finché il ragazzo seduto non si accorge della nuova presenza e si volta, rivolgendo verso l’uomo uno sguardo tra l’interrogativo e il risentito e girando le spalle in modo da chiudere il piccolo capannello ed escluderlo. L’uomo non gli dà troppo peso, continua a fissare con divertito interesse lo schermo del telefonino. Anche uno dei due ragazzi in piedi si gira verso di lui, e inizia a fissarlo, solo allora l’uomo si rende conto della sua estraneità e si rimette composto sul suo sedile. Riprende la lattina di acquaragia e ricomincia a leggere le scritte piccoline strizzando gli occhi e allungando le braccia.

Ed è così che lo lascio quando, alla fermata della stazione, scendo dall’autobus.

La ragazza afgana prende il bus

Si chiama Sharbat Gula, è nata nel 1972 ed è stata fotografata da Steve McCurry nel 1984 nel campo profughi di Peshawar.  L’immagine, splendida e nota a tutti, è stata la copertina di un famoso numero di National Geographic. A me, come a molti penso, colpisce soprattutto il verde magnetico e l’espressione indecifrabile degli occhi. Ho avuto la fortuna di visitare la mostra “Viaggio intorno all’uomo” dedicata al fotografo lo scorso anno, a Siena, mi è piaciuta tantissimo. Per l’occasione la cittadina era invasa dalle immagini dell’allora dodicenne ragazza afgana: incrociavi il suo sguardo enigmatico appena scesa dal treno, nel sottopassaggio, e poi lungo le strade, nelle vetrine dei negozi… La mostra purtroppo  si è conclusa nel mese di novembre scorso e piano piano anche le riproduzioni della famosa foto sono andate a sparire. Ma i mezzi pubblici, si sa, hanno sempre un po’ di resistenza al cambiamento e forse, chissà, si sono affezionati alla ragazzina. Tant’è che giusto ieri, a diversi mesi di distanza, ho ritrovato con piacere i magici occhi verdi su un autobus extraurbano, ed eccola qua, Sharbat Gula, nel traffico mattutino di una mattina di fine giugno…

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E’ (quasi) primavera, svegliatevi bambine!

Ieri pomeriggio invece del treno ho preso l’autobus per tornare a casa. Passo il tempo leggendo un libro e ammirando il panorama, diverso dal solito. E’ una bellissima giornata e la primavera, un po’ anticipata a dire il vero, sta iniziando a rivestire gli alberi spogli di candidi e fragili fiorellini. Ed è anche venerdì, tutto questo mi mette decisamente di buon umore.

Lo stato d’animo fresco e leggero del pomeriggio marzolino è condiviso anche dalle mie compagne di viaggio di oggi: tre ragazzine al ritorno da scuola che discorrono allegramente dei programmi per il prossimo fine settimana, del tono migliore per lo shatush che intendono farsi a breve e di chi è stato taggato di recente in qualche foto su Facebook. Gli argomenti della conversazione, in cui sono mio malgrado coinvolta a causa della ridotta distanza, non sono a dire il vero di mio interesse, per cui riesco abbastanza bene a concentrarmi sulla lettura. Ad un certo punto però la mia attenzione viene catturata.

“Ma scusa, INERZIA dove si trova di preciso? Non mi ricordo mai se è nel Molise o nella Basilicata”

“Come?”

“INERZIA, la città, dove si trova?”

“Ah, Ah, che scema che sei, INERZIA non è mica una città!”

“Ma che dici?”

“INERZIA non è mica un posto!”

“E che cosa sarebbe allora?”

“E’ uno stato d’animo, tipo: io oggi ho l’INERZIA…”

“E cosa vorrebbe dire?”

“E’ come la depressione, l’INERZIA insomma…”

Penso che anche a Galileo, se fosse stato su quell’autobus al posto mio, sarebbe venuta l’INERZIA e invece di scrivere tanti Dialoghi e Discorsi, sarebbe andato di corsa dal suo parrucchiere di fiducia a farsi lo shatush alla barba 😀

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Cosa non farò quando andrò in pensione

… se mai ci andrò, ma questa è un’altra storia.

Non andrò alla posta alle otto di mattina, come dovevo fare per forza quando andavo a lavorare e non intaserò per mezza mattinata lo sportello perché non mi torna il conto della pensione di questo mese.

Non andrò al supermercato il sabato mattina.

Se proprio dovrò andarci, non assalirò come una furia il reparto delle offerte, pretendendo di acquistare il massimo possibile dei prodotti scontati, come se dovessi accaparrarmi beni di prima necessità per un evento bellico imminente.

Non palperò con metodica assiduità tutte le mele e tutti i pomodori del reparto ortofrutta, non busserò contro tutti i cocomeri per trovare quello migliore, maturo al punto giusto, anche perché non ho mai capito e probabilmente mai capirò  che suono fa un cocomero buono.

Se, al mercato, sul treno, sull’autobus, in coda alla posta, in coda dal dottore, incontrerò qualche mia amica, non inizierò con i resoconti tipo bollettino di guerra, su chi è morto questa settimana e come, su chi si è sentito male ed è stato ricoverato. Non informerò il mondo che mi circonda sulla salute mia e dei miei familiari, non descriverò a tutte le persone che condividono il mio spazio i dettagli più raccapriccianti delle malattie che ho avuto.

In luoghi pubblici, dove altri sono costretti a sentire i miei sproloqui, non lancerò critiche generiche sulle generazioni che mi seguiranno, della serie “… i giovani di oggi non sono buoni a niente, non capiscono niente eccetera”, salvo poi, un attimo dopo, decantare le fantastiche doti della mia nipotina (ammesso che ne abbia mai una), che è la prima della classe,  è la più brava della scuola di danza e le hanno assegnato il ruolo da protagonista nel saggio di Natale, suona il violoncello e ha vinto il titolo di Piccola Miss del quartiere.

Non prenderò l’autobus per andare al mercato nell’orario di spostamento dei pendolari. Che cavolo ci andrei a fare, alle otto e mezzo di mattina, al mercato? Potrei benissimo andarci alle dieci quando i pendolari sono già al lavoro, no?

Non salirò sull’autobus con il carrellino pieno zeppo di spesa, pretendendo di andare a sedere nel posto più distante da me.

Non brontolerò continuamente, rivolta alla ragazza di colore vistosamente incinta e con un bimbo piccolo in collo, che “… questi stranieri sono proprio maleducati, non lasciano il posto a sedere alle persone anziane, vorrei vedere se lo facessero nel loro paese… ” e discorsi qualunquisti/razzisti di questo genere.

Ma soprattutto, non mi alzerò dal mio posto a sedere, ottenuto facendo valere i miei diritti di anzianità su un povero studente assonnato, sette fermate prima della mia, che poi è anche il capolinea dove scendono tutti, spingendo, calpestando, molestando i poveri passeggeri appesi ai supporti in modo precario e pressati come in una scatola di sardine, gridando ogni volta, nelle orecchie del malcapitato “Scende alla prossima lei? Si può spostare un pochinino? C’è gente che deve scendere! Oh! Non si spostano mica sai…”,  per poi centrare, con il mezzo tacco della scarpa sinistra, di cuoio nero con una bella fibbia dorata, molto bon-ton devo dire, l’alluce destro di una povera pendolare, appena arrivata con il treno, rovinandole l’inizio della giornata.

Botta & risposta alla fermata dell’autobus

Botta & risposta tra un maturo signore e un giovincello assonnato alla fermata dell’autobus.

“Oh guarda chi c’è stamani! Si stava meglio in ferie eh!”

“Eh sì… almeno potevo dormire…” (sbadigliando rumorosamente, senza minimamente celare la bocca, spalancata come una voragine)

“Va’ va’, povero bischero, vedrai, quando tu sarai vecchio tu dormirai quanto ti pare!”

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Joseph Ducreux che sbadiglia (autoritratto del 1783 ca.), ripreso da qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Sbadiglio

Dieci modi per perdere (e trovare, magari ritrovare) un ombrello

Una delle conseguenze del lavorare lontano da casa è che può capitare che le condizioni meteorologiche del posto dove abiti siano significativamente diverse da quelle dove lavori. Come stamani: appena uscita di casa diluviava, a destinazione il cielo era azzurro e la temperatura mite. Tra i vari disagi che una simile variabilità di condizioni comporta, c’è l’elevata probabilità di perdere l’ombrello. Ci sono varie occasioni per dimenticare l’ombrello, ne ho individuate almeno dieci, eccole qua:

 

  1. Ovviamente, sul treno. Salita affannosamente sulla carrozza, dispongo l’ombrello fradicio su quella specie di gradino sotto il finestrino. Mi metto a leggere o lavorare, sono così concentrata che mi accorgo all’ultimo di essere arrivata, rimetto il libro o il computer in borsa, indosso velocemente il giubbotto e scendo. Un attimo, ho dimenticato l’ombrello… Ma le porte si sono già richiuse e il treno sta ripartendo…
  2. Al bagno della stazione. Cerco di evitarlo quando possibile, ma certe volte non se ne può fare a meno. In questi casi cerco di limitare al massimo il contatto del mio corpo e delle mie cose con qualsiasi superficie estranea. Con una serie di manovre e contorsioni riesco a fare quello che devo fare… ed esco, dimenticando nell’angolino l’ombrello.
  3. Al bar. E’ un classico. Per evitare che il pavimento diventi una palude, il barista ha sistemato all’ingresso un bel portaombrelli. Ne approfitto per lasciarci il mio. Prendo il mio quotidiano cappuccino, intanto smette di piovere e spunta uno spicchio di cielo azzurro tra le nuvole. Rigenerata dalla caffeina e rincuorata dai raggi del sole, esco e me ne vado al lavoro… senza il mio ombrello.
  4. All’edicola. Chiedo il quotidiano, prendo dalla borsa il portafoglio, per farlo ho bisogno di due mani, per cui appoggio alla parte bassa del bancone l’ombrello. Prendo il mio quotidiano, pago, sistemo il portafoglio, chiudo la borsa ed esco… E l’ombrello?
  5. In ufficio. Ok, in questo caso non è che lo perdo, domani lo ritroverò nello stesso posto, il problema è che, se stasera quando torno piove, quando arrivo a casa non importa che faccia la doccia.
  6. Nella pizzeria a taglio dove sono andata a pranzo con i colleghi. Presi da una discussione di lavoro, abbiamo allungato la pausa pranzo, nel frattempo è smesso di piovere e quindi… addio ombrello!
  7. Sulla panchina lungo il binario, dove mi sono seduta a leggere in attesa del treno in ritardo. La lettura mi prende, sono molto concentrata e mi accorgo solo all’ultimo dell’arrivo del treno. Mi alzo velocemente, rimetto il libro a posto nella borsa e, ovviamente, dimentico l’ombrello.
  8. Nel sottopassaggio, mentre sto andando al binario giusto: mi arriva una telefonata, devo recuperare il cellulare dentro la borsa, appoggio un attimo l’ombrello alla parete e… rimane lì.
  9. Nella biglietteria o alla macchinetta. Ho la caratteristica di rimandare le cose che non mi piacciono più possibile. Pagare l’abbonamento mensile ovviamente fa parte delle cose che non mi piacciono, per cui per farlo aspetto sempre l’ultimo minuto della prima mattina del mese. Appoggio da una parte l’ombrello, prendo l’abbonamento, lo pago (ahimè) e me ne vado velocemente, perché il treno sta arrivando… Ma non dimentico niente?
  10. Sull’autobus. A volte quando piove a dirotto devo rinunciare alla passeggiata in centro e prendere questo scomodo mezzo di trasporto e tra la convalida del biglietto, la ricerca di una configurazione stabile, l’ombrello viene abbandonato da una parte…

 

Stamani sono partita da casa con un simpatico ombrello arancione, al ritorno non ce l’avevo più, secondo voi, dove l’avrò mai lasciato?

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Pendolari in umido

Piove, senti come piove, Madonna come piove, senti come viene giù… Piove, senti come piove, Madonna come piove, senti come viene giù… Cantava Jovanotti un po’ di tempo fa.

Quando piove, la vita del pendolare si complica ulteriormente. Peggiorano le condizioni del traffico, i ritardi dei treni, e poi lungo tratti a piedi bisogna stare più attenti: le macchine che passano sulle pozzanghere, i passanti che ti vengono incontro a testa bassa puntandoti addosso l’ombrello come un ariete, rischiando di accecarti con le stecche. Insomma, un inferno.

Intendiamoci, a me la pioggia piace. Quando sono in casa e non devo uscire. Quando d’estate ci sono quaranta gradi e porta un po’ di refrigerio. Quando sono sotto le coperte e sento le gocce picchiettare sui vetri della finestra. Ma non oggi, proprio, oggi, no.

E’ lunedì, la settimana è iniziata normalmente, la giornata è passata con le consuete attività. Manca solo un’ora, sto completando le ultime cose, quando sento il rumore di una chiamata su Skype. Mi hanno convocata in una riunione non prevista, dobbiamo pianificare un nuovo progetto, la scadenza è a breve e la nostra presenza è strategica. In altri termini, stasera devo rimanere al lavoro un’ora in più. Vabbè, non è la prima volta, non sarà certo l’ultima. La riunione si svolge senza grosse sorprese, esco, come previsto, un’ora dopo il consueto. Se tutto va bene, riuscirò a prendere il treno delle diciotto e trenta.

Se tutto va bene.

Nel frattempo, arriva il diluvio. Inizia una pioggia fitta e insistente, intervallata da brevi ma frequenti scrosci. Con queste condizioni meteo, vado a prendere l’autobus. Mentre mi avvicino alla fermata, rischio di essere investita da un’automobile sulle strisce pedonali. Gli automobilisti con la pioggia diventano particolarmente aggressivi. Non mi investe, per fortuna, ma già che c’è pensa bene di passare sopra a una pozzanghera e farmi una bella doccia. Maledico lui e anche qualche suo consanguineo. Sotto la pensilina dell’autobus, siamo tutti stipati e fradici. L’autobus passa con quindici minuti di ritardo, pieno zeppo di gente con ombrelli gocciolanti. E’ il caos. Le più comuni norme di civile convivenza sono totalmente disattese: adolescenti che rubano il posto a sedere agli anziani, gente che sale prima di far scendere, un sottofondo di turpiloqui di vario genere. Ad un certo punto una donna che sta per scendere pensa bene di aprire l’ombrello dentro al bus, si incastra nella porta, ostruendo il passaggio sia a quelli che salgono che a quelli che devono uscire. Alla fermata dopo sale un venditore ambulante, con una grossa borsa di plastica azzurra e un minuscolo ombrello a fiori. Esclama: “Porco diavolo, si stava meglio in Africa!” Come dargli torto, in questi momenti!  L’autobus si infogna nel traffico intorno a una rotonda vicino alla stazione. Anche se non sono esperta di rotonde, quella lì deve essere stata proprio progettata male, visto che, invece di favorire il deflusso del traffico, lo congestiona in modo impressionante. Ormai ho la certezza di aver perso il treno. Scendo dall’autobus, entro nella stazione e un barlume di speranza si riaccende: il mio treno ha dieci minuti di ritardo e sta partendo in quel momento. Ovviamente oggi è al binario più lontano, quello senza nemmeno la pensilina. Con altri due pendolari iniziamo lo scatto verso il binario cinque. Una corsa ad ostacoli oggi resa ancor più interessante dal pavimento scivoloso, segnalato da quei simpatici cartelli gialli con disegnato un omino in procinto di cadere. La discesa delle scale del sottopassaggio, rivestite in travertino, è particolarmente insidiosa. Risalgo i gradini del sottopassaggio a due a due. Arrivata in cima però, la delusione: il treno ha già le porte chiuse e sta iniziando  muoversi. Dal finestrino, il capotreno ci guarda, stringe le spalle e ci fa un mezzo sorriso, che vorrebbe forse essere di scusa e di comprensione, ma a me sembra più un sadico ghigno soddisfatto.

Mi rassegno ad aspettare, con i piedi fradici e l’umore nero che più nero non si può, altri cinquanta minuti per il treno successivo.

Do you speak English?

Oggi* cambio di orario e di mezzo. Sono seduta nella sala d’attesa della stazione degli autobus, aspettando la mia corsa, prevista in partenza per le 13.35. Accanto a me un turista giapponese fissa  già da un po’ la stessa pagina della guida che ha in mano, probabilmente si è appisolato, ma da qui non riesco a capire bene. Ecco arrivare due adolescenti appena usciti da scuola, strascicando i piedi: il primo è esile e minuto, ha una criniera bionda che gli scende fin sulle spalle, abbigliamento e accessori da metallaro, il secondo, un po’ più alto e robusto, sfoggia una bella acconciatura da “Ultimo dei Mohicani” e una ricca collezione di pearcing sulle orecchie e sul sopracciglio sinistro. Alla mia sinistra, all’angolo, una tranquilla signora, ha con se una piccola valigia un po’ rétro, piena zeppa.

Al nostro eterogeneo gruppetto in attesa si avvicina un’altra signora, visibilmente disorientata, visibilmente nord-europea, guardando alternativamente una mappa che regge con la mano sinistra, essendo la destra impegnata nel trascinare un trolley blu scuro, e un punto imprecisato di un orizzonte che non esiste, essendo tutti noi dentro a un’autostazione.

La nuova arrivata si siede titubante accanto all’altra signora, le due sono quasi coetanee, stimo, ma totalmente diverse tra loro: la prima arrivata è bassa, cicciottella, con i capelli mori raccolti dietro la nuca, la turista disorientata è invece alta, magra, con un collo molto lungo e capelli biondissimi tagliati a caschetto. Lo so, la descrizione sembra un po’ stereotipata, ma è proprio così che erano queste due mie compagne di attesa di autobus delle 13.35 di ieri.

Dopo un breve sorriso e un educato saluto, la signora appena arrivata rivolge all’altra la classica domanda:

“Exuse me, do you speak English?”

L’altra rimane un attimo interdetta, inizia a scuotere la testa per negare, ma non fa in tempo a rispondere niente che la nostra turista continua:

“I need to go to S’nta M’ria N’v’lla railway station…”

Nel sentire le parole “Santa”, “Maria” e “Novella” la passeggera autoctona si illumina. Certo che lo sa dov’è! E non sarà certo la non conoscenza della lingua a impedirle di comunicarlo. Insomma, siamo o no discendenti di Marco Polo e Cristoforo Colombo? Figuriamoci se non riuscirà a far capire da questa turista danese, tedesca, olandese o qualsiasi cosa sia, dov’è la stazione di Santa Maria Novella (che, tra l’altro, è vicinissima: basta uscire dal garage degli autobus e ce la troviamo praticamente davanti).

Inizia così una descrizione del percorso a metà tra lo spettacolo di un mimo e i comunicati della sicurezza delle hostess sugli aerei prima del decollo:

“Allora, qui fuori a destra…”

(nel pronunciare la parola destra solleva vistosamente il corrispondente braccio per far capire bene la direzione)

“…c’è l’USCITA, U-SCI-TA…”

(scandisce bene la parola USCITA, con volume molto alto, come se la non conoscenza della lingua italiana della povera turista dovesse essere necessariamente accompagnato a una qualche forma di sordità, e tracciando con gli indici delle sue mani, nello spazio davanti a lei, la parte superiore di un rettangolo delle dimensioni approssimative di una porta)

“… poi gira a sinistra…”

(evidenzia l’azione mostrando il braccio corrispondente, il sinistro in questo caso, e flettendo il polso ad angolo retto, in quello che nel suo linguaggio corporale dovrebbe rappresentare l’atto dello svoltare)

“… e va avanti per venti metri…”

(il venti è facile da rappresentare, basta mostrare per due volte le dieci dita di entrambe le mani, per essere sicura ripete questa operazione due volte, per un totale di quaranta dita)

“… poi attraversa al semaforo …”

(rappresentato formando un cerchio con i pollici e gli indici delle due mani)

“… e sale le scalette …”

(per spiegare l’azione del salire le scale, fa oscillare alternativamente indice e medio della mano destra, mentre il polso descrive una traiettoria ascendente)

“… e così arriva a Santa Maria Novella.”

La signora nord-europea osserva, durante la descrizione, con aria piuttosto dubbiosa, e ripete in scala ridotta le coreografie della sua improvvisata guida, per fissare bene le informazioni ricevute. Appena sente dire “Santa Maria Novella” capisce che il percorso virtuale è giunto a destinazione e ringrazia gentilmente. Il suo sguardo mi ricorda quello mio e dei miei compagni di classe quando il professore di chimica, alla fine della lezione, ci chiedeva: “E’ tutto chiaro?” Ed era chiaro che niente era chiaro, ma nessuno osava farglielo notare, per evitare che ripartisse con la supercazzola. E infatti la nostra turista si affretta ad alzarsi, riprende mappa e trolley, saluta educatamente tutto il gruppetto, compresi i due metallari, che ricambiano con uno sguardo distratto, e si avvia velocemente verso l’uscita.

* (in realtà la storia è di ieri ma solo oggi ho avuto tempo per trascriverla e pubblicarla)

Michelle Schumacher

In questi giorni fa troppo caldo per percorrere a piedi il tragitto dall’ufficio e la stazione, soprattutto al ritorno, il pomeriggio, per cui prendo l’autobus. La strada percorsa diventa più lunga, perché a piedi taglio attraverso il centro, mentre il bus passa da fuori, lungo una strada piena di curve e saliscendi. Sono arrivata alla fermata da poco, manca ancora un paio di minuti prima dell’orario previsto, quando vedo arrivare il mezzo a velocità sostenuta. Immagino che alla guida ci sia un autista scoglionato e sudaticcio, che sta per finire il turno e ha fretta di arrivare al capolinea per staccare e tornare a casa. Invece l’autista di oggi, o meglio, direi la pilota, è una ragazza che dall’aspetto avrà poco più di venti anni, minuta e carina. Mi fa piacere, mi sono simpatiche le ragazze che fanno professioni che nell’immaginario collettivo sono riservate agli uomini.

Appena salita, mi sorprende una brusca accelerazione che mi fa retrocedere di quasi un metro (per fortuna senza investire nessuno!). Non ci sono posti liberi a sedere, mi reggo con due mani ai sostegni, ma nonostante ciò, nelle curve, la forza centrifuga mi sballotta, rischio più volte di cadere in collo alla signora seduta davanti a me. A un tratto la velocità diminuisce bruscamente, noto che davanti a noi c’è una Panda che procede lentamente. “Che sei, imbranato? Moviti! O che gente c’è a giro per la strada, certo che la patente la danno proprio a tutti!” e via dicendo, finché finalmente la Panda svolta a destra (rientra ai box) e finalmente abbiamo strada libera e possiamo fare il record su giro. Ad un incrocio, una macchina entra un po’ all’improvviso, intralciandoci, e di nuovo parte una catena di insulti: “Ma che sei deficiente? O guarda questo rincoglionito!”. A una fermata sale un ragazzo che sta discutendo animatamente al telefono. Il tono della sua voce è un po’ alto, è vero, ma nella situazione in cui siamo non è certo un disturbo, penso. Invece lei lo rimprovera subito: “Scusi, può abbassare il tono della voce? Se tutti facessero come lei si immagina che casino?” E questo giovanottone grande e grosso, che a occhio pesa più del doppio di lei, con la coda tra le gambe, congeda il suo interlocutore con un “Ti chiamo dopo!” e si mette buono buono in un angolino. Arriviamo alla stazione con una brusca frenata (questa volta non mi lascio sorprendere, però!) sei minuti prima del solito, abbiamo battuto il record, e come premio posso anche prendermi un caffè prima di salire sul treno.