Dal finestrino della linea 6

Dopo lo scatto rubato alla lettrice della Ferrante sulla metropolitana parigina, rieccomi con alcune altre immagini dalla Ville Lumière, sempre dalla metro. Questa volta siamo sulla linea 6, quella che attraversa la Senna sul Pont de Bir-Hakeim, tra le stazioni di Passy e Bir-Hakeim, da cui si può ammirare la Tour Eiffel. Sarà banale ma è la mia linea preferita,  per il tragitto sopraelevato sui tetti della città, per le carrozze un po’ vintage, per il tipico odore di gomma bruciacchiata degli pneumatici nelle stazioni. In questa occasione mi sono divertita a fare foto volutamente mosse dei passeggeri in attesa sulla banchina, trasformati per qualche istante in evanescenti fantasmini 🙂

©vitadapendolare.wordpress.com, 2017

Tracce di umanità

Le condizioni di squallore e degrado in cui versano molte delle nostre stazioni hanno molteplici cause. Una delle principali è la consuetudine, purtroppo abbastanza diffusa, di considerarle un po’ come discariche personali, in cui possiamo liberarci comodamente dei nostri piccoli rifiuti quotidiani, senza perdere troppo tempo a cercare cestini, cassonetti, o comunque luoghi e contenitori più idonei. Cartacce, fazzolettini di carta usati, lattine, giacciono un po’ ovunque, come relitti alla deriva, contribuendo all’atmosfera sciatta e trasandata di questi luoghi.

In questo contesto poco gradevole si inserisce il mio primo incontro pendolare di oggi, a metà della scala che porta dal sottopassaggio al marciapiede lungo il binario da cui parte il mio treno. Abbandonata, su un gradino, in posizione ortogonale rispetto alla direzione di percorrenza, mi accoglie un’inusuale suola di scarpa. Usata, e anche parecchio, a giudicare dall’ombra scura che riproduce in modo inequivocabile l’impronta di colui o colei che l’ha indossata. Un’altra immagine di sciatto degrado che denuncia maleducazione e disinteresse. Eppure, inaspettatamente, non posso fare a meno di trovare, in questa scena, un qualcosa di estetico, di aggraziato, in qualche modo. Sarà la posizione, sarà il contrasto tra la forma approssimativa ma armoniosa dell’impronta e le linee nette e squadrate dei gradini e delle piastrelle, sarà il chiaroscuro, sarà che sono sveglia da poco e i miei canali percettivi sono ancora assopiti. Scatto velocemente una foto con il cellulare (lo so, non è tanto normale mettersi a fotografare suole di scarpe lungo le scale dei sottopassaggi).

Chissà di chi era? Dove stava andando? Perché? Perché proprio sui gradini, visto che a pochi metri, sul marciapiede, ci sono delle panchine (e dei cestini, anche), dove tutta l’operazione si sarebbe potuta svolgere in modo più comodo e discreto? Accompagnata da tutte queste domande filosofiche, più o meno, mi avvio a prendere il treno.

piede

Si riparte?

La sveglia. La macchinetta per fare i biglietti rotta. La coda alla biglietteria. La macchinetta per la convalida dei biglietti rotta. L’annuncio dell’arrivo del treno. La corsa su per le scale del sottopasso. La ricerca del capotreno per la convalida del biglietto. Il finale del libro iniziato sulla spiaggia. Il caffè nella stazione di cambio treno. Le chiacchiere al bancone. “Dove sei stata in ferie?”. “In Sicilia, abbiamo fatto un bel giro”. Un minuto – il tempo del caffè – di mare, ristoranti buoni, Barocco, Magna Grecia, caldo, bed and breakfast convenienti, l’anno prossimo ci ritorno. “Noi siamo stati a Ibiza, invece”. Ancora racconti. L’annuncio dell’arrivo del secondo treno. L’aria condizionata guasta. L’inizio del nuovo libro, il primo dopo la pausa estiva. Il treno che rallenta. L’arrivo in stazione. La scala mobile per risalire in centro rotta. L’ufficio. Le email. Le riunioni, i progetti, gli avanzamenti. L’agenda che inizia a riempirsi. Il mal di testa che già si riaffaccia. Il ritorno. La scala mobile ancora rotta, ma in discesa è meno importante. L’uscita dal sottopassaggio sbagliata. Il gruppetto di pendolari che parlottano tra loro, tutti contenti e abbronzati. “Quando sei rientrato?”. “Io oggi, tu invece?”. “Io la scorsa settimana”. Il controllo del biglietto. Il treno che si ferma nella stazioncina deserta per scambiarsi con quello che arriva nella direzione opposta. La collinetta di fronte alla stazione, più brulla di come l’avevo lasciata prima delle ferie. Altri racconti di vacanze. Altre spiagge, altri mari, altre gite, altri bed and breakfast convenienti. La Sicilia e la Croazia sono le mete più gettonate, quest’anno, tra i miei compagni di viaggio. “Io sono stato a vedere l’Expo”. “Ne vale la pena?”. “Mah, c’è da fare un sacco di coda”. L’aria condizionata rotta, ma nella carrozza più avanti funziona. “Spostiamoci, allora, che qui si muore di caldo”. Il dondolio che mi mette sonno, ma devo resistere: non mi piace dormire sul treno. Le pagine del libro. I girasoli, ormai grigiognoli e rinsecchiti con la testa china. Sono passati i giorni in cui rincorrevano il sole, pieni di forza e di colore. In fondo, mi sento un po’ come loro. L’arrivo nella stazione di cambio. L’attesa del secondo treno. Speriamo che sia puntuale.

Tutto è cambiato, tutto è rimasto com’era.

Si riparte.

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Enigmi pendolari

In questo periodo dell’anno, non ancora abituata al caldo, durante il viaggio di ritorno sono più stanca del solito. Per questo motivo oggi pomeriggio decido di passare i dodici minuti di attesa tra un treno e l’altro nella sala d’attesa della stazione, dove la temperatura è più clemente e posso stare seduta. Sono in compagnia di vari personaggi: un uomo che dorme sdraiato su una delle panchine della sala, un altro che guarda nervosamente il tabellone con gli orari di partenza dei treni, una suora impegnata in una vivace conversazione telefonica, una donna elegante, con una grossa borsa di pelle chiara, anche lei alle prese con il suo smartphone, seduta alla mia sinistra.

L’attesa è monotona e tranquilla finché nella saletta irrompono quattro adolescenti: tre ragazzi e una ragazza, allegri e spensierati. Dagli asciugamani colorati che spuntano dai rispettivi zaini, dagli abiti sbracciati e dalle ciabattine ai piedi deduco che devono aver passato la giornata in piscina. Beati loro.

Chiacchierando e ridendo rumorosamente si siedono nei posti liberi accanto alla signora con la borsa elegante, dalla parte opposta rispetto alla mia.

“Dai ragazzi, si va un po’ avanti?”, propone uno dei quattro.

“Sì, vediamo se ce la facciamo ad arrivare in fondo!”, risponde la ragazza.

“No, dai, ancora?! Che palle!”, replica un terzo.

Il promotore prende dallo zaino una copia dell’inconfondibile e inimitabile “Settimana Enigmistica”, con le pagine tutte arricciate sugli angoli.

“Dove eravamo arrivati? Ah, ok, ci sono. Questa è difficile: Castruccio, famoso nobile di Lucca!”.

“Quante lettere?”

“Tante, è una parola lunga…”

“Boh, io non la so.”

“Io nemmeno, proviamo ad andare avanti, magari dopo ci viene in mente…”

“Va bene, quindici orizzontale: Valutazione del perito…

“Come si dice quella cosa che fa il perito? Giudizio?”

“No, il giudizio lo fa il giudice, non il perito. Quante lettere?”

“Sette, la terza è una erre!”

La signora accanto a me distoglie l’attenzione dal cellulare e si drizza sulla schiena, come una scolara diligente che sa la risposta alla domanda del professore e freme dalla voglia di dirla.

Perizia”, mormora, “la valutazione del perito è la perizia!”, lo dice titubando, a mezza voce, i ragazzi non la sentono. La sento io, e mi volto inconsciamente verso di lei. Accortasi che la sto ascoltando, è allora a me che si rivolge: “Non è perizia?”.

Annuisco un po’ imbarazzata, non era mia intenzione intromettermi nella ludica discussione.

“Dai, proviamone un’altra”, incalza la ragazzina, rivolgendosi all’amico con il giornalino.

“Questa forse ce la facciamo: Zingara spagnola, sei lettere, finisce con la A”.

Ancora una volta, è a me che la signora si rivolge: “Secondo me è nomade, sei lettere, ci sta, no?”.

Questa volta non la assecondo: prima di tutto perché non sono per niente convinta della correttezza della sua risposta, e poi sto rispondendo a un messaggio con il cellulare.

“Ragazzi, facciamo pena, non ne sappiamo una!”, commenta il ragazzo che non aveva voglia di fare il cruciverba.

“Aspettate, non vi scoraggiate! Questa ce la possiamo fare, sono solo tre lettere: Donne molto devote…”

Ora, io non sono un’esperta di Settimana Enigmistica, ma dal poco che so, questa è una delle definizioni che c’è sempre, in ogni cruciverba che si rispetti.

Anche la signora al mio fianco è sicura, questa volta, e finalmente declama con voce chiara e udibile in tutta la sala: “Pie! Le donne molto devote sono Pie!”.

Il promotore dei quiz conferma: “E’ vero, Pie!”, e compila diligentemente le tre caselle corrispondenti nello schema.

Mi viene da guardare verso la suora, come se fosse in qualche modo chiamata in causa da questa definizione, ma è troppo concentrata nella sua telefonata e pare non curarsi minimamente dei dubbi enigmistici degli altri viaggiatori della sala d’attesa.

“E’ come mia nonna!”, aggiunge la ragazza, compiaciuta, “Anche mia nonna è bravissima a fare i cruciverba, indovina sempre!”.

Ecco, fossi stata nei panni della signora, questo paragone con la nonna della giovane non mi avrebbe fatto molto piacere: noi donne, si sa, arrivate a una certa soglia, siamo piuttosto suscettibili ai confronti anagrafici, seppure indiretti, a nostro sfavore. Voglio dire: se avesse detto: “E’ come mia sorella…”, o, più realisticamente, “E’ come mia mamma…” sarebbe stato un altro conto, insomma. Ma la signora non sembra dar peso alla cosa, anzi, mi pare molto soddisfatta di aver richiamato l’attenzione dei quattro e di poter finalmente contribuire con la sua esperienza alla soluzione del cruciverba.

E, infatti, incalza subito: “La definizione di prima, quella della zingara spagnola, secondo me la risposta è Nomade!”.

Il ragazzo con la Settimana replica, giustamente: “Non mi torna, dovrebbe finire con la A!”.

E la signora, prontamente: “Allora sarà nomadA!”.

Vedendo un po’ di perplessità nei quattro, è a me che si rivolge, di nuovo: “Perché, non si dice nomadA?”.

Non mi va di ribattere, perché questo comporterebbe la mia inclusione nel gruppo di lavoro del cruciverba  e non ne ho molta voglia. Tentenno qualche istante, poi, inaspettatamente, è la voce impassibile dall’altoparlante a salvarmi, annunciando l’imminente arrivo del mio treno. Prendo le mie cose, mi alzo, saluto con un sorriso la combriccola improvvisata e me ne vado al binario… portando con me la soluzione dell’enigma… 🙂

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di pirati, corsari, bucanieri e guasti temporanei all’infrastruttura

Sono già alcuni minuti che cammino, su e giù, lungo la banchina in attesa del treno, quando la voce meccanica dall’altoparlante annuncia che il treno che sto aspettando “arriverà con un ritardo previsto di dieci minuti a causa di un guasto temporaneo agli impianti di circolazione”. Mmmh… la cosa non mi convince molto, di solito quando ci sono guasti di questo tipo i minuti di ritardo sono ben più di dieci, ma cosa posso farci? Mi rassegno a prolungare l’attesa. Dieci minuti sono troppo pochi per andare al bar fuori dalla stazione a prendere qualcosa di caldo, ma sono troppi per starsene lì in piedi ad aspettare. Nell’ultima panchina c’è un posto libero, accanto a una ragazza alle prese con il suo smartphone. Mi siedo, prendo il libro dallo zaino e riprendo la lettura dal punto in cui l’avevo lasciata, ieri sera.

Il libro è “I segreti di Londra” di Corrado Augias. Ho scelto questo saggio come lettura di oggi, perché ho recentemente soggiornato per alcuni giorni nella capitale britannica, che non avevo mai avuto occasione di conoscere “per bene”, e ne sono rimasta davvero affascinata. Dello stesso autore avevo già letto “I segreti di Parigi”, e proprio grazie a quel libro avevo avuto occasione di scoprire e visitare luoghi veramente interessanti, al di fuori delle solite mete turistiche.

Stamani parto da pagina 164, dal capitolo intitolato “Corsari, pirati e bucanieri”. Fin dall’inizio la narrazione è interessante. Chi mai si ricordava le definizioni e le differenze tra corsari, bucanieri, filibustieri, farabutti?

Stanno ormai passando i dieci minuti di ritardo previsti, quando la voce meccanica dell’altoparlante aggiorna la previsione a venti. I miei compagni di viaggio iniziano a spazientirsi: c’è chi cammina nervosamente avanti e indietro, chi inizia a brontolare, chi scende nel sottopassaggio per controllare il monitor, chi telefona per avvisare del ritardo, ecc.. Anche a me quest’annuncio provoca un certo disappunto: se lo avessi saputo subito che il ritardo era così consistente sarei potuta andare al bar ad aspettare, almeno lì l’attesa sarebbe stata un po’ più confortevole. Che faccio, ci vado ora? Ma no, per dieci minuti non ne vale la pena. Riprendo la lettura.

Inizio a figurarmi in un’isoletta dei Caraibi: spiagge bianchissime, vegetazione lussureggiante, acque cristalline su cui galleggia una grossa nave dall’aspetto sinistro, dal cui albero maestro sventola l’inconfondibile Jolly Roger.

Sulla nave, poco a poco si materializzano figure dall’aspetto affascinante e al tempo stesso grottesco, oscuro e minaccioso, ma variopinto, uomini capaci di grandi avventure e gesti ignobili e crudeli. Sono catturata dalle loro imprese, le avventure, i viaggi intorno a un mondo nuovo, enorme rispetto a quello in cui viviamo noi, in buona parte ancora sconosciuto e inaccessibile. E, ancora, gli attacchi per depredare navi cariche di tesori a loro volta sottratti dalle terre appena scoperte nel continente americano, le liti, le risse, le tempeste in mare, i naufragi, le condizioni di vita precarie.

E intanto i minuti di ritardo diventano trenta.

Conosco e ritrovo personaggi immaginari e realmente esistiti: Barbanera, Francis Drake, il Corsaro Nero, Edward Low, capitan Kidd… Leggo con interesse i riassunti delle loro vite e delle rocambolesche imprese.

Quaranta minuti… Ma dai, così non si fa, però, non possono centellinare così le informazioni! Ma come si fa? Le telefonate di aggiornamento a colleghi, compagni di scuola e familiari si infittiscono e si arricchiscono di epiteti coloriti, un gergo quasi marinaresco, quasi come quello dei protagonisti delle storie che sto leggendo. Il volume delle lamentele nelle conversazioni lungo la banchina aumenta, non è semplice rimanere concentrati nella lettura.

Leggo delle tecniche di attacco, delle armi utilizzate, delle regole di comportamento. Una vita non semplice, la loro. Se un pirata veniva giudicato colpevole di un furto, ad esempio, veniva “sbarcato su un’isola deserta con una bottiglia d’acqua, un fucile e qualche pallottola”. In caso di disobbedienza o ammutinamento erano previsti vari tipi di punizioni, fustigazioni, torture, tra cui il temutissimo “giro di chiglia”.

Cinquanta minuti, sessanta…

E alla fine sono poco meno di settanta i minuti passati su quella panchina a leggere e ormai mi manca solo mezza pagina per finire il capitolo del libro, quando finalmente appare all’orizzonte il tanto atteso vascello… ehm… treno, tra i brontolii e gli improperi degli ormai esasperati pendolari superstiti.

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il grande e potente… Azz

In questo periodo dell’anno, in cui il mio orario di partenza la mattina coincide più o meno con l’alba, il cielo a volte regala degli spettacoli che compensano, almeno parzialmente, il disagio della levataccia. Stamani, per esempio, uno spesso strato di nuvole scure spadroneggiava a est, diventando via via più sottile e rarefatto nella parte alta del cielo, per poi svanire verso ovest. Il sole tentava con fatica di aprirsi uno spiraglio, come se dovesse sollevare una pesante serranda arrugginita e, mi piace immaginare, per lo sforzo era diventato tutto rosso. L’atmosfera era avvolta da questa luce morbida, nei toni dell’arancio, del rosa, del giallo. Tutto sembrava più bello: i visi ancora assonnati dei pendolari, il vetro sudicio dell’ascensore, le baracche abbandonate, persino le macchinette distributrici di cibarie e bevande, sul cui vetro si specchiavano i riflessi rossastri, avevano un inaspettato fascino. Mi sono spostata lungo il binario, verso la fine del marciapiede, per ammirare lo spettacolo e fare qualche foto. A un certo punto una lama di luce ha colpito i binari in un tratto che iniziava pochi metri davanti a me e proseguiva fino al punto ideale in cui, dopo una leggera curva verso sinistra, convergevano, all’orizzonte, rendendoli luccicanti come se fossero fatti d’oro. Una via dorata, quindi, anche se, invece che di mattoni, era fatta di ferro.
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Ho lasciato liberi di correre lungo quei binari luminosi la fantasia e i ricordi delle letture di quando ero piccola, e allora, ecco che la ragazzina “emo” con i capelli per metà neri e per metà blu e gli stivaletti pieni di borchie metalliche che brillavano, come d’argento,  è diventata Dorothy, il signore elegante con il completo grigio e la borsa per il portatile si è trasformato nell’Uomo di Latta, quel ragazzo con i vestiti trasandati, i capelli e la barba incolti non poteva che essere lo Spaventapasseri e la signora seduta sulla panchina, con quella cascata di riccioli biondi, il Leone pauroso. Tutti in attesa del treno per la Città di Smeraldo (previsto in arrivo con dieci minuti di ritardo). La magia è durata solo pochi secondi, poi le nuvole hanno avuto la meglio e tutto è tornato grigio come sempre. Sono rimasta sospesa, ancora per qualche istante, in questa specie di sogno ad occhi aperti, ma ci ha pensato la gracchiante voce dell’altoparlante, l’uccellaccio del malaugurio di noi poveri pendolari, a riportarmi alla realtà quotidiana: “Si avverte la gentile clientela che il treno 12345 proveniente dalla Città di Smeraldo e diretto alla Strega del Sud –quello che sto aspettando io, per intenderci- oggi non sarà effettuato per un guasto al treno, Trenitalia si scusa per il disagio”. Ed è da questo triste e così poco poetico epilogo della vicenda che trae origine il titolo del post 🙂