Momenti di inaspettata poesia alla stazione di Santa Maria Novella.
musica
Natale pendolare #4
Lungo il tragitto stazione-lavoro in questi giorni incontro questa signora dall’aspetto simpatico e dalla musica contagiosa: è per colpa sua se continuo per ore, al lavoro e sul treno, a canticchiare motivetti natalizi…
I will survive… sulla metro
Nonostante tutto… la vita da pendolare può essere anche divertente, basta prenderla con leggerezza e un po’ di bella musica 😀
è passato il Carnevale
Mercoledì mattina, piove e i treni sono in ritardo. Decido di ingannare l’attesa prolungata più del solito prendendo un caffè al bar della stazione. Entro, faccio lo scontrino, mi avvicino al bancone e ordino la bevanda al barista. Ascolto distrattamente la radio, sta passando “I will survive”, inizio a canticchiarla.
“First I was afraid, I was petrified…” Muovo appena le labbra, emettendo un suono debole, almeno un’ottava sotto alla brillante voce di Gloria Gaynor, biascicando le parole delle strofe, che non ricordo bene. Noto che altri avventori del locale stanno facendo altrettanto: il labiale è confuso e incomprensibile in tutto il pezzo tranne nella parte “I will survive, eh, ehi” e nella seguente parte strumentale. Mi sembra un brano azzeccato, stamani.
Proprio mentre la canzone sfuma, entra nel locale un personaggio noto. Si tratta di un signore che trovo spesso nella stazione e che in più di un’occasione ha “attaccato bottone”, tentando di coinvolgermi in improbabili discussioni teologiche e di appiopparmi uno dei numerosi opuscoli a sfondo religioso che porta sempre con sé. Cerco di mimetizzarmi con gli arredi del bar, non ho proprio voglia sentire le sue teorie sulla fine del mondo, stamani. Per fortuna, però, la sua attenzione è rivolta al barista.
“Buongiorno!” irrompe con entusiasmo, decisamente non corrisposto dal suo interlocutore. “Come va, stamani?”
“Male!” risponde il barista, tra il distratto e lo scocciato, “Stamani è cominciata male. Non vedi? Piove…”
“Ehhhh” risponde l’uomo con gli opuscoli, un “eeehh” lungo, abbastanza lungo da contenere un “Non ti angustiare troppo, amico mio, c’è di peggio…” e, continua, “Se va male, è perché è passato il Carnevale!”
Ed è con questa riflessione profonda, così profonda che non credo nemmeno di averla capita bene, che, di soppiatto, esco dal bar e vado, sotto la pioggia, a prendere il treno. In ritardo.
L’invasione delle piccole fan
Il viaggio di ritorno dal lavoro procede come di consueto. Il vagone è quasi vuoto, popolato da pochi viaggiatori, sparsi qua e là, ognuno intento a far passare il tempo che manca all’arrivo a destinazione nel modo che ritiene più idoneo. C’è chi dorme, chi lavora con il computer, chi gioca con il cellulare, chi legge, chi guarda dal finestrino non si sa cosa, dato che è già buio. Io sono alle prese con le ultime, drammatiche pagine del libro che mi ha catturato in questi giorni. Appena arrivati a una delle stazioni che precedono il mio arrivo, un desueto e sinistro brusio ad alta frequenza preannuncia la fine della ormai familiare quiete pomeridiana. E infatti, pochi istanti dopo l’apertura delle porte, la carrozza viene invasa da un nugolo di ragazzine frenetiche. La prima immagine che mi viene in mente è quella di uno sciame di farfalle rosa, veramente graziose alla vista, ma, vi assicuro, altrettanto fastidiose per l’udito. Corrono lungo il corridoio, riempiono i sedili vuoti, ridono, saltano, ballano, cantano, strillano, cambiano di posto, scalpitano, scalciano e ancora ridono, saltano, strillano… Va bene, posso dire addio alla mia lettura, per stasera. Dopo di loro ecco arrivare molto più mestamente alcuni adulti, che tentano di sovrastare le urla fanciullesche con inutili raccomandazioni alla compostezza e al silenzio, ottenendo, come unico risultato, l’aggiunta di altri Decibel alla già compromessa situazione acustica. Non è una gita, penso. Prima di tutto, non torna l’orario, inoltre le ragazzine sono veramente troppo allegre e spensierate, e allo stesso tempo gli accompagnatori adulti mi sembrano troppo spaesati e insicuri, hanno troppo l’espressione “ma che cosa sto facendo, io, qui?”, per essere degli insegnanti. Studio meglio lo strano fenomeno: le bimbe hanno un’età compresa tra gli otto e gli undici anni, stimo, e, sotto i giubbotti, indossano tutte maglie o felpe di colore rigorosamente fucsia con stampata sul petto una faccia carina e sorridente circondata da ghirigori e fantasie floreali. Non comprendo, rimango un po’ interdetta. Da dove vengono? Dove vanno? Che cosa vogliono? E inizio con le ipotesi…
Forse un dittatore pazzo sta per conquistare il mondo con un esercito apparentemente innocuo di ragazzine, utilizzando come armi gli ultrasuoni che riescono a produrre quando si riuniscono in gruppi numerosi?
Forse un virus pericolosissimo e assai contagioso, che trasforma gli esseri umani in bimbe isteriche, è fuoriuscito da un laboratorio segreto, dove alcuni scienziati senza scrupoli lo hanno messo a punto?
Forse l’oscura setta delle bambine dalla felpa fucsia ha finalmente deciso di uscire allo scoperto e di ingaggiare una rivolta per soggiogare la grigia società dominata dagli adulti?
Forse una colonia di alieni dall’aspetto di innocenti fanciulle, con una flotta di astronavi dalla forma di gigantesche caramelle di Candy Crush, è appena atterrata qua vicino e sta per invadere il nostro pianeta?
Poi, finalmente, realizzo: “Ah, già, stasera c’è il concerto di Violetta…”
Questa bellissima immagine l’ho presa da qui: http://olddesignshop.com/
Viaggi pendolari… da brivido
Il primo aggettivo che mi è venuto in mente quando l’ho visto sedersi, di fronte a me, stamani sul treno, è stato “oscuro”. Innanzitutto per il colore di base dell’abbigliamento, il nero, appunto: stivaletti con vistose borchie metalliche, jeans stretti e sciupati in più punti, e la T-shirt, che riportava, stampata sul davanti una convulsa scena i cui i protagonisti erano teschi con espressioni beffarde, zombie e altri mostri di vario genere, corpi solo vagamente antropomorfi, sfatti, tumefatti, smembrati, il tutto contornato da un’iscrizione con caratteri gotici che non sono riuscita a decifrare. I lobi delle orecchie erano martoriati da diversi piercing, spunzoni metallici fondamentalmente, mentre numerosi tatuaggi ornavano gli avambracci: ancora teschi, ma anche stelle a cinque punte, scritte e simboli per me sconosciuti e misteriosi. Da un paio di auricolari collegato a un telefonino usciva un ronzio ritmato, in cui era possibile riconoscere il gemito lamentoso di una chitarra elettrica distorta e la voce cavernosa e gutturale di un cantante tutt’altro che melodioso.
Le premesse, insomma, non erano molto promettenti. I simboli tatuati sulle braccia, in particolare, erano particolarmente inquietanti e sinistri e richiamavano alla mia memoria mitologie e riti oscuri. Io, poi, di solito sono abbastanza paurosa: quando, per sbaglio, in televisione m’imbatto in un film horror cambio subito canale e durante la visione di qualsiasi thriller tengo a portata di mano un cuscino dove nascondere la faccia durante le scene più violente e truci. Stamani per ovvi motivi non avevo con me il cuscino di protezione e ho dovuto arrangiarmi: che fare? Rimanere indifferenti, fingere di dormire, magari, scappare a gambe levate… Calma, mi sono detta, non siamo in un film, ragioniamo.
Nei film dell’orrore e nei thriller molta della paura nasce dalle atmosfere tenebrose e dalle note tese e sospese della colonna sonora. Stamani, invece, era una bella mattinata di ormai fine estate, soleggiata ma fresca, gli altri viaggiatori leggevano o sonnecchiavano, gli unici rumori erano il familiare e tranquillo sferragliare delle ruote sulle rotaie e gli sporadici messaggi automatici dall’altoparlante. Dopo il primo, poco rassicurante impatto, mi sono fatta coraggio e ho osservato un po’ meglio il mio occasionale compagno di viaggio, badando bene di non farmi vedere.
C’erano delle cose che non tornavano, in effetti. Il colore della pelle, innanzi tutto. Molto chiaro, devo dire, ma tendente al roseo, quasi rubicondo in certi punti del viso, non il poco salubre colorito grigio-verdognolo che ci si aspetterebbe, per una siffatta creatura delle tenebre (e, poi, che ci faceva una creatura delle tenebre su un anonimo treno pendolari, alle sette e mezzo di mattina?). Guardando, ancora, mi sono soffermata un attimo sulle guance, belle piene, paffutelle, altro che la pelle grinzosa e cadente, i visi scarni e scheletrici dei mostri sulla sua maglietta. La maglietta, appunto: quelle due pieghe perfettamente diritte, sulle maniche, verso le spalle, tradivano una sapiente stiratura, una perfetta piegatura, nonché la disposizione in un armadio ordinato e pulito, sicuramente incompatibile con l’antro scuro, umido e caotico di un serial-killer. Dalla maglietta leggera emergeva un corpo decisamente in salute, anzi, tendente al rotondetto, specialmente nella zona degli addominali: un fisico compatibile con una dieta a base di lasagne fatte in casa e una modesta attività fisica, non martoriato dagli eccessi e privazioni di una vita dannata. E, poi, gli occhi, quegli occhi marroni, svegli e vivaci, a ben guardare ispiravano più simpatia che terrore. Riflettendoci su, non ho più sentito la necessità di fuggire a gambe levate in un altro scompartimento, e devo dire che non ho neppure rimpianto troppo il mio cuscino.
Ma, allora, vi chiederete, perché questo titolo al post? In effetti durante il viaggio ho tremato… ma non di paura, di freddo! L’aria condizionata in tutto il treno era infatti tarata su una temperatura veramente polare e per di più avevo dimenticato la maglia a casa.
E la colonna sonora? Beh, invece che un pezzo dei Goblin (quelli di Profondo Rosso), cui avevo pensato inizialmente, alla fine per stamani ho optato per questa canzone degli Skiantos… 🙂
Rapsodia in blu
Sul treno, c’è chi legge, chi dorme, chi chiacchiera con il vicino, chi con il cellulare, chi gioca con il tablet, chi scrive, chi guarda fuori dal finestrino…
… e poi c’è chi, andando a Boston con il treno e ascoltando lo sferragliare delle ruote sui binari, prende ispirazione per comporre questa cosa qui 😀
Toni di grigio
Gli ingredienti per una giornataccia, stamani, ci sono tutti. Una nebbia fitta mista avvolge la stazione e, insieme ad una pioggerellina insistente, rende l’atmosfera fredda e inospitale. C’è ancora poca luce, le giornate si stanno accorciando velocemente e il mio umore è dello stesso colore del cielo. La banchina è più affollata del solito, capisco presto il motivo: il treno precedente al mio è stato soppresso, ci informa la voce sintetica dell’altoparlante. La prima parte del mio viaggio quotidiano sarà probabilmente… come dire… compressa.
Arriva il treno, riesco a salire con difficoltà a causa delle persone che sostano nel vestibolo. Con qualche sforzo riesco a entrare nello scompartimento. Non c’è ovviamente posto a sedere, mi sostengo come posso alla sommità di un seggiolino. La mia sistemazione non è molto stabile, non posso far altro che reggermi e aspettare che il viaggio passi. Peccato perché ero arrivata a un punto chiave nel libro che sto leggendo.
Arrivo alla stazione dove devo cambiare treno con qualche minuto di ritardo, mi affretto a raggiungere il binario giusto. Appena imboccato il sottopassaggio, sono travolta da un’ondata di altri pendolari che si muovono in massa in direzione opposta alla mia a causa di una variazione del binario del loro treno, comunicata, come sempre, all’ultimo momento. Passata la valanga umana, il sottopassaggio rimane semi-vuoto. Dal fondo del tunnel sento echeggiare un frastornante rutto, seguito da grasse risate e commenti impronunciabili: realizzo subito che si tratta del solito gruppo di studenti svogliati, con cui spesso devo condividere il viaggio. Oggi però, per fortuna, hanno altri programmi e si dirigono allegramente verso l’uscita.
Il secondo treno è stranamente quasi vuoto e il viaggio tranquillo, nonostante ciò l’umore non migliora. Dal finestrino, guardo i girasoli rimasti nei campi. Non sembrano proprio le stesse piante di qualche mese fa, sempre alla ricerca dei raggi del sole, con i petali di quel bel colore giallo brillante che mi mette tanto di buonumore. Adesso sono smorti, avvizziti e ingobbiti, come spettri.
Arrivata a destinazione, entro nel bar. Stamani prenderò solo un caffè, non sono dell’umore giusto per il cappuccino: ho bisogno di svegliarmi. Dalla radio arrivano note inconfondibili, mi concentro sulla musica, e non sono sola: anche il barista si lascia andare e libera le sue insospettabili doti di vocalist.
Voglio una vita spericolata
Voglio una vita come quelle dei film
Voglio una vita esagerata
Voglio una vita come Steve Mc Queen
Dalla mia borsa arriva un fastidioso beep, è un SMS: ”Ci sei vero? La riunione è alle nove e mezzo”. Rispondo velocemente: “Sto arrivando”.
Voglio una vita che non è mai tardi, di quelle che non dormi mai…
Veramente io ho un gran sonno stamani e avrei dormito volentieri un altro po’…
Voglio una vita, la voglio piena di guai…
Se faccio tardi alla riunione di stamani effettivamente potrei essere accontentata in questo senso.
Ehhhh
Ed eccolo, l’immancabile ”ehhhh” liberatorio, una costante irrinunciabile in tutte le canzoni di Vasco, per l’occasione enfatizzato e amplificato dalla possente ugola del barista.
E poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxy Bar, o forse non ci troveremo mai, ognuno a rincorrere i suoi guai.
Indugio ancora un po’ davanti al bancone: ormai voglio godermela tutta, la canzone.
Ognuno col suo viaggio ognuno diverso, ognuno in fondo perso dentro ai cazzi suoi…
Quando finalmente mi riprendo da questa specie di trance musicale, mi rendo conto che ho passato tutto il tempo a far girare a vuoto il cucchiaino nella tazzina, ancora non ho bevuto nemmeno un po’ di caffè. Ed è già freddo, accidenti.
Music is in the air…
Oggi pomeriggio il treno è particolarmente tranquillo, un’ottima occasione per andare un po’ avanti con il mio libro. Immersa nella lettura, non mi accorgo che in una delle innumerevoli fermate intermedie è salito un ragazzone, grande e grosso, con il cavallo dei jeans pericolosamente basso, una felpa scura e una cesta di capelli arruffati. Nonostante lo scompartimento sia quasi vuoto, siede in uno degli strapuntini del vestibolo, lo vedo dal vetro della porta che separa le due aree.
La mia attenzione viene catturata da questo personaggio nel momento in cui lo vedo piegarsi in avanti, lentamente. “Oddio, si sarà sentito male?” penso tra me e me, mentre la sua schiena continua a incurvarsi e il suo mento ormai tocca la punta delle ginocchia. Quando ormai penso che stia per rovinare per terra, con uno scatto si tira su. Ma non si ferma, arrivato all’apice, la testa di nuovo protende in avanti. Questa volta non si piega troppo, inizia a oscillare, avanti e indietro, lentamente. A questo punto inizio a pensare che abbia qualche problema al livello neurologico, non riesco a spiegarmi certi spasmi altrimenti. Sta ancora oscillando pericolosamente quando le sue mani, distese sulle cosce, si chiudono in una posa quasi rattrappita, la destra, al livello della vita, inizia a ruotare spasmodicamente, la sinistra un po’ più in alto, si muove a scatti. “Deve avere proprio dei problemi grossi”, penso. La testa continua a oscillare, sempre più velocemente, come in trance.
Ed ecco, alla fine, la risposta. La porta si apre e dal vestibolo sento un brusio ritmato, inizio a intuire la soluzione del mistero, che mi è chiara quando vedo dalle orecchie del ragazzo spuntare due fili bianchi che vanno a finire nella tasca dei jeans: sta solo ascoltando la musica con le cuffiette e si è fatto un po’ troppo prendere dall’assolo di chitarra probabilmente. Ed io, che pensavo fosse un po’ pazzerello… in realtà era soltanto lanciato in un’improvvisata esibizione di “air guitar”!! Piuttosto… chissà qual era il pezzo che stava ascoltando con così tanto trasporto…
Ah, come vorrei che fosse sempre così!
In molti dei miei post ho parlato delle peripezie cui è sottoposto il povero pendolare a causa dei ritardi dei treni. Le corse per non perdere la coincidenza con l’altro treno, per arrivare in tempo al lavoro, alla riunione, lo stress, le attese interminabili lungo il binario, sono scene purtroppo molto, troppo, frequenti.
Oggi voglio scrivere qualcosa di diverso, voglio raccontarvi quanto è più bella la giornata quando il viaggio del pendolare va come dorebbe andare.
Perché stamani è successa una cosa cui non sono abituata: il treno del viaggio di andata mattutino è arrivato a destinazione (pensate un po’!) con ben tre minuti di anticipo. Quei tre minutini che ci hanno regalato non sono un grande guadagno, è vero, ma hanno rilassato molto l’inizio della giornata a me e a molti miei compagni di viaggio.
Tanto per cominciare, durante la discesa non c’era il solito pigia-pigia e non si è verificato l’effetto valanga all’apertura delle porte. Siamo scesi tutti ordinatamente, il signore che mi precedeva mi ha pure gentilmente tenuto aperta la porta dello scompartimento. Il percorso verso l’uscita non è stato la solita gara a ostacoli, mi è parso quasi una piacevole passeggiata.
Pochi metri dietro di me, tre signore discutevano amichevolmente di quale fosse la migliore marca di detersivi per i piatti.
Un ragazzo e una ragazza mi precedevano, camminando mano nella mano, con i loro zaini in spalla: rosa quello di lei, nero quello di lui. La ragazza stava ripetendo, con il piglio sicuro di chi ha studiato un bel po’, la differenza tra “amor cortese” e “dolce stil novo”, lui la ascoltava attento e preoccupato, ripetendo le ultime parole di tutte le frasi per cercare di memorizzarle.
A un certo punto sono stata superata una ragazza che camminava con passo svelto portando sulle spalle la voluminosa custodia di un violoncello.
Il capotreno sorridente chiacchierava con il macchinista affacciato al finestrino del locomotore.
In fondo al marciapiede, qualcuno fischiettava “Tanto pe’ canta’ ”, con un bel suono, armonioso e vibrato come quello di un usignolo.
E, uscita dalla stazione, mi sono accorta che era pure smesso di piovere.