Alfonso Perfetti

In un tiepido pomeriggio autunnale, un temporale improvviso e piuttosto irruento sorprende noi pendolari del treno delle diciassette e diciotto durante il tragitto tra i vari luoghi di lavoro e studio e la stazione. Chi può si ripara con gli immancabili ombrellini pieghevoli, ma dispettose folate di vento si divertono a rovesciarli e a romperli. C’è chi si protegge i capelli con un foulard, chi affretta il passo, chi si mette a correre, chi si rifugia nel rientro di un portone o di un negozio. Quelli che hanno avuto la fortuna di incrociare uno degli affollatissimi autobus, si ritrovano fermi, imbottigliati nel traffico, intrappolati in uno spazio ridottissimo in cui l’aria è irrespirabile a causa dell’umidità.

Arrivati alla stazione, siamo tutti piuttosto stravolti: scapigliati, esausti, con le scarpe e i piedi fradici, le borse e i capelli gocciolanti. Tutti, tranne lui: Alfonso Perfetti. Non si sa come abbia fatto, ma lui, sul treno, sale impassibile e impeccabile, come sempre.

In effetti, è difficile sorprendere Alfonso Perfetti. La mattina, appena si alza, controlla con una delle sue app installate nel telefonino le condizioni del meteo e sulla base delle previsioni decide cosa indossare. Prima di uscire da casa, un’altra app lo informa se il treno è o meno in orario. Se ci fossero ritardi eccessivi o cancellazioni, un’altra app ancora verifica il percorso ottimale e gli orari degli autobus. Se non ci fossero soluzioni a questo punto Alfonso prenderebbe la propria auto, non prima di aver consultato, tramite un’apposita app, le condizioni del traffico e l’eventuale presenza di lavori o rallentamenti lungo il percorso.

Il suo aspetto è sempre impeccabilmente, ma sobriamente, elegante, dalla punta delle scarpe alla sommità dei capelli. Non mancano mai giacca, cravatta, e camicia immacolata e perfettamente inamidata, anche nel pomeriggio, dopo una giornata di lavoro.

Porta con sé uno zainetto leggero, dalle forme stondate, ergonomiche, che contiene un piccolo ma potente computer portatile e un taccuino nero. In tasca, non manca mai il fedele smartphone, con tutte le sue app. Ha sempre il modello di punta, quello più aggiornato, con il processore più veloce, la memoria più capiente, lo spessore più sottile, la forma più elegante.

Gli piace tenere tutto sotto controllo: a casa, al lavoro, e anche nel suo viaggio pendolare. Alfonso si prepara sempre un pochino in anticipo all’arrivo a destinazione del treno: gli piace essere il primo a scendere e tirare la maniglia per aprire la porta della carrozza. Nei treni più nuovi, quelli in cui ci sono gli schermi che riportano le principali condizioni del viaggio, tiene d’occhio i dati, la velocità in particolare, e la confronta con quella che gli fornisce una delle sue app.

A un primo sguardo, potrebbe sembrare una persona arida di sentimenti, che sta meglio con chip e processori che con i suoi simili, una specie di cyborg, uno che vede il mondo attraverso una matrice di pixel. Ma è davvero così?

Quando non digita freneticamente sulla tastiera del piccolo computer, Alfonso ama leggere. Anche per questa attività è stato tentato dalla tecnologia: ha provato gli ebook sul tablet, poi è passato all’ebook reader, ma la soluzione digitale non lo ha convinto e alla fine è tornato al cartaceo. Legge soprattutto i gialli classici, quelli in cui la vittima muore nelle prime pagine e l’investigatore per tutto il tempo raccoglie indizi e mette insieme i pezzi del puzzle, fino a scovare l’assassino, che si sfoga in un’accorata confessione, per permettere al lettore di capire. Alfonso è piuttosto severo nel giudicare le sue letture. Di solito, già dopo pochi capitoli si fa un’idea di cosa è successo. Se, alla fine, la sua teoria è confermata, liquida l’opera come prevedibile e banale, se, invece, la vicenda prende una piega per lui inaspettata, la critica di essere inverosimile. Alla fine di ogni volume annota questi giudizi con cura, con una delle sue app, insieme al titolo e l’edizione, la data d’inizio e fine lettura.

Il pomeriggio, Alfonso Perfetti arriva alla stazione sempre dieci minuti prima della partenza del treno, si ferma al bar e gusta un caffè decaffeinato e un muffin al cioccolato. Non è chiaro se gli piaccia di più il muffin o la barista. Ora che ci penso… ecco perché non è stato sorpreso dal temporale, oggi!

Difficilmente Alfonso Perfetti perde il controllo della situazione, ma a volte, molto di rado a dire il vero, cede a qualche segno di stanchezza. Oggi pomeriggio, per esempio, verso la metà del viaggio di ritorno in treno, Alfonso sembra quasi ipnotizzato dallo scorrere all’indietro delle case, degli alberi e delle colline fuori dal finestrino. Lascia vagare liberi i pensieri, nella sua testa è come se fosse apparso quel cerchietto che gira al centro delle schermate dei computer quando sta caricando un programma molto pesante. Solo dopo qualche istante si ricorda di essere sul treno e si rende conto di avere quasi metà dell’indice della mano destra dentro la corrispondente narice. E solo allora si accorge della pendolare svampita, quella che arriva sempre tardi, che, seduta poco più avanti, lo osserva. Ha in mano quel suo cellulare dai colori pacchiani… non l’avrà mica fotografato mentre aveva le dita nel naso? No, dai, è troppo imbranata, neanche le saprà fare, lei, le foto con il cellulare. Non sembra molto avvezza alla tecnologia in effetti. Ecco che ricomincia a leggere il suo libro.

Scorrono lenti i minuti, siamo quasi arrivati. Alfonso, con il solito anticipo, si avvia verso l’uscita. Il treno si ferma, la porta si apre, i passeggeri scendono. Alfonso è il primo, come sempre. La pendolare distratta no, ha fatto tardi con il suo libro, la vede dal finestrino che si dispera per aver perso la fermata. Quando è lei ad accorgersi che lui la sta fissando, dal marciapiede, la disperazione le si trasforma improvvisamente in un sorrisetto ironico e beffardo. Il treno riparte, lei lo saluta agitando il braccio, mostrando fiera il suo cellulare pacchiano…

temporale

Forse, sull’autobus…

Per evitare la pioggerella fastidiosa di questi giorni, oggi pomeriggio ho rinunciato alla consueta e salutare passeggiata dall’ufficio alla stazione e ho preso l’autobus. Nonostante sia abbastanza affollato, riesco con sollievo a trovare un posto a sedere. Fuori dal finestrino è già quasi buio e non c’è molto da vedere, per cui mi volto verso la parte interna del mezzo, per curiosare un po’ tra i miei odierni compagni di viaggio. Come al solito, quella che mi si presenta davanti è una accozzaglia di personaggi curiosi ed eterogenei. Davanti alla porta di uscita, una ragazza si sorregge con entrambe le braccia ad uno dei supporti. È piuttosto alta e sottile, indossa un elegante tailleur pantalone nero, dalla giacca s’intravede un’impeccabile camicia candida. La carnagione olivastra, i lunghi capelli lisci e corvini, gli occhi grandi e allungati svelano un’origine probabilmente mediorientale. A poca distanza, sempre in piedi, appeso a uno dei supporti verticali, un uomo di statura ben più bassa si dondola per effetto del moto del mezzo: in avanti nelle frenate, all’indietro durante le ripartenze, in direzione laterale nelle curve. Ha posato sul pavimento, tra le gambe, una borsa di carta plastificata, ornata con motivi natalizi. Nel gruppetto di sedili allineati nella parte posteriore dell’autobus noto un ragazzetto, seduto in modo scomposto, con il punto di appoggio dei glutei sul bordo anteriore della seduta, le gambe piegate in fuori, come quelle di un burattino buttato per terra a casaccio, il cavallo dei pantaloni molto prossimo alle ginocchia. Le spalle sono un po’ curve, alle orecchie porta un paio di auricolari bianchi, collegati allo smartphone stretto nella mano sinistra. In testa indossa un berretto con la visiera un po’ storta e girata verso l’alto.

Accanto a lui, un uomo magro e canuto, siede diritto con le mani sulle ginocchia, una delle due regge una borsetta di plastica bianca, senza particolari iscrizioni o marchi, con vari oggetti dentro. Ho deciso: è lui il protagonista del viaggio di oggi.

Poco dopo la mia salita, dalla borsa estrae una grossa lattina bianca, con il tappo di plastica arancione, sulla sommità, e si mette a leggere le scritte sul lato posteriore del contenitore, quelle piccoline dove sono riportate le indicazioni per l’uso e la composizione del prodotto. È una confezione di acquaragia, la riconosco. Da una parte intravedo il tipico simbolo quadrato arancione con la croce nera che avverte della pericolosità della sostanza. L’uomo si impegna molto nella lettura: strizza gli occhi per mettere meglio a fuoco i minuscoli caratteri e contemporaneamente allontana la confezione. “Perché non ho preso gli occhiali con me?” immagino che si stia domandando.

Inizia così il mio consueto passatempo dei forse. Forse sta facendo un lavoretto di restauro, a casa. Forse si tratta del vecchio mobiletto che era nel ripostiglio, quello di legno massello che sta per essere sostituito da una più pratica scaffalatura dell’Ikea, quello che dovrebbe essere gettato via, ma l’uomo c’è troppo affezionato e, allora, perché non risistemarlo e metterlo in fondo al corridoio? Forse aveva già preparato tutto: lo aveva svuotato, spostato nel garage, sistemato su un tappeto di fogli di vecchi giornali. Forse la moglie l’ha anche brontolato per la confusione. Chissà se è sposato. Sbircio l’anulare della mano sinistra: non porta la fede, rimango con il dubbio. Forse si è accorto solo alla fine che gli mancava proprio l’acquaragia, o forse l’ha finita a metà del lavoro. Forse gli è scivolato il barattolo e ha sparso tutto il contenuto sul pavimento. Forse è uscito per andare a ricomprarla lasciando tutto in disordine, tra i brontoloni della moglie: “Che confusione, ma cosa stai combinando? Sei sempre il solito!”

Forse, tutto sommato, è quasi contento che l’acquaragia sia finita. Forse il barattolo non si è rovesciato per caso. Forse ci ha ripensato, quel mobiletto non è poi un granché. Forse aveva una gran voglia di uscire e non sentire più quella brontolona. Forse gli ci voleva proprio una bella gita in uno di quei grandissimi e fornitissimi negozi di oggetti per il bricolage, dove potersi perdere in mezzo ai lunghissime scaffalature, tra scatolette, bombole di vernice di tutti i colori, attrezzi per qualsiasi necessità, cacciaviti di tutte le fogge, e, ancora, tasselli, viti, cornici, solventi, chiavi inglesi, chiavi di tutte le nazionalità, rotoloni, rotolini, sacchi di terriccio, sementi, contenitori, lampadine, mensole, pannelli di compensato… forse

Il mio fantasticare è interrotto dall’arrivo di altri due ragazzi, quasi cloni di quello seduto in fondo all’autobus: berretto con la visiera storta in testa, girata verso l’alto, jeans con il cavallo molto basso, auricolari alle orecchie. Appena intravedono il loro compagno, gli si avvicinano e lo salutano con un secco “Oh!” Si mettono a parlare e ridere sguaiatamente insieme. Dopo qualche convenevole uno dei due ultimi arrivi prende il suo smartphone, stacca le cuffie e, strisciando freneticamente l’indice sullo schermo, richiama l’attenzione degli altri due: “Oh, ragazzi, guardate qua, troppo forte!” Dal dispositivo parte una musica ritmata, riesco a intravedere sullo schermo un altro ragazzo, vestito come i tre, che canta, o, per meglio dire, recita una lunga filastrocca, la cui cadenza è sottolineata da ampi movimenti rotatori in avanti delle braccia. I tre commentano entusiasti la performance del rapper del telefonino: “Figo!” esclamano a turno.

L’uomo con l’acquaragia, seduto proprio lì accanto, smette di leggere le istruzioni sulla confezione del solvente e viene attratto dalla nuova sorgente sonora. Si protende verso il gruppetto dei tre in modo vistoso: essendo seduto in modo eretto ed essendo i sedili leggermente sopraelevati rispetto al pavimento, la sua testa li sovrasta. Inizia anche lui a fissare il piccolo schermo, come se nulla fosse, come se conoscesse bene i tre giovani. Rimangono così per alcuni istanti, finché il ragazzo seduto non si accorge della nuova presenza e si volta, rivolgendo verso l’uomo uno sguardo tra l’interrogativo e il risentito e girando le spalle in modo da chiudere il piccolo capannello ed escluderlo. L’uomo non gli dà troppo peso, continua a fissare con divertito interesse lo schermo del telefonino. Anche uno dei due ragazzi in piedi si gira verso di lui, e inizia a fissarlo, solo allora l’uomo si rende conto della sua estraneità e si rimette composto sul suo sedile. Riprende la lattina di acquaragia e ricomincia a leggere le scritte piccoline strizzando gli occhi e allungando le braccia.

Ed è così che lo lascio quando, alla fermata della stazione, scendo dall’autobus.

Da qualche parte, oltre l’arcobaleno

Pendolo partì di casa, come ogni giovedì mattina, alle sette e mezzo. Chiuse la porta con le solite tre mandate e s’incamminò verso la stazione. Lì avrebbe preso il treno che lo avrebbe portato a Cittàgrande, dove lavorava allo sportello dell’ufficio reclami di un Grande Magazzino specializzato nella vendita di elettrodomestici di tutti i tipi. Come ogni mattina lo aspettavano un sacco di clienti inferociti, già s’immaginava, sarebbe ritornato per l’ennesima volta il tizio arrogante a cui non funzionava l’aspirapolvere, ne aveva già comprati tre modelli (ma cosa ci faceva, quello lì, con gli aspirapolvere, vallo a sapere), e poi la signora in lacrime perché la lavatrice nuova si era mangiata il suo maglione preferito, e la ragazza un po’ svampita, in crisi perché il forno a microonde non dava segni di vita dopo appena una settimana dall’acquisto, e così via. Non che lui si intendesse di elettronica, anzi,  le cose tecnologiche non lo avevano mai interessato particolarmente. Probabilmente quel posto di lavoro lo aveva ottenuto più per la pazienza e la capacità di rimanere impassibile di fronte alle scenate e offese dei clienti inferociti che per le sue effettive competenze. Ma, in questi tempi di crisi era bene tenerselo stretto, il lavoro, anche se non era proprio quello a cui aspirava.

Uscendo dal cancello del giardino, quel giovedì mattina, notò una luce strana: stava piovendo, il cielo era scuro, ma le strade, le case, erano insolitamente luminose. Alzando lo sguardo, rimase sorpreso da uno spettacolo inconsueto. Un gigantesco e brillante arcobaleno attraversava il cielo da nord a sud, un arco perfetto e completo, con tutti i colori dell’iride: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. Che bellezza! Uno così perfetto, erano anni che non ne vedeva, a pensarci bene, forse, non ne aveva mai visto.

È un segno, pensò. Decise di andare a vedere dove andava a finire, invece di andare al lavoro, non sembrava molto lontano. Nella peggiore delle ipotesi avrebbe preso il treno dopo e sarebbe arrivato in ritardo, il direttore del Grande Magazzino gli avrebbe fatto una bella ramanzina, ma, tanto, lavorando all’ufficio reclami, c’era abituato. Se fosse stato fortunato, invece, magari avrebbe potuto trovare la leggendaria pentola d’oro nascosta dal folletto, di cui aveva sentito raccontare quando era piccino.

Invece di andare alla stazione, si diresse verso sud, dove l’arcobaleno sembrava più vicino. Camminava con il naso all’insù, ignaro degli ostacoli che avrebbe trovato.

Attraversò la strada davanti a casa senza guardare, per poco non venne investito da un tizio in motorino che gli lanciò una sfilza di accidenti.

Proseguì sul marciapiede, dopo pochi passi si scontrò con una signora canuta con un paio di spessi occhiali da vista, che stava andando a fare la spesa. “E stia attento!”, brontolò. Se ne andò borbottando contro i giovani di oggi che non hanno rispetto delle persone anziane.

Attraversò la piazzetta, per fortuna senza intoppi, ed entrò nei giardini pubblici. Andava spedito, perché sapeva che l’arcobaleno non dura molto e gli sembrava che stesse iniziando a sbiadire un po’ nella parte centrale. A un certo punto sentì un “ciak”. No, purtroppo non era quello di un regista che dava il via alle riprese di un film con protagonista la sua attrice preferita. Era invece il rumore della sua scarpa sinistra che si scontrava con la cacca di un cane. Era gigantesca! Il produttore sicuramente era stato quel sanbernardo dei suoi vicini di casa. E, a giudicare dalla consistenza e dall’odore, doveva essere fresca di giornata. Maledizione, pensò, ma poi si ricordò che porta fortuna. Mentre si puliva alla meglio con un fazzolettino di carta, continuava a ripetersi: “E’ un altro segno, oggi deve essere la mia giornata fortunata”.

L’arcobaleno era sempre più sbiadito, doveva sbrigarsi. Riprese il cammino a passo spedito, continuando a guardare ancora per aria, invece che di fronte a sé, nonostante tutto quello che gli era successo. E infatti dopo pochi metri si andò a scontrare con un alberello dal tronco sottile ma la chioma folta, ancora piena di foglie colorate, anche se eravamo quasi alla fine di novembre. L’alberello tremò per la botta e si scrollò di dosso tutte le goccioline di pioggia cadute nella notte, facendo al nostro Pendolo una bella doccia.

Nemmeno questo lo fece desistere, continuò imperterrito a inseguire l’arcobaleno attraverso stradine, vialetti, scale. Gli sembrava di aver percorso un bel po’ di chilometri e che fosse passato un sacco di tempo, quando finalmente arrivò alla meta. Dell’arcobaleno era rimasto solo un piccolo spicchio e in fondo c’era… il treno per Cittàgrande in partenza dal binario tre! Non si era accorto che tutto il suo tragitto lo aveva portato dove si recava ogni mattina, sulla banchina della stazione.

Sulla panchina, un bambino suonava un motivetto allegro con un flauto di Pan. Guardandolo bene, quel bambino aveva la barba lunga e il viso pieno di rughe. Vedendo Pendolo, smise di suonare e si mise a ridere sguaiatamente. “Sei il folletto della pentola, vero? Dove l’hai nascosta?” E il piccoletto, riuscendo a fatica a calmarsi dalle risate, “Ti ho fregato, era dall’altra parte dell’arcobaleno!”

Era troppo deluso per mettersi a discutere, con un folletto poi. Se lo avesse visto qualcuno, lo avrebbe preso per pazzo. Pendolo rinunciò alla pentola d’oro, si godette ancora per qualche istante l’ultimo spicchio di arcobaleno rimasto e salì sul treno, pronto come ogni mattina ad affrontare la consueta sfilza di reclami e lamentele.

Toni di grigio

IMG_2380 copyGli ingredienti per una giornataccia, stamani, ci sono tutti. Una nebbia fitta mista avvolge la stazione e, insieme ad una pioggerellina insistente, rende l’atmosfera fredda e inospitale. C’è ancora poca luce, le giornate si stanno accorciando velocemente e il mio umore è dello stesso colore del cielo. La banchina è più affollata del solito, capisco presto il motivo: il treno precedente al mio è stato soppresso, ci informa la voce sintetica dell’altoparlante. La prima parte del mio viaggio quotidiano sarà probabilmente… come dire… compressa.

Arriva il treno, riesco a salire con difficoltà a causa delle persone che sostano nel vestibolo. Con qualche sforzo riesco a entrare nello scompartimento. Non c’è ovviamente posto a sedere, mi sostengo come posso alla sommità di un seggiolino. La mia sistemazione non è molto stabile, non posso far altro che reggermi e aspettare che il viaggio passi. Peccato perché ero arrivata a un punto chiave nel libro che sto leggendo.

Arrivo alla stazione dove devo cambiare treno con qualche minuto di ritardo, mi affretto a raggiungere il binario giusto. Appena imboccato il sottopassaggio, sono travolta da un’ondata di altri pendolari che si muovono in massa in direzione opposta alla mia a causa di una variazione del binario del loro treno, comunicata, come sempre, all’ultimo momento. Passata la valanga umana, il sottopassaggio rimane semi-vuoto. Dal fondo del tunnel sento echeggiare un frastornante rutto, seguito da grasse risate e commenti impronunciabili: realizzo subito che si tratta del solito gruppo di studenti svogliati, con cui spesso devo condividere il viaggio. Oggi però, per fortuna, hanno altri programmi e si dirigono allegramente verso l’uscita.

Il secondo treno è stranamente quasi vuoto e il viaggio tranquillo, nonostante ciò l’umore non migliora. Dal finestrino, guardo i girasoli rimasti nei campi. Non sembrano proprio le stesse piante di qualche mese fa, sempre alla ricerca dei raggi del sole, con i petali di quel bel colore giallo brillante che mi mette tanto di buonumore. Adesso sono smorti, avvizziti e ingobbiti, come spettri.

Arrivata a destinazione, entro nel bar. Stamani prenderò solo un caffè, non sono dell’umore giusto per il cappuccino: ho bisogno di svegliarmi. Dalla radio arrivano note inconfondibili, mi concentro sulla musica, e non sono sola: anche il barista si lascia andare e libera le sue insospettabili doti di vocalist.

Voglio una vita spericolata 

Voglio una vita come quelle dei film

Voglio una vita esagerata

Voglio una vita come Steve Mc Queen

Dalla mia borsa arriva un fastidioso beep, è un SMS: ”Ci sei vero? La riunione è alle nove e mezzo”. Rispondo velocemente: “Sto arrivando”.

Voglio una vita che non è mai tardi, di quelle che non dormi mai…

Veramente io ho un gran sonno stamani e avrei dormito volentieri un altro po’…

Voglio una vita, la voglio piena di guai…

Se faccio tardi alla riunione di stamani effettivamente potrei essere accontentata in questo senso.

Ehhhh

Ed eccolo, l’immancabile ”ehhhh” liberatorio, una costante irrinunciabile in tutte le canzoni di Vasco, per l’occasione enfatizzato e amplificato dalla possente ugola del barista.

E poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxy Bar, o forse non ci troveremo mai, ognuno a rincorrere i suoi guai.

Indugio ancora un po’ davanti al bancone: ormai voglio godermela tutta, la canzone.

Ognuno col suo viaggio ognuno diverso, ognuno in fondo perso dentro ai cazzi suoi…

Quando finalmente mi riprendo da questa specie di trance musicale, mi rendo conto che ho passato tutto il tempo a far girare a vuoto il cucchiaino nella tazzina, ancora non ho bevuto nemmeno un po’ di caffè. Ed è già freddo, accidenti.

Piove

Siamo fermi in un punto imprecisato della campagna. Un temporale improvviso ha sorpreso tutti, anche il treno. Un fulmine ha pensato bene di andare a cadere proprio sulla linea, davanti a noi, danneggiandola. Il treno ripartirà tra circa quindici minuti, ci dicono dall’altoparlante. E io, invece di arrabbiarmi… mi sono dilettata a fare foto alle gocce di pioggia sul finestrino! 🙂

 

Dieci modi per perdere (e trovare, magari ritrovare) un ombrello

Una delle conseguenze del lavorare lontano da casa è che può capitare che le condizioni meteorologiche del posto dove abiti siano significativamente diverse da quelle dove lavori. Come stamani: appena uscita di casa diluviava, a destinazione il cielo era azzurro e la temperatura mite. Tra i vari disagi che una simile variabilità di condizioni comporta, c’è l’elevata probabilità di perdere l’ombrello. Ci sono varie occasioni per dimenticare l’ombrello, ne ho individuate almeno dieci, eccole qua:

 

  1. Ovviamente, sul treno. Salita affannosamente sulla carrozza, dispongo l’ombrello fradicio su quella specie di gradino sotto il finestrino. Mi metto a leggere o lavorare, sono così concentrata che mi accorgo all’ultimo di essere arrivata, rimetto il libro o il computer in borsa, indosso velocemente il giubbotto e scendo. Un attimo, ho dimenticato l’ombrello… Ma le porte si sono già richiuse e il treno sta ripartendo…
  2. Al bagno della stazione. Cerco di evitarlo quando possibile, ma certe volte non se ne può fare a meno. In questi casi cerco di limitare al massimo il contatto del mio corpo e delle mie cose con qualsiasi superficie estranea. Con una serie di manovre e contorsioni riesco a fare quello che devo fare… ed esco, dimenticando nell’angolino l’ombrello.
  3. Al bar. E’ un classico. Per evitare che il pavimento diventi una palude, il barista ha sistemato all’ingresso un bel portaombrelli. Ne approfitto per lasciarci il mio. Prendo il mio quotidiano cappuccino, intanto smette di piovere e spunta uno spicchio di cielo azzurro tra le nuvole. Rigenerata dalla caffeina e rincuorata dai raggi del sole, esco e me ne vado al lavoro… senza il mio ombrello.
  4. All’edicola. Chiedo il quotidiano, prendo dalla borsa il portafoglio, per farlo ho bisogno di due mani, per cui appoggio alla parte bassa del bancone l’ombrello. Prendo il mio quotidiano, pago, sistemo il portafoglio, chiudo la borsa ed esco… E l’ombrello?
  5. In ufficio. Ok, in questo caso non è che lo perdo, domani lo ritroverò nello stesso posto, il problema è che, se stasera quando torno piove, quando arrivo a casa non importa che faccia la doccia.
  6. Nella pizzeria a taglio dove sono andata a pranzo con i colleghi. Presi da una discussione di lavoro, abbiamo allungato la pausa pranzo, nel frattempo è smesso di piovere e quindi… addio ombrello!
  7. Sulla panchina lungo il binario, dove mi sono seduta a leggere in attesa del treno in ritardo. La lettura mi prende, sono molto concentrata e mi accorgo solo all’ultimo dell’arrivo del treno. Mi alzo velocemente, rimetto il libro a posto nella borsa e, ovviamente, dimentico l’ombrello.
  8. Nel sottopassaggio, mentre sto andando al binario giusto: mi arriva una telefonata, devo recuperare il cellulare dentro la borsa, appoggio un attimo l’ombrello alla parete e… rimane lì.
  9. Nella biglietteria o alla macchinetta. Ho la caratteristica di rimandare le cose che non mi piacciono più possibile. Pagare l’abbonamento mensile ovviamente fa parte delle cose che non mi piacciono, per cui per farlo aspetto sempre l’ultimo minuto della prima mattina del mese. Appoggio da una parte l’ombrello, prendo l’abbonamento, lo pago (ahimè) e me ne vado velocemente, perché il treno sta arrivando… Ma non dimentico niente?
  10. Sull’autobus. A volte quando piove a dirotto devo rinunciare alla passeggiata in centro e prendere questo scomodo mezzo di trasporto e tra la convalida del biglietto, la ricerca di una configurazione stabile, l’ombrello viene abbandonato da una parte…

 

Stamani sono partita da casa con un simpatico ombrello arancione, al ritorno non ce l’avevo più, secondo voi, dove l’avrò mai lasciato?

IMG_1357

Cronaca di un viaggio che doveva essere diverso dal solito e invece…

Una sorpresa inaspettata… Marco ed io siamo stati invitati alla presentazione di un libro che si tiene nientepopodimeno che in uno dei palazzi più belli di Roma, un posto che noi umani e pure pendolari di solito vediamo solo in tv. Ovviamente non ci siamo fatti sfuggire l’occasione e abbiamo accettato con entusiasmo. L’invito riportava che in quel luogo, per l’uomo vige l’obbligo di indossare giacca e cravatta, per la donna è richiesto un abbigliamento sobrio. Marco allora, a dieci anni dalla laurea, rispolvera la veccchia cravatta blu e io mi rassegno a passare la giornata su un paio di tacchi più alti e più scomodi del solito.

A me piacciono le scarpe con il tacco, le indosso anche volentieri, ma spesso non posso, di fatto sono incompatibili con la vita di una pendolare. Nella vita di tutti i giorni bisogna essere pronti a tutto: corse improbabili contro il tempo, lunghi tragitti in piedi strizzati tra valigie e zaini, attraversamento dei binari (lo ammetto, una volta l’ho fatto, ero proprio al limite, sono stata attenta però!).Oggi però non è un viaggio normale, oggi prendiamo il treno vip, la Frecciargento, quindi anche i tacchi ci stanno bene.

Usciamo di casa con comodo anticipo per prendere il treno per Firenze Santa Maria Novella. Piove a dirotto. Alla stazione, la prima amara sorpresa: il treno che volevamo prendere è stato cancellato a causa del maltempo e quello successivo è già segnalato con un ritardo previsto di venti minuti. Ci rendiamo conto subito che non ce la faremo a prendere in tempo la Frecciargento che abbiamo prenotato. Decidiamo di prendere la macchina fino a Firenze Rifredi, dove prevediamo che ancora sia traffico affrontabile, è più facile trovare un parcheggio e ci sono molti treni in più per raggiungere Santa Maria Novella. Inizia una corsa frenetica senza esclusione di colpi (non fisici, per fortuna) e clacsonate. Arriviamo a Rifredi e constatiamo che i “molti treni in più” su cui confidavamo, a causa delle cancellazioni e dei ritardi per il maltempo, si riducono ad uno solo. Che sta arrivando al binario cinque. Adesso. Allora, via, di corsa nel sottopassaggio, scavalcando mendicanti, studenti, gente che sta contemplando il tabellone come davanti a un’immagine sacra (solo che, invece di pregare, imprecano). Saliamo rovinosamente sul treno, siamo strizzati come le alici in un vasetto sott’olio. Io, purtroppo, sono abituata a queste cose, mi rassegno e non ci faccio troppo caso, Marco invece, inizia a brontolare.

Il treno, o meglio il contenitore di umanità compressa, si ferma dopo pochi metri dalla partenza, probabilmente il traffico ferroviario è perturbato (e anche il nostro umore) e le precedenze nella circolazione sono cambiate. Le lancette dell’orologio scorrono velocemente, la probabilità di prendere la Frecciargento diminuiscono sempre di più. Oltretutto, da inguaribili ottimisti quali siamo e soprattutto per risparmiare qualche euro, abbiamo scelto un biglietto non modificabile, in cui non sono previsti rimborsi o cambi di prenotazione.

Non abbiamo tenuto conto del fatto che il viaggiatore ferroviario è un perfetto esempio a cui si può applicare la Legge di Murphy, esiste anche un corollario il cui enunciato è più o meno questo: “Se il tuo treno è in ritardo, la coincidenza partirà puntuale”.

Quando ormai le speranze sono ridotte al minimo, il treno riparte e, seppure a passo d’uomo, arriva nella stazione di Santa Maria Novella con un margine di ben tre minuti rispetto alla partenza della Frecciargento, necessari per teletrasportarsi dal binario uno al dieci. Quindi, ancora una volta, ripartiamo con  uno scatto frenetico, con rischio di scivolamento a causa del pavimento in marmo bagnato per la pioggia.

Ma la Legge di Murphy, per fortuna, non si smentisce nemmeno in questo caso: dato che comunque, siamo arrivati con tre minuti di anticipo, le condizioni di validità del corollario che ho enunciato in precedenza non sussistono e difatti anche il Frecciargento ha quindici minuti di ritardo… E quindi, appena arriveremo a Roma, ci aspetterà una nuova corsa, ma questa è un’altra storia…

IMG_2982

Per cortesia!

Stamani piove e come sempre in questi casi il primo treno della mattina è in ritardo così che devo rinunciare al cappuccino al bar appena fuori dalla stazione, peccato, perché ne ho proprio bisogno, per affrontare meglio questo freddo e questa umidità.

Ho tuttavia un po’ di tempo per un caffè al volo nel bar dentro la stazione, che non mi piace tanto, ma stamani dovrò accontentarmi. Faccio diligentemente la breve coda per lo scontrino e mi avvicino al bancone. Per metà è occupato da tre signori in giacca, cravatta e ventiquattrore che hanno già consumato, ma stanno lì immobili a parlare di lavoro. L’altra metà è inaccessibile a causa di una coppia di corpulenti turisti con invadenti valigie a seguito. Non essendo molto alta di statura non ho modo di farmi notare dal barista per ordinare, ma vedo che i due turisti hanno quasi finito la loro colazione e se ne stanno per andare, per cui mi preparo ad occupare il loro spazio. Per evitare di essere investita dalle loro valigie, mi sposto leggermente di lato. Gravissimo errore, un signore elegante con un impermeabile chiaro arrivato un attimo fa, ne approfitta per superarmi, ostacolandomi con una leggera spallata.

“Ma che modi!” esclamo, ma lui non sente, essendo impegnato in un’animata telefonata.

Lo osservo: non ha certamente l’aspetto del pendolare, è troppo elegante e sofisticato, di sicuro è un cliente di qualche Freccia, probabilmente di classe business, e sta andando a qualche riunione in cui parlerà di budget con un sacco di zeri e proietterà una colorata presentazione Power Point ricca di grafici ad altre persone eleganti e sofisticate come lui.

Sempre parlando al telefono, mostra lo scontrino al barista e, mentre sta parlando il suo interlocutore, con un movimento labiale molto esplicito ma privo di suoni, per non interrompere la preesistente conversazione, con aria molto solenne, di chi sta discutendo di cose veramente importanti, chiede un caffè.

Nonostante tutto, riesco a guadagnare la mia porzione di bancone e ad ordinare. Arriva prima il caffè del signore e lui come un falco si avventa sulla zuccheriera posta tra noi due. Dolcifica abbondantemente il suo caffè e ripone la zuccheriera dalla parte opposta rispetto a me, ignorandomi completamente. Poco male, io tanto lo prendo amaro.

L’atteggiamento scortese e  arrogante del signore stimola il mio sistema nervoso più della caffeina, anzi, la calda bevanda, nonostante tutto, ha su di me un effetto calmante. Finisco prima di lui, nel frattempo dietro di noi sono arrivate altre persone e c’è un po’ di affollamento. Ne approfitto per restituirgli la spallata, fingendo di andare a sbattere con l’ombrello tutto bagnato contro il suo impermeabile immacolato. Chiedo velocemente scusa e mi avvio tranquilla verso il lavoro.

al bar

Non può piovere per sempre

I miei post, prima di essere pubblicati qui, nascono, generalmente proprio sul treno, in un quadernino rosso pieno di cancellature, scarabocchi, disegnini e ripensamenti, poi la sera dopocena vengono ripuliti e riscritti con Word e infine copiati e incollati qui. Per questo motivo tra il concepimento del post e la sua nascita vera e propria passano in genere un paio di giorni. Questa introduzione è per spiegare perché oggi, in una fredda e assolata mattina di fine autunno – inizio inverno, pubblico un post che parla di pioggia.

Quando li ho visti salire sul treno, stamani, ho capito che avevo sbagliato i miei calcoli. Avendo visto il cielo sereno con qualche innocua nuvoletta, mi ero messa le scarpe scamosciate e soprattutto, prima di partire, avevo steso il bucato fuori. Ma la presenza sul treno dei venditori di ombrelli è inequivocabile: oggi pioverà. La loro affidabilità è quasi perfetta, mi piacerebbe sapere quale sito o canale del meteo consultano.  Alla stazione spuntano da ogni angolo appena cadono le prime gocce, offrendo per pochi euro un riparo al viaggiatore sprovveduto che è partito da casa, magari di fretta, come me, confidando nella clemenza del tempo.

Tipicamente i prodotti offerti da questi venditori improvvisati sono tre: ombrellini ripiegabili, facilmente trasportabili in borsa, ombrelli classici più grandi e impermeabili di plastica. Più di una volta questi ragazzi mi hanno salvato da una doccia quasi certa. Diverse volte ho acquistato un ombrellino ripiegabile. Il modello è sempre lo stesso, disponibile in vari colori e fantasie. Di solito li compro tinta unita, l’ultimo era di un bel giallo brillante, scelto così per dare un tocco di colore a una giornata di per sé grigia. Il problema di questi ombrellini è l’affidabilità: praticamente sono usa e getta. Dopo un paio di utilizzi una delle stecche inizia mestamente a penzolare e l’ombrello assume una triste postura ripiegata. Il failure si verifica tipicamente nel momento di massima violenza della pioggia. Al minimo alito di vento si ribaltano lasciando il povero utente sotto lo scroscio di pioggia battente. Essendo piuttosto imbranata e scoordinata e viaggiando spesso con parecchie cose addosso e per la testa, in questi casi sono in particolare difficoltà. Giusto pochi minuti fa stavo camminando con passo svelto verso la stazione sotto la pioggia, riparata da uno di questi ombrellini. Una borsa su ognuna delle spalle: sulla destra quella con portafoglio, libro, chiavi, trucchi, ecc. sulla sinistra quella da lavoro con il computer, il quaderno per gli appunti, alcuni articoli da leggere, una tesi da correggere. Con una mano reggevo l’ombrello e con l’altra tenevo il cellulare all’orecchio, stavo discutendo con un collega un lavoro in scadenza. Alla prima inaspettata folata di vento, l’ombrello si è rigirato e due stecche si sono rotte. Come se non bastasse, la borsa del computer mi è scivolata dalla spalla, la tracolla si è incastrata con la sciarpa, che praticamente mi ha strozzato. Con qualche difficoltà sono riuscita  goffamente a recuperare la borsa e evitare di soffocare, ma il riparo dalla pioggia è uscito seriamente compromesso da questa piccola disavventura e sono arrivata alla stazione con il giubbotto per metà fradicio.

Il record negativo di durata l’ho battuto lo scorso inverno, una domenica pomeriggio. Dovevo andare in centro a Firenze, scesa dal treno mi sorprese un improvviso e abbondante acquazzone. Comprai un grazioso ombrellino azzurro all’uscita della stazione. All’angolo con via Nazionale (vale a dire approssimativamente dopo cinquanta metri dall’acquisto) il nuovo ombrello mi abbandonò cedendo alla violenza delle intemperie. Sarei dovuta tornare indietro e pretendere la sostituzione: insomma, va bene che avevo speso solo cinque euro, ma un minimo di garanzia ci dovrebbe essere, no? Ma era tardi per l’appuntamento dove mi dovevo recare e lasciai perdere.

Le rare volte in cui riesco a partire da casa organizzata prendo un ombrello più grande. Ma mi impiccia: in treno non so mai dove metterlo, specialmente se è fradicio. Allora lo nascondo nello spazio tra due coppie di seggiolini tra loro opposti. Lì non dà fastidio a nessuno, ma la probabilità di dimenticarlo è alta e diventa praticamente una certezza se nel frattempo, all’arrivo, smette di piovere.

Concludo con un ultimo aneddoto che ha per protagonisti la pioggia e gli ombrelli, ma anche le leggi del mercato, della relazione tra domanda e offerta: in una bancarella in centro, in un giorno di pioggia, ho letto un cartello con su scritto: “Qui ombrelli a 3 euro, quando piove a 5 euro”.

cello rain

Pendolari in umido

Piove, senti come piove, Madonna come piove, senti come viene giù… Piove, senti come piove, Madonna come piove, senti come viene giù… Cantava Jovanotti un po’ di tempo fa.

Quando piove, la vita del pendolare si complica ulteriormente. Peggiorano le condizioni del traffico, i ritardi dei treni, e poi lungo tratti a piedi bisogna stare più attenti: le macchine che passano sulle pozzanghere, i passanti che ti vengono incontro a testa bassa puntandoti addosso l’ombrello come un ariete, rischiando di accecarti con le stecche. Insomma, un inferno.

Intendiamoci, a me la pioggia piace. Quando sono in casa e non devo uscire. Quando d’estate ci sono quaranta gradi e porta un po’ di refrigerio. Quando sono sotto le coperte e sento le gocce picchiettare sui vetri della finestra. Ma non oggi, proprio, oggi, no.

E’ lunedì, la settimana è iniziata normalmente, la giornata è passata con le consuete attività. Manca solo un’ora, sto completando le ultime cose, quando sento il rumore di una chiamata su Skype. Mi hanno convocata in una riunione non prevista, dobbiamo pianificare un nuovo progetto, la scadenza è a breve e la nostra presenza è strategica. In altri termini, stasera devo rimanere al lavoro un’ora in più. Vabbè, non è la prima volta, non sarà certo l’ultima. La riunione si svolge senza grosse sorprese, esco, come previsto, un’ora dopo il consueto. Se tutto va bene, riuscirò a prendere il treno delle diciotto e trenta.

Se tutto va bene.

Nel frattempo, arriva il diluvio. Inizia una pioggia fitta e insistente, intervallata da brevi ma frequenti scrosci. Con queste condizioni meteo, vado a prendere l’autobus. Mentre mi avvicino alla fermata, rischio di essere investita da un’automobile sulle strisce pedonali. Gli automobilisti con la pioggia diventano particolarmente aggressivi. Non mi investe, per fortuna, ma già che c’è pensa bene di passare sopra a una pozzanghera e farmi una bella doccia. Maledico lui e anche qualche suo consanguineo. Sotto la pensilina dell’autobus, siamo tutti stipati e fradici. L’autobus passa con quindici minuti di ritardo, pieno zeppo di gente con ombrelli gocciolanti. E’ il caos. Le più comuni norme di civile convivenza sono totalmente disattese: adolescenti che rubano il posto a sedere agli anziani, gente che sale prima di far scendere, un sottofondo di turpiloqui di vario genere. Ad un certo punto una donna che sta per scendere pensa bene di aprire l’ombrello dentro al bus, si incastra nella porta, ostruendo il passaggio sia a quelli che salgono che a quelli che devono uscire. Alla fermata dopo sale un venditore ambulante, con una grossa borsa di plastica azzurra e un minuscolo ombrello a fiori. Esclama: “Porco diavolo, si stava meglio in Africa!” Come dargli torto, in questi momenti!  L’autobus si infogna nel traffico intorno a una rotonda vicino alla stazione. Anche se non sono esperta di rotonde, quella lì deve essere stata proprio progettata male, visto che, invece di favorire il deflusso del traffico, lo congestiona in modo impressionante. Ormai ho la certezza di aver perso il treno. Scendo dall’autobus, entro nella stazione e un barlume di speranza si riaccende: il mio treno ha dieci minuti di ritardo e sta partendo in quel momento. Ovviamente oggi è al binario più lontano, quello senza nemmeno la pensilina. Con altri due pendolari iniziamo lo scatto verso il binario cinque. Una corsa ad ostacoli oggi resa ancor più interessante dal pavimento scivoloso, segnalato da quei simpatici cartelli gialli con disegnato un omino in procinto di cadere. La discesa delle scale del sottopassaggio, rivestite in travertino, è particolarmente insidiosa. Risalgo i gradini del sottopassaggio a due a due. Arrivata in cima però, la delusione: il treno ha già le porte chiuse e sta iniziando  muoversi. Dal finestrino, il capotreno ci guarda, stringe le spalle e ci fa un mezzo sorriso, che vorrebbe forse essere di scusa e di comprensione, ma a me sembra più un sadico ghigno soddisfatto.

Mi rassegno ad aspettare, con i piedi fradici e l’umore nero che più nero non si può, altri cinquanta minuti per il treno successivo.