Amanda Ciarlieri (e la sua amica Gianna)

 

L’ultima volta che l’ho vista, e soprattutto sentita, è stata la settimana scorsa. Era stata una giornata particolarmente pesante, al lavoro. Arrivata al treno, non avevo voglia neppure di mettermi a leggere, volevo solo dormire, anche se non lo faccio quasi mai.

Trovato un posto sufficientemente isolato, avevo già sistemato la borsa e lo zaino del computer, allungato un pochino le gambe e iniziato ad abbassare le palpebre, quando…

“Oh, guarda chi c’è! Ci sediamo qui, oggi, va bene?”

Addio, mio caro Morfeo, ho pensato subito, per oggi ti devo lasciare. Sono arrivate Amanda Ciarlieri e la sua amica Gianna.

Cosa posso raccontarvi di Amanda Ciarlieri? Non so proprio da dove partire, e potrei stare qui per ore…

So che qualche tempo fa ha fatto le analisi del sangue e le hanno trovato il colesterolo un po’ alto, quello buono, però.

So che il martedì e il giovedì va a pilates appena torna a casa dal lavoro, ma ultimamente non si trova molto bene, perché hanno cambiato insegnante. Quella che c’era prima era più brava e anche più simpatica, ma adesso è in maternità.

So che qualche domenica fa ha cucinato delle lasagne buonissime, così deliziose che il marito, a cui le lasagne nemmeno piacciono tanto, ne ha prese due porzioni.

Potrei elencarvi tutti i voti a scuola del figlio, e descrivervi i capolavori di bricolage del marito o le prodezze dell’amato cagnolino, un pinscher nano di nome Artù che, a sentire i suoi racconti, è ben più intelligente e abile del Commissario Rex, il pastore tedesco dell’omonima serie televisiva.

Conosco la sua taglia, la marca del colore dei capelli, il numero di scarpe. Che però è  variabile, perché ha il piede un po’ largo non tutti i modelli le vanno bene, soprattutto quelli che calzano stretto.

A volte viaggiare con lei, anche se rumoroso, si può rivelare utile. Per esempio, è aggiornatissima sugli sconti e promozioni di tutte le catene di supermercati. Qualsiasi cosa vi serva, dalla provola al liquido per il tergicristalli, dalla finocchiona DOP ai sacchetti per il freezer: basta chiedere a lei e potrete sapere dove recarvi per ottenere il massimo rapporto qualità/prezzo. Se siete particolarmente fortunati, a un certo punto dalla borsa tirerà fuori un coupon per uno sconto proprio su quel prodotto e ve lo regalerà.

E l’amica Gianna? Beh, lei è la spalla ideale per gli estenuanti monologhi di Amanda: segue, annuisce, ogni tanto interviene, integra, fornisce spunti. Come un satellite, riflette la prorompente luminosità della dialettica della compagna di viaggio.

Perché non ti porti un paio di cuffie? Vi starete chiedendo. Magari di quelle belle grosse, che cancellano il rumore esterno. Eh, no, miei cari, non si può. Perché se Amanda e l’amica Gianna vi scelgono come compagni di viaggio, dovete per forza seguirle, far parte della loro conversazione, verrete coinvolti della discussione, interrogati. E poco importa se volevate approfittare del tempo del viaggio per finire una relazione di lavoro, leggere un libro, fare una partita a Candy Crush Saga sul tablet, dormire. Non vorrete mica passare da antipatici o misantropi, come il vecchio Dimitri, o da bislacche lunatiche, come Amelia, o patologicamente fissati con i vostri congegni tecnologici, come il Signor Perfetti?

Conoscete la teoria dei sei gradi di separazione? Quella che afferma che ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di cinque intermediari? Ecco, nel caso di Amanda, chiunque si trovi davanti, il grado di separazione è uno, due, al massimo. Perché, chiunque voi siate, qualunque sia la vostra provenienza, lei conoscerà sicuramente un vostro collega, o un genitore di un compagno di scuola dei vostri figli, o il vostro dentista…

Quando la incontrerete, nel primo quarto d’ora lei cercherà di inquadrarvi, si costruirà una sorta di dossier mentale. Digos, FBI, Wikileaks, non sono niente in confronto.

“Ah, lavori all’università?”

“Sì.”

“Allora conoscerai di sicuro Tizio!”

“No, non mi pare di averlo mai sentito…”

“Strano, anche lui lavora all’università…”

“Magari è in un altro dipartimento.”

“Può darsi, lui è nel dipartimento di Biotecnologie.”

“Ah, no, io sono a Fisica!”

“A Fisica?! Allora conosci sicuramente Sempronia!”

“Sì, la conosco, ha l’ufficio accanto al mio.”

“La conosco bene, sai?! Andiamo a pilates insieme… Anche lei ha problemi alla schiena!”

Ed ecco fatto il link , da adesso anche voi sarete un nodo della sua fittissima, super connessa rete di conoscenze.

La settimana scorsa la conversazione aveva preso una piega squisitamente autunnale: si parlava di funghi. Non si era nemmeno finita di sedere che stava già aggeggiando con il telefono cellulare per mostrarci la foto di un bel cestino zeppo di prodotti micologici, procacciato dall’efficiente marito, che la sera precedente era stato a fare una passeggiata nel bosco in compagnia di un amico.

“Ma sono tutti buoni?”, avevo chiesto, perplessa, vedendo l’immagine.

“Ma scherzi?!?! Certo che sono buoni! L’amico di mio marito è esperto, sai!”

“Anche quelli lì? Quelli gialli… Che strano colore, non ne ho mai visti così!”

“Ah, quelli sono buonissimi! Non li ho mai mangiati, ma mi ha detto la Gina, che secondo lei sono anche meglio dei porcini! Stasera ci faccio un bel sughetto e ci condisco gli gnocchi!”

Davanti a tanta sicurezza avevo smesso di replicare. Sarà vero che sono buoni, ho pensato; in fondo, so che i funghi commestibili sono molti di più di quelli che conosco. Anche se, quando vado nel bosco, per essere sicura prendo solo i porcini, se ho la fortuna di trovarne qualcuno.

“Mah, anche a me non sembrano tanto commestibili…”, aveva replicato l’amica Gianna, insolitamente in disaccordo. “Ma tu cosa ci metti, per preparare il sugo?”

Ne era seguita una disquisizione sul mix ottimale di spezie da utilizzare per il sugo di funghi, che ci aveva portato fino alla stazione di arrivo. Visto l’orario, visto il panino frettoloso che avevo mangiato per pranzo, visto l’argomento gustoso della conversazione, mi ero quasi convinta che quegli strani funghi gialli fossero veramente buoni. Se li avessi avuti a disposizione, quella sera, ci avrei fatto anch’io un bel sughetto per la pasta.

Alla fine, non vi so dire se gli strani funghi gialli erano veramente commestibili e se cucinati a dovere erano così deliziosi: da quel giorno, Amanda, non l’ho più rivista sul treno… Uno di questi giorni chiedo all’amica Gianna se ne sa qualcosa…

amanda

 

 

Alfonso Perfetti

In un tiepido pomeriggio autunnale, un temporale improvviso e piuttosto irruento sorprende noi pendolari del treno delle diciassette e diciotto durante il tragitto tra i vari luoghi di lavoro e studio e la stazione. Chi può si ripara con gli immancabili ombrellini pieghevoli, ma dispettose folate di vento si divertono a rovesciarli e a romperli. C’è chi si protegge i capelli con un foulard, chi affretta il passo, chi si mette a correre, chi si rifugia nel rientro di un portone o di un negozio. Quelli che hanno avuto la fortuna di incrociare uno degli affollatissimi autobus, si ritrovano fermi, imbottigliati nel traffico, intrappolati in uno spazio ridottissimo in cui l’aria è irrespirabile a causa dell’umidità.

Arrivati alla stazione, siamo tutti piuttosto stravolti: scapigliati, esausti, con le scarpe e i piedi fradici, le borse e i capelli gocciolanti. Tutti, tranne lui: Alfonso Perfetti. Non si sa come abbia fatto, ma lui, sul treno, sale impassibile e impeccabile, come sempre.

In effetti, è difficile sorprendere Alfonso Perfetti. La mattina, appena si alza, controlla con una delle sue app installate nel telefonino le condizioni del meteo e sulla base delle previsioni decide cosa indossare. Prima di uscire da casa, un’altra app lo informa se il treno è o meno in orario. Se ci fossero ritardi eccessivi o cancellazioni, un’altra app ancora verifica il percorso ottimale e gli orari degli autobus. Se non ci fossero soluzioni a questo punto Alfonso prenderebbe la propria auto, non prima di aver consultato, tramite un’apposita app, le condizioni del traffico e l’eventuale presenza di lavori o rallentamenti lungo il percorso.

Il suo aspetto è sempre impeccabilmente, ma sobriamente, elegante, dalla punta delle scarpe alla sommità dei capelli. Non mancano mai giacca, cravatta, e camicia immacolata e perfettamente inamidata, anche nel pomeriggio, dopo una giornata di lavoro.

Porta con sé uno zainetto leggero, dalle forme stondate, ergonomiche, che contiene un piccolo ma potente computer portatile e un taccuino nero. In tasca, non manca mai il fedele smartphone, con tutte le sue app. Ha sempre il modello di punta, quello più aggiornato, con il processore più veloce, la memoria più capiente, lo spessore più sottile, la forma più elegante.

Gli piace tenere tutto sotto controllo: a casa, al lavoro, e anche nel suo viaggio pendolare. Alfonso si prepara sempre un pochino in anticipo all’arrivo a destinazione del treno: gli piace essere il primo a scendere e tirare la maniglia per aprire la porta della carrozza. Nei treni più nuovi, quelli in cui ci sono gli schermi che riportano le principali condizioni del viaggio, tiene d’occhio i dati, la velocità in particolare, e la confronta con quella che gli fornisce una delle sue app.

A un primo sguardo, potrebbe sembrare una persona arida di sentimenti, che sta meglio con chip e processori che con i suoi simili, una specie di cyborg, uno che vede il mondo attraverso una matrice di pixel. Ma è davvero così?

Quando non digita freneticamente sulla tastiera del piccolo computer, Alfonso ama leggere. Anche per questa attività è stato tentato dalla tecnologia: ha provato gli ebook sul tablet, poi è passato all’ebook reader, ma la soluzione digitale non lo ha convinto e alla fine è tornato al cartaceo. Legge soprattutto i gialli classici, quelli in cui la vittima muore nelle prime pagine e l’investigatore per tutto il tempo raccoglie indizi e mette insieme i pezzi del puzzle, fino a scovare l’assassino, che si sfoga in un’accorata confessione, per permettere al lettore di capire. Alfonso è piuttosto severo nel giudicare le sue letture. Di solito, già dopo pochi capitoli si fa un’idea di cosa è successo. Se, alla fine, la sua teoria è confermata, liquida l’opera come prevedibile e banale, se, invece, la vicenda prende una piega per lui inaspettata, la critica di essere inverosimile. Alla fine di ogni volume annota questi giudizi con cura, con una delle sue app, insieme al titolo e l’edizione, la data d’inizio e fine lettura.

Il pomeriggio, Alfonso Perfetti arriva alla stazione sempre dieci minuti prima della partenza del treno, si ferma al bar e gusta un caffè decaffeinato e un muffin al cioccolato. Non è chiaro se gli piaccia di più il muffin o la barista. Ora che ci penso… ecco perché non è stato sorpreso dal temporale, oggi!

Difficilmente Alfonso Perfetti perde il controllo della situazione, ma a volte, molto di rado a dire il vero, cede a qualche segno di stanchezza. Oggi pomeriggio, per esempio, verso la metà del viaggio di ritorno in treno, Alfonso sembra quasi ipnotizzato dallo scorrere all’indietro delle case, degli alberi e delle colline fuori dal finestrino. Lascia vagare liberi i pensieri, nella sua testa è come se fosse apparso quel cerchietto che gira al centro delle schermate dei computer quando sta caricando un programma molto pesante. Solo dopo qualche istante si ricorda di essere sul treno e si rende conto di avere quasi metà dell’indice della mano destra dentro la corrispondente narice. E solo allora si accorge della pendolare svampita, quella che arriva sempre tardi, che, seduta poco più avanti, lo osserva. Ha in mano quel suo cellulare dai colori pacchiani… non l’avrà mica fotografato mentre aveva le dita nel naso? No, dai, è troppo imbranata, neanche le saprà fare, lei, le foto con il cellulare. Non sembra molto avvezza alla tecnologia in effetti. Ecco che ricomincia a leggere il suo libro.

Scorrono lenti i minuti, siamo quasi arrivati. Alfonso, con il solito anticipo, si avvia verso l’uscita. Il treno si ferma, la porta si apre, i passeggeri scendono. Alfonso è il primo, come sempre. La pendolare distratta no, ha fatto tardi con il suo libro, la vede dal finestrino che si dispera per aver perso la fermata. Quando è lei ad accorgersi che lui la sta fissando, dal marciapiede, la disperazione le si trasforma improvvisamente in un sorrisetto ironico e beffardo. Il treno riparte, lei lo saluta agitando il braccio, mostrando fiera il suo cellulare pacchiano…

temporale

Amelia Svampitelli

Sono le sette e undici, il treno si avvicina alla banchina del binario tre. I viaggiatori tutti in fila, lungo il binario, si avvicinano – senza oltrepassarla – alla linea gialla, in modo coordinato, quasi sincrono. Un’immagine regolare, statica, se non fosse per quella sagoma che arranca in modo sgraziato su per le scale del sottopassaggio.

Eccola, Amelia Svampitelli, in ritardo come ogni mattina, che rischia di perdere il treno.

Forse, penserete, è rimasta bloccata nel traffico o non ha trovato il parcheggio? No, perché abita a cinque minuti a piedi dalla stazione e non deve prendere la macchina.

Forse è una di quelle che ottimizza i tempi, come il ragionier Fantozzi nella famosa scena dell’omonimo film, per posticipare più possibile il suono della sveglia? No, lei si sveglia un’ora prima della partenza e ha tutto il tempo per prepararsi con comodo.

Forse ha una famiglia numerosa da gestire, bimbi da preparare per la scuola, all’asilo, dalla nonna? No, Amelia non ha figli.

Allora? Perché si riduce ogni mattina all’ultimo minuto? Amelia, semplicemente, “si perde”. No, non soffre di una strana forma di amnesia, non è che perde la strada da casa sua alla stazione, perde solo di vista per un po’ quello che deve fare e lo mette in secondo piano rispetto a quello che le va di fare.

Tipicamente, quando mancano dieci minuti alle sette, è già pronta: potrebbe uscire, arrivare con calma alla stazione, prendere un caffè al bar, anche. Poi succede che, proprio quando sta per aprire la porta, si accorge che le piantine sulla mensola hanno bisogno di acqua e deve assolutamente innaffiarle.

Oppure si ricorda che ha finito di leggere il libro che ha in borsa e si mette a scegliere quale iniziare dalla pila che ha sul comodino, ne prende uno, si avvia, poi cambia idea, ne prende un altro, legge la trama e la biografia dell’autore sulla quarta di copertina, poi ci pensa un po’ su e riprende quello che aveva scelto prima.

Oppure a un tratto non le piace più l’ordine delle tazze che ha sulla mensola della cucina – ha una piccola collezione di tazze, ne compra una ogni volta che fa un viaggio – e si mette a risistemarle.

Insomma, ogni mattina l’orologio per qualche misterioso motivo salta direttamente dalle sei e cinquanta alle sette e cinque. Amelia solo a quel punto si sveglia, prende le sue cose in fretta e furia e corre alla stazione.

Quando sale in treno ha ancora il fiatone della corsa. La prima parte del viaggio la passa a controllare di aver preso tutto e a chiedersi con preoccupazione se ha dato o no le mandate alla porta di casa o se ha chiuso la finestra del bagno. Poi piano piano si tranquillizza e inizia a leggere.

Ad Amelia piacciono le agende, soprattutto quelle colorate con la copertina morbida e gli anelli, ne ha sempre una con sé in borsa, ma non le piace organizzarsi e pianificare le cose. Non le piace sentirsi vincolata in una struttura precostituita, neppure quando è lei a definirla. Le piace molto di più sorprendersi e improvvisare. Sarebbe bello poter vivere così, ma per una donna che ha un lavoro dipendente e che per di più è costretta a quotidiani viaggi pendolari in treno, non è per niente semplice.

Quando passa il controllore a verificare i biglietti, Amelia impiega sempre un po’ a trovare il suo nella borsa e deve chiedergli di pazientare. Non è particolarmente disordinata, ma la sua borsa è veramente piena, straripante di cose e trovare quella che serve al momento giusto non è mai banale. Quando le serve la tessera del supermercato, trova il telefono; quando cerca il telefono, trova le chiavi di casa; quando cerca le chiavi di casa, trova il volantino che le hanno dato alla stazione.

Amelia passa il tempo del viaggio a leggere o a guardare il panorama fuori dal finestrino. Le piacciono i colori caldi dell’autunno, le fredde nebbie invernali, che trasformano tutte le cose in flebili ombre, la natura che rinasce a primavera, i campi di girasoli in estate. Le piacciono le forme bizzarre delle nuvole, i colori sorprendenti dell’alba e del tramonto, il ticchettio della pioggia sulle falde dell’ombrello, le gocce che si inseguono sul vetro del finestrino, in diagonale, quando il treno va veloce.

Recentemente si è comprata un bel telefonino moderno, che ha subito accessoriato con una cover molto colorata e piena di brillantini. Non le interessa tanto che sia super-connesso e che le consenta di accedere alla posta elettronica e ai vari social network. Le piace usarlo soprattutto per fotografare il paesaggio fuori dal finestrino, anche se raramente ottiene immagini decenti: sono quasi sempre mosse, storte, e c’è sempre qualche elemento – un paletto, un semaforo, un cartello- a disturbarle. Va troppo veloce, questo treno, non potrebbe rallentare un po’ quando ci sono degli scorci belli da fotografare?

Non lega molto con gli altri viaggiatori, preferisce starsene per conto suo, tenere tutto per sé il tempo del viaggio. A volte le capita di viaggiare con una collega, in quei casi è costretta a discorrere sulle beghe dell’ufficio e non le piace molto, visto che in ufficio, poi, ci dovrà stare un sacco di ore: perché bisogna anticipare o prolungare tutte queste seccature?

La incuriosisce molto quel pendolare solitario e brontolone che trova ogni mattina, sempre nello stesso posto. Una volta gli si è seduta di fronte per spiare il titolo del librone vecchio e ingiallito che stava leggendo, ma lui  l’ha guardata malissimo e lei non ci ha più riprovato.

Ed eccoci, durante il viaggio di ritorno, in un qualsiasi pomeriggio autunnale. Amelia è come sempre immersa nella lettura, sta per finire un romanzo che l’ha veramente appassionata. Si accorge che il pendolare solitario e burbero si è alzato per prepararsi alla fermata. È ancora presto, pensa. Lui, preciso e rigoroso com’è, si prepara sempre con molto anticipo, e poi oggi è pure molto scocciato perché si sono sedute nei posti vicini due ragazze che sicuramente non gli piacciono, con i capelli a strisce fucsia e i piercing nel naso. Forse ce la faccio a finire il capitolo: mi manca solo una pagina e mezzo.

Il treno rallenta, Amelia continua a leggere. Il treno si ferma. Manca ancora meno di mezza pagina, ormai deve assolutamente scoprire come va a finire. Le porte si aprono. Amelia, con un sospiro, finisce il libro, lo rimette in borsa, le è piaciuto veramente tanto. Le porte del vagone si chiudono. Amelia si alza, si avvia verso l’uscita, ancora emozionata. Il treno riparte. Amelia dovrà scendere alla fermata successiva e tornare indietro.

2015-09-30 08.09.29

Dimitri Biasimov

Dimitri Biasimov è quello che può essere definito un signore distinto. Canuto, magro e longilineo, sarebbe ancora più alto se la schiena non fosse un po’ ingobbita, probabilmente dai numerosi decenni passati chino su una scrivania. Sobriamente elegante e impeccabile nell’abbigliamento, predilige i colori smorti.
È un tipo molto abitudinario, Dimitri. Prende sempre il treno delle sette e dodici la mattina e quello delle diciassette e diciotto il pomeriggio. Da quanto tempo? Non lo so io, non lo sanno i miei compagni di viaggio con i quali occasionalmente scambio qualche parola, sicuramente da molto prima che iniziasse la mia avventura pendolare, ma non mi stupirei se fossero diversi decenni. Sale sulla seconda carrozza, verso la testa del treno, sceglie un posto nella parte centrale della carrozza, possibilmente evitando di avere altri viaggiatori seduti a fianco o di fronte, possibilmente sul lato destro, guardando nella direzione di marcia, per non avere il riflesso del sole. Si accomoda sul sedile dalla parte del finestrino e posa una consunta borsa di pelle sul sedile di fianco al suo, per scoraggiare eventuali viaggiatori a sedervisi. Prende dalla borsa un libro dalla copertina di tela marrone, con le pagine ingiallite e i caratteri piccolissimi, inforca un paio di occhialini e inizia a leggere. Continua a leggere fino all’arrivo, cercando di non distrarsi. Non tollera alcuna alterazione delle sue quotidiane abitudini e, se capita qualche evento a perturbare il suo viaggio, lo vedi subito che inizia ad agitarsi e a borbottare sottovoce. Un brontolio concitato e per niente amichevole.
Non sopporta il caldo dell’estate, il freddo dell’inverno, l’umidità dell’autunno, i pollini della primavera. Se mi chiedeste qual è la sua situazione metereologica ideale, avrei non poche difficoltà a rispondervi.
Non sopporta quelli che non pagano il biglietto: lui, in tutti gli ormai numerosi lustri di pendolarismo, non è mai stato neppure una volta fuori regola con l’abbonamento. Non sopporta le inutili discussioni che nascono quando il controllore li scopre: non avete pagato il biglietto? Pagate la multa e smettetela di discutere.
Non sopporta i ragazzetti chiassosi che vanno a scuola. Sono inutilmente confusionari, non fanno altro che spingersi e rimbalzare da un posto all’altro del vagone con quegli zaini ciondolanti.
Non sopporta quei due tizi sempre in giacca, cravatta, auricolare e occhiali da sole, anche se il sole non c’è: sono sempre alle prese con conversazioni telefoniche complicatissime che secondo loro sono di vitale importanza, vista la concentrazione e il piglio sicuro con cui le conducono, ma di cui a Dimitri non interessa la benché minima parte.
Non sopporta le signore ciarliere, quelle che passano il tempo del viaggio a discorrere delle prodezze dei propri figli, sicuramente degli adolescenti brufolosi come quelli che lo infastidiscono tanto, di ricette che trasudano grassi e colesterolo, di saldi e negozi convenienti.
Non sopporta il profumo intenso e dolciastro con cui si cospargono ogni mattina in modo smisuratamente esagerato e con cui infestano l’intero vagone.
Non sopporta in generale gli odori del vagone: le esalazioni umane di ogni tipo, particolarmente concentrate in estate, il tanfo insopportabile che ogni tanto proviene dalle toilette, gli aromi delle pietanze che qualche scellerato viaggiatore consuma durante il viaggio.
Non sopporta quelli che giocano a quegli inutili giochini sui cellulari e sui tablet, tenendo la suoneria a volume elevato, costringendo tutta la carrozza ad ascoltare quelle musichine sciocche e infantili.
Non sopporta quelli che mettono i piedi sul seggiolino di fronte, quelli che dormono con la bocca spalancata e russano pure, in generale non sopporta chi non mantiene, durante il viaggio, una postura e un atteggiamento composti e rispettosi, come fa lui.
Nel suo mondo ideale, vorrebbe avere ogni giorno uno scompartimento tutto per sé, o almeno, abbastanza vuoto da non dover vedere, né sentire, dal suo posto, nessun altro. Gli succede molto raramente, di solito deve condividere il viaggio con altre persone irrispettose, rumorose e maleducate. Perché lui non sopporta niente e nessuno che disturbi la sua lettura. Una situazione che, purtroppo per lui, invece, accade piuttosto di frequente. E allora il suo umore, tendenzialmente grigio anche in situazioni ottimali, s’incupisce, e inizia a borbottare, con un volume di borbottio proporzionale al livello di fastidio. È quasi divertente, vederlo da fuori: sembra uno di quei vecchi trattori con il motore scoppiettante che ogni tanto emette uno sbuffo.
Come oggi pomeriggio: a poche fermate dall’arrivo i due sedili di fronte al suo vengono occupati da due ragazze con i jeans tutti strappati, i capelli scompigliati, con ciocche di colori improbabili e i visi ornati da numerosi piercing. Quella seduta lungo il lato del corridoio mastica una gomma, roteando la mascella come un bovino al pascolo. A intervalli regolari produce con la gomma palloncini che riempie d’aria fino a farli scoppiare rumorosamente. Quella davanti a lui siede in modo scomposto, tiene le gambe sgraziatamente accavallate e ad un tratto, con la punta dello scarpone borchiato, sfiora la piega perfetta dei pantaloni di Dimitri. Già vistosamente infastidito dalla presenza per niente gradita, a questo punto il canuto pendolare inizia a borbottare. Capto frammenti delle sue lamentele “Ah questi giovani… ma l’educazione non gliela insegnano più… il rispetto per le persone anziane… se l’avessimo fatto noi, ai nostri tempi… io alla loro età…” e così via. Le due, invece, auricolari alle orecchie con musica a tutto volume, sguardo fisso sui rispettivi telefonini, non lo degnano della minima attenzione. Vedo che sta per perdere veramente la pazienza, il volume del borbottio aumenta, come una pentola sul fuoco che inizia a bollire. Chissà, oggi forse lo vedremo perdere le staffe! Ma per fortuna il treno inizia a rallentare, Dimitri si alza e sempre borbottando si avvia verso l’uscita. Anche per oggi il suo viaggio pendolare è terminato.

2015-09-02 17.52.06

Cave canem! Sul treno…

“Sono liberi questi due posti?”

“Certo, prego!”, confermo.

Sollevo lo sguardo dallo schermo del computer portatile. I miei compagni di viaggio di oggi sono una coppia di giovani, entrambi sulla ventina, entrambi di carnagione bianco-grigiastra, entrambi indossano jeans strappati in più punti, maglietta con le maniche tagliate grossolanamente, bianca, larga e sformata, per lui, nera e aderente, per lei. Hanno entrambi numerosi tatuaggi su braccia e collo e diversi piercing in vari punti del viso. Capelli rasati a zero per lui, colore corvino e taglio geometrico per lei, associato a un vistoso trucco nei toni del nero.

La ragazza porta in braccio un fagotto cicciottello, grigio con delle toppe color crema, dall’aspetto morbido, con due occhioni azzurri: un cagnolino che avrà al massimo un paio di mesi, ma già piuttosto grosso. Da adulto sarà un bel bestione, immagino. Ma adesso è veramente troppo carino, non resisto.

“Che bello!”, esclamo, “come si chiama?”

“Igor”, risponde lei, sorridendo, orgogliosa.

“E’ adorabile!”, commento, mentre il piccolo sbadiglia.

È un cucciolo di pitbull, mi spiegano, lo hanno adottato, sono andati a prenderlo oggi e lo stanno portando verso la nuova casa. L’aspetto tenero e indifeso di quel fagottino vellutato stride un po’ con l’immagine non troppo rassicurante degli esemplari adulti di quella razza, ma la dolcezza con cui i due giovani lo accudiscono e le buffe espressioni del suo muso, tra l’assonnato e il curioso, mi fanno credere che non potrà mai diventare molto cattivo, lui.

In pochi minuti, come potrete immaginare, la simpatica bestiola diventa protagonista assoluta e inconsapevole del viaggio di oggi. Nei posti rimasti liberi, intorno a noi, si avvicendano vari personaggi che proprio nell’interazione con il cucciolo mostrano curiose peculiarità per le quali vale la pena spendere un post.

Ve li presento, nell’ordine in cui si sono manifestati.

20150603_112327_Bob_Grunge

#1. L’esperto. Sale nella stessa stazione, qualche istante dopo i due, stessa età e stesso stile nell’abbigliamento. Porta un paio di grosse cuffie appoggiate sul collo. Appena seduto nel posto libero accanto al mio, inizia a dispensare consigli su come crescere al meglio il piccolo Igor. Suggerimenti sull’alimentazione di tipo generico (“Mi raccomando, non gli date assolutamente niente di quello che mangiate voi!”), ma anche molto dettagliati (“La frutta gli fa bene, la mela è ottima, ma, mi raccomando, non gli date la banana, che sennò gli viene la cacca durissima!”), e poi, ancora, sul tipo di guinzaglio, sulla vita sessuale che dovrà tenere, una volta cresciuto, sull’educazione (“Mi raccomando, se fa qualcosa di sbagliato, non lo brontolate, altrimenti si spaventa, piuttosto, mostratevi dispiaciuti, così non lo rifà più!”). E’ per me un sollievo, quando scende.

#2. Il foto-video-amatore. Prende il posto dell’esperto, appena sceso, nel sedile libero accanto a me. Non parla molto bene l’italiano, per cui, per fortuna, i complimenti sono limitati a un generico “Bello… canino… complimenti!”. In compenso, appena seduto, tira fuori dalla tasca un moderno smartphone, chiede il permesso ai padroni con un incerto “Posso?” e scatta un’interminabile serie di foto al cucciolo, cambiando spesso inquadratura e invadendo la mia porzione di spazio. Ma non basta. Esaudito il bisogno di immortalare lo sconosciuto quadrupede, tiene a precisare che “Anche io… uguale… cane… pitbull…” e continua ad aggeggiare con il dispositivo finché non riesce a riprodurre nel piccolo schermo una serie di video (che ovviamente mi metto a sbirciare) aventi come protagonista un molosso di colore grigio scuro e dimensioni ragguardevoli, dall’apparenza piuttosto vivace, che si diverte a fare dispetti al padrone e che viene ripetutamente richiamato e corretto in una lingua a me sconosciuta.

#3. L’addetto alle pulizie. Su questo treno è presente il servizio di pulizia a bordo, quindi, come di consueto, un addetto  percorre il treno avanti e indietro svuotando i contenitori dei rifiuti. Arrivato nella nostra postazione, dopo aver diligentemente compiuto la propria ecologica mansione, con la stessa mano guantata che ha ravanato nei profondi pertugi del cestino, accarezza il musetto del cucciolo, che ringrazia tutto soddisfatto leccandola con la lingua rosata… bleah!

#4. Il virtuoso. Eccoci arrivati al mio personaggio preferito. Un vero artista. Seduto nel gruppetto di sedili di fianco ai nostri, dall’altra parte del corridoio, si esibisce in una sorprendente dimostrazione di human beatbox (non so se è il termine giusto, non saprei come definire questo talento), a base di miagolii, stridii, garriti, cinguettii, schiocchi, fruscii, ronzii, fischi, barriti, latrati, muggiti, pigolii, squittii, cinguettii, friniti, nitriti, grugniti, sibili, ragli, belati e tanti altri versi ancora, incredibilmente realistici. Il suo scopo? Attirare l’attenzione dell’assonnato cagnolino, con scarso successo tra l’altro, visto che il piccolo a malapena si gira verso di lui sbadigliando.

#5. Le americane, dulcis in fundo. Un dulcis fin troppo dulcis, quasi stucchevole, come quelle caramelle troppo colorate che si attaccano ai denti. Un dulcis rosa shocking. Si tratta di sette ragazze, infradito-e-reflex-munite, strizzate in canottiere, pantaloncini e gonnelline di dimensioni minime, dai colori sgargianti, sedute un po’ più in là nel vagone. Il sottofondo sonoro di quasi tutto il viaggio è stato un medley delle loro chiacchiere rumorose e delle loro risate sguaiate. Turiste di ritorno da una gita, suppongo. Se ne stanno per conto loro per quasi tutto il viaggio, sono rumorose, sì, ma non troppo moleste. Solo alla fine, per colpa di uno dei capolavori del virtuoso, si accorgono del cagnolino. Ed è una vera e propria deflagrazione di tenerezza cucciolosa, una reazione che a confronto la scioglievolezza di Lindor è roba da ragazzi. Dall’incontenibile esplosione di gioiosa sorpresa con cui accolgono il cucciolo mi verrebbe quasi da dedurre che in America non esistono i cagnolini. Tutto il vagone a questo punto è trascinato in un vorticoso susseguirsi di “Oh, my God!”, “Wonderful!”, “So sweet!”, “So cute!”… Una selva di mani graziose e curate, con unghie lunghissime, variamente decorate, circonda la povera bestiola, che pare quasi intimorita. Coccole, carezze, grattini dietro le orecchie, scatti di foto da cellulari variopinti, urla di gioia… Dal punto di vista della bestiola deve essere una visione simile alle allucinazioni provocate da certi tipi di droghe, immagino. Sono pochi minuti ma sembrano non finire mai. Poi, finalmente, il treno inizia a rallentare, siamo quasi arrivati a destinazione, ci alziamo e ci avviamo verso l’uscita, con sollievo del cagnolino, dei neo-padroni e… mio!

 

Forse, sull’autobus…

Per evitare la pioggerella fastidiosa di questi giorni, oggi pomeriggio ho rinunciato alla consueta e salutare passeggiata dall’ufficio alla stazione e ho preso l’autobus. Nonostante sia abbastanza affollato, riesco con sollievo a trovare un posto a sedere. Fuori dal finestrino è già quasi buio e non c’è molto da vedere, per cui mi volto verso la parte interna del mezzo, per curiosare un po’ tra i miei odierni compagni di viaggio. Come al solito, quella che mi si presenta davanti è una accozzaglia di personaggi curiosi ed eterogenei. Davanti alla porta di uscita, una ragazza si sorregge con entrambe le braccia ad uno dei supporti. È piuttosto alta e sottile, indossa un elegante tailleur pantalone nero, dalla giacca s’intravede un’impeccabile camicia candida. La carnagione olivastra, i lunghi capelli lisci e corvini, gli occhi grandi e allungati svelano un’origine probabilmente mediorientale. A poca distanza, sempre in piedi, appeso a uno dei supporti verticali, un uomo di statura ben più bassa si dondola per effetto del moto del mezzo: in avanti nelle frenate, all’indietro durante le ripartenze, in direzione laterale nelle curve. Ha posato sul pavimento, tra le gambe, una borsa di carta plastificata, ornata con motivi natalizi. Nel gruppetto di sedili allineati nella parte posteriore dell’autobus noto un ragazzetto, seduto in modo scomposto, con il punto di appoggio dei glutei sul bordo anteriore della seduta, le gambe piegate in fuori, come quelle di un burattino buttato per terra a casaccio, il cavallo dei pantaloni molto prossimo alle ginocchia. Le spalle sono un po’ curve, alle orecchie porta un paio di auricolari bianchi, collegati allo smartphone stretto nella mano sinistra. In testa indossa un berretto con la visiera un po’ storta e girata verso l’alto.

Accanto a lui, un uomo magro e canuto, siede diritto con le mani sulle ginocchia, una delle due regge una borsetta di plastica bianca, senza particolari iscrizioni o marchi, con vari oggetti dentro. Ho deciso: è lui il protagonista del viaggio di oggi.

Poco dopo la mia salita, dalla borsa estrae una grossa lattina bianca, con il tappo di plastica arancione, sulla sommità, e si mette a leggere le scritte sul lato posteriore del contenitore, quelle piccoline dove sono riportate le indicazioni per l’uso e la composizione del prodotto. È una confezione di acquaragia, la riconosco. Da una parte intravedo il tipico simbolo quadrato arancione con la croce nera che avverte della pericolosità della sostanza. L’uomo si impegna molto nella lettura: strizza gli occhi per mettere meglio a fuoco i minuscoli caratteri e contemporaneamente allontana la confezione. “Perché non ho preso gli occhiali con me?” immagino che si stia domandando.

Inizia così il mio consueto passatempo dei forse. Forse sta facendo un lavoretto di restauro, a casa. Forse si tratta del vecchio mobiletto che era nel ripostiglio, quello di legno massello che sta per essere sostituito da una più pratica scaffalatura dell’Ikea, quello che dovrebbe essere gettato via, ma l’uomo c’è troppo affezionato e, allora, perché non risistemarlo e metterlo in fondo al corridoio? Forse aveva già preparato tutto: lo aveva svuotato, spostato nel garage, sistemato su un tappeto di fogli di vecchi giornali. Forse la moglie l’ha anche brontolato per la confusione. Chissà se è sposato. Sbircio l’anulare della mano sinistra: non porta la fede, rimango con il dubbio. Forse si è accorto solo alla fine che gli mancava proprio l’acquaragia, o forse l’ha finita a metà del lavoro. Forse gli è scivolato il barattolo e ha sparso tutto il contenuto sul pavimento. Forse è uscito per andare a ricomprarla lasciando tutto in disordine, tra i brontoloni della moglie: “Che confusione, ma cosa stai combinando? Sei sempre il solito!”

Forse, tutto sommato, è quasi contento che l’acquaragia sia finita. Forse il barattolo non si è rovesciato per caso. Forse ci ha ripensato, quel mobiletto non è poi un granché. Forse aveva una gran voglia di uscire e non sentire più quella brontolona. Forse gli ci voleva proprio una bella gita in uno di quei grandissimi e fornitissimi negozi di oggetti per il bricolage, dove potersi perdere in mezzo ai lunghissime scaffalature, tra scatolette, bombole di vernice di tutti i colori, attrezzi per qualsiasi necessità, cacciaviti di tutte le fogge, e, ancora, tasselli, viti, cornici, solventi, chiavi inglesi, chiavi di tutte le nazionalità, rotoloni, rotolini, sacchi di terriccio, sementi, contenitori, lampadine, mensole, pannelli di compensato… forse

Il mio fantasticare è interrotto dall’arrivo di altri due ragazzi, quasi cloni di quello seduto in fondo all’autobus: berretto con la visiera storta in testa, girata verso l’alto, jeans con il cavallo molto basso, auricolari alle orecchie. Appena intravedono il loro compagno, gli si avvicinano e lo salutano con un secco “Oh!” Si mettono a parlare e ridere sguaiatamente insieme. Dopo qualche convenevole uno dei due ultimi arrivi prende il suo smartphone, stacca le cuffie e, strisciando freneticamente l’indice sullo schermo, richiama l’attenzione degli altri due: “Oh, ragazzi, guardate qua, troppo forte!” Dal dispositivo parte una musica ritmata, riesco a intravedere sullo schermo un altro ragazzo, vestito come i tre, che canta, o, per meglio dire, recita una lunga filastrocca, la cui cadenza è sottolineata da ampi movimenti rotatori in avanti delle braccia. I tre commentano entusiasti la performance del rapper del telefonino: “Figo!” esclamano a turno.

L’uomo con l’acquaragia, seduto proprio lì accanto, smette di leggere le istruzioni sulla confezione del solvente e viene attratto dalla nuova sorgente sonora. Si protende verso il gruppetto dei tre in modo vistoso: essendo seduto in modo eretto ed essendo i sedili leggermente sopraelevati rispetto al pavimento, la sua testa li sovrasta. Inizia anche lui a fissare il piccolo schermo, come se nulla fosse, come se conoscesse bene i tre giovani. Rimangono così per alcuni istanti, finché il ragazzo seduto non si accorge della nuova presenza e si volta, rivolgendo verso l’uomo uno sguardo tra l’interrogativo e il risentito e girando le spalle in modo da chiudere il piccolo capannello ed escluderlo. L’uomo non gli dà troppo peso, continua a fissare con divertito interesse lo schermo del telefonino. Anche uno dei due ragazzi in piedi si gira verso di lui, e inizia a fissarlo, solo allora l’uomo si rende conto della sua estraneità e si rimette composto sul suo sedile. Riprende la lattina di acquaragia e ricomincia a leggere le scritte piccoline strizzando gli occhi e allungando le braccia.

Ed è così che lo lascio quando, alla fermata della stazione, scendo dall’autobus.

L’omino con il palloncino

Non mi piacciono molto le scritte dei graffitari improvvisati che imbrattano e deturpano i muri della città, specialmente quando oggetto di queste forme di comunicazione sono i palazzi storici e le opere d’arte del centro. Da un po’ di tempo però in giro per Firenze mi capita di imbattermi in  graffiti particolari, che rappresentano un uomo stilizzato, minuto, disegnato con tratto nero, in compagnia di un cuore rosso o appeso ad un palloncino, sempre rosso. In alcuni disegni appare una scritta, una specie di didascalia, free, fly, fly away, exit. Alcuni sono firmati con una lettera, K.

Questi disegni catturano la mia attenzione per la semplicità del tratto e la delicatezza, contrapposta all’ostentazione e alla roboante invadenza che caratterizza spesso queste forme di rappresentazione grafica. L’omino nero, piccolo al cospetto del cuore rosso, o trascinato via dal palloncino, mi ispira simpatia, specialmente in quei disegni dove, per la velocità, perde il cappello in volo.

Oggi pomeriggio quindi ho approfittato della passeggiata domenicale per improvvisare una specie di “caccia fotografica” all’omino col palloncino rosso per le vie del centro di Firenze, nei dintorni di piazza del Duomo e piazza Santa Croce. Ed ecco i risultati.

Pendolare multi-tasking

Vorrei invitare tutti gli sceneggiatori di fiction, fotoromanzi, telenovelas, soap opera e affini a farsi qualche viaggio su un treno pendolare, la mattina, vi assicuro che è una fonte inesauribile di ispirazione 🙂

Il treno è piuttosto affollato stamani e sono costretta a condividere lo spazio compreso tra i quattro sedili con cui è suddiviso il vagone con altre due donne. Una è seduta al mio fianco, a destra, l’altra di fronte a me. È quest’ultima, stamani, a catturare la mia attenzione. Indossa abiti e accessori scelti con cura, siede con eleganza, anche se la postura è abbastanza piegata su un lato e le gambe accavallate sconfinano nello spazio del sedile di fianco al suo, vuoto, sul quale ha sistemato le due borse che porta con sé. La testa è piegata un po’ in avanti e un po’ a sinistra, cosicché lo sguardo può concentrarsi sul tablet appoggiato sulle ginocchia, mentre la spalla e il lato sinistro della mandibola  contribuisce a sorreggere il telefonino seminascosto dai lunghi capelli biondi contro l’orecchio. Con la mano destra sfiora ritmicamente la superficie del tablet, in orizzontale e verticale, alternativamente. Di tanto in tanto dal dispositivo esce un’allegra musichetta: deve trattarsi di uno di quei giochini elettronici che vanno di moda. Allo stesso tempo porta avanti una confidenziale conversazione con l’incognito interlocutore all’altro capo del telefono. Le due azioni sono totalmente scollegate tra loro: non esiste alcuna relazione tra la traiettoria del suo indice sulla piastra di vetro e le variazioni del ritmo della voce nella comunicazione, come se fossero controllate da due processori distinti e indipendenti tra loro. A un tratto, uno squillo sonoro la distrae momentaneamente da entrambe le mansioni. Proviene da una delle due borse, anzi, per essere precisi, dal secondo telefonino, bianco in questo caso, in essa contenuto.

“Scusa, scusa, amore, aspetta un attimo, ho un’altra telefonata.”

Posa delicatamente il primo cellulare dentro la borsa, aperta, senza chiudere la comunicazione, e prende l’altro. Inizia una seconda conversazione, con lo stesso tono affettuoso e confidenziale della prima.

“Buongiorno, amore, come stai? Dormito bene? Sì, sì, anche io, sono già in treno…”

Continua così per alcuni minuti, e riprende anche l’attività ludica con il tablet. Poco prima della stazione di arrivo, si congeda frettolosamente con il secondo misterioso interlocutore:

“Amore, sono quasi arrivata, devo prepararmi per scendere, ok, ti chiamo più tardi, va bene?”

Chiude la chiamata con il telefonino bianco e riprende il primo, quello nero, che nel frattempo aveva aspettato pazientemente nella borsa.

“Scusa, amore, ci ho messo più del previsto e ora sono quasi arrivata alla stazione, ti devo salutare. Ti chiamo più tardi, ok?”

Termina anche la seconda chiamata, che poi era la prima… Mancano ancora alcuni istanti all’arrivo, il treno ha appena iniziato a rallentare. Giusto il tempo di finire la partita sul tablet, e pure con successo, a giudicare dalla festosa musichetta, prima di riporre anche questo in una delle due borse e prepararsi a scendere.

E intanto a me inizia a frullare per la testa un famoso motivo di Renato Zero…

20141020_202332

Scambi ferroviari

Sulla banchina, lungo i binari due e tre, aspetto come ogni mattina il treno che mi porta al lavoro. Adesso che ancora scuola non è ricominciata c’è molta quiete: i viaggiatori, perlopiù pendolari come me, a quest’ora della mattina, sono assonnati e silenziosi, le conversazioni sono scarse e non troppo animate. Tranne quella tra due donne, a una decina di metri da me: una delle due si sta lamentando vivacemente e ad alta voce di qualcuno, ma non comprendo subito il problema:

“Quello stronzo, è proprio uno stronzo, gliel’ho detto diecimila volte che dovevo prendere il treno stamani! Ah, ma stavolta non la passa liscia, eh!”

E’ tesa, nervosa, si muove a scatti. L’altra risponde a volume più basso, spero che stia cercando di smorzare i toni dell’amica, rassicurandola e incoraggiandola.

“Ora mi tocca anche chiamarlo, ma non si può andare avanti così, NON SI PUO’, cazzo!!

Il volume e la frequenza della conversazione aumentano, , mi sembra quasi che stia per scoppiare a piangere, ormai ha catturato la mia attenzione. Prende il telefono, seleziona il numero, attende in linea.

“Dove sei!? Come sei partito ora, tra un minuto ho il treno! Guarda, te lo dico, io stamani non lo perdo! Se arrivi in tempo bene, sennò vieni a Pisa!”

Inizia a gridare.

“Eh no, caro stamani tu vieni a Pisa, te lo avevo detto!”

E’ sempre più tesa, la voce sempre più incrinata.

“Basta, mi sono rotta con questa storia, non si può andare avanti così! Fai sempre i tuoi comodi!”

Riattacca e sbuffa. Riprende la discussione con l’amica.

“Sempre così non è possibile, ah ma io chiamo l’avvocato, questa volta mi sono proprio rotta, vedrai ci pensa lui!”

Squilla il telefono. Lo afferra con irruenza.

“Dove vuoi che sia? Al binario due come tutte le mattine… Muoviti che sta arrivando il treno!”

Qualche istante ed ecco che dal sottopassaggio sbuca un giovanotto imponente: sale le scale di corsa, goffo e trafelato. Sembra un gigante un po’ bambino, mi ricorda Shrek, anche se non ha la pelle verde. Si dirige verso la donna, che lo fissa risentita, ma, sembra, un po’ sollevata. L’espressione di colpevole imbarazzo dell’uomo si trasforma improvvisamente in un ampio sorriso appena il suo sguardo si posa in un punto dietro la gonna lunga della donna. Ed ecco che proprio da lì spunta una bella bimbetta di circa tre anni, con la coda di cavallo, e dei lineamenti identici a quelli della mamma, anche se meno tesi e più morbidi, che allunga le braccia verso il gigante bambino.

Appena in tempo, sta arrivando il treno che stavano aspettando, con cinque minuti di ritardo. Menomale, penso, altrimenti il gigante non ce l’avrebbe fatta ad arrivare in tempo e sarebbe stato un bel problema! La mamma, in compagnia dell’amica, si avvicina alla porta del vagone più vicino. Prima di salire si volta verso la bimba e sorride, finalmente. Il gigante bambino prende in braccio la figlia, entrambi ricambiano il sorriso della mamma. Si fermano per un po’ sulla banchina, aspettano che riparta il treno, la bambina fa “ciao” con la mano alla mamma, che, schiacciando le dita sul finestrino, ricambia. Sul suo viso non c’è più il risentimento di qualche minuto fa, al suo posto, mi pare, un velo di tristezza. Ma forse è solo il riflesso del vetro.

2013-09-25 08.03.53copy

Viaggi pendolari… da brivido

Il primo aggettivo che mi è venuto in mente quando l’ho visto sedersi, di fronte a me, stamani sul treno, è stato “oscuro”. Innanzitutto per il colore di base dell’abbigliamento, il nero, appunto: stivaletti con vistose borchie metalliche, jeans stretti e sciupati in più punti, e la T-shirt, che riportava, stampata sul davanti una convulsa scena i cui i protagonisti erano teschi con espressioni beffarde, zombie e altri mostri di vario genere, corpi solo vagamente antropomorfi, sfatti, tumefatti, smembrati, il tutto contornato da un’iscrizione con caratteri gotici che non sono riuscita a decifrare. I lobi delle orecchie erano martoriati da diversi piercing, spunzoni metallici fondamentalmente, mentre numerosi tatuaggi ornavano gli avambracci: ancora teschi, ma anche stelle a cinque punte, scritte e simboli per me sconosciuti e misteriosi. Da un paio di auricolari collegato a un telefonino usciva un ronzio ritmato, in cui era possibile riconoscere il gemito lamentoso di una chitarra elettrica distorta e la voce cavernosa e gutturale di un cantante tutt’altro che melodioso.

20140825_174701

Le premesse, insomma, non erano molto promettenti. I simboli tatuati sulle braccia, in particolare, erano particolarmente inquietanti e sinistri e richiamavano alla mia memoria mitologie e riti oscuri. Io, poi, di solito sono abbastanza paurosa: quando, per sbaglio, in televisione m’imbatto in un film horror cambio subito canale e durante la visione di qualsiasi thriller tengo a portata di mano un cuscino dove nascondere la faccia durante le scene più violente e truci. Stamani per ovvi motivi non avevo con me il cuscino di protezione e ho dovuto arrangiarmi: che fare? Rimanere indifferenti, fingere di dormire, magari, scappare a gambe levate… Calma, mi sono detta, non siamo in un film, ragioniamo.

Nei film dell’orrore e nei thriller molta della paura nasce dalle atmosfere tenebrose e dalle note tese e sospese della colonna sonora. Stamani, invece, era una bella mattinata di ormai fine estate, soleggiata ma fresca, gli altri viaggiatori leggevano o sonnecchiavano, gli unici rumori erano il familiare e tranquillo sferragliare delle ruote sulle rotaie e gli sporadici messaggi automatici dall’altoparlante. Dopo il primo, poco rassicurante impatto, mi sono fatta coraggio e ho osservato un po’ meglio il mio occasionale compagno di viaggio, badando bene di non farmi vedere.

C’erano delle cose che non tornavano, in effetti. Il colore della pelle, innanzi tutto. Molto chiaro, devo dire, ma tendente al roseo, quasi rubicondo in certi punti del viso, non il poco salubre colorito grigio-verdognolo che ci si aspetterebbe, per una siffatta creatura delle tenebre (e, poi, che ci faceva una creatura delle tenebre su un anonimo treno pendolari, alle sette e mezzo di mattina?). Guardando, ancora, mi sono soffermata un attimo sulle guance, belle piene, paffutelle, altro che la pelle grinzosa e cadente, i visi scarni e scheletrici dei mostri sulla sua maglietta. La maglietta, appunto: quelle due pieghe perfettamente diritte, sulle maniche, verso le spalle, tradivano una sapiente stiratura, una perfetta piegatura, nonché la disposizione in un armadio ordinato e pulito, sicuramente incompatibile con l’antro scuro, umido e caotico di un serial-killer. Dalla maglietta leggera emergeva un corpo decisamente in salute, anzi, tendente al rotondetto, specialmente nella zona degli addominali: un fisico compatibile con una dieta a base di lasagne fatte in casa e una modesta attività fisica, non martoriato dagli eccessi e privazioni di una vita dannata. E, poi, gli occhi, quegli occhi marroni, svegli e vivaci, a ben guardare ispiravano più simpatia che terrore. Riflettendoci su, non ho più sentito la necessità di fuggire a gambe levate in un altro scompartimento, e devo dire che non ho neppure rimpianto troppo il mio cuscino.

Ma, allora, vi chiederete, perché questo titolo al post? In effetti durante il viaggio ho tremato… ma non di paura, di freddo! L’aria condizionata in tutto il treno era infatti tarata su una temperatura veramente polare e per di più avevo dimenticato la maglia a casa.

E la colonna sonora? Beh, invece che un pezzo dei Goblin (quelli di Profondo Rosso), cui avevo pensato inizialmente, alla fine per stamani ho optato per questa canzone degli Skiantos… 🙂