Tracce di umanità

Le condizioni di squallore e degrado in cui versano molte delle nostre stazioni hanno molteplici cause. Una delle principali è la consuetudine, purtroppo abbastanza diffusa, di considerarle un po’ come discariche personali, in cui possiamo liberarci comodamente dei nostri piccoli rifiuti quotidiani, senza perdere troppo tempo a cercare cestini, cassonetti, o comunque luoghi e contenitori più idonei. Cartacce, fazzolettini di carta usati, lattine, giacciono un po’ ovunque, come relitti alla deriva, contribuendo all’atmosfera sciatta e trasandata di questi luoghi.

In questo contesto poco gradevole si inserisce il mio primo incontro pendolare di oggi, a metà della scala che porta dal sottopassaggio al marciapiede lungo il binario da cui parte il mio treno. Abbandonata, su un gradino, in posizione ortogonale rispetto alla direzione di percorrenza, mi accoglie un’inusuale suola di scarpa. Usata, e anche parecchio, a giudicare dall’ombra scura che riproduce in modo inequivocabile l’impronta di colui o colei che l’ha indossata. Un’altra immagine di sciatto degrado che denuncia maleducazione e disinteresse. Eppure, inaspettatamente, non posso fare a meno di trovare, in questa scena, un qualcosa di estetico, di aggraziato, in qualche modo. Sarà la posizione, sarà il contrasto tra la forma approssimativa ma armoniosa dell’impronta e le linee nette e squadrate dei gradini e delle piastrelle, sarà il chiaroscuro, sarà che sono sveglia da poco e i miei canali percettivi sono ancora assopiti. Scatto velocemente una foto con il cellulare (lo so, non è tanto normale mettersi a fotografare suole di scarpe lungo le scale dei sottopassaggi).

Chissà di chi era? Dove stava andando? Perché? Perché proprio sui gradini, visto che a pochi metri, sul marciapiede, ci sono delle panchine (e dei cestini, anche), dove tutta l’operazione si sarebbe potuta svolgere in modo più comodo e discreto? Accompagnata da tutte queste domande filosofiche, più o meno, mi avvio a prendere il treno.

piede

Attenzione, Pendolo!

Pendolo, ormai lo sappiamo, è un personaggio abbastanza distratto. Quando cammina, si lascia trascinare dai suoi pensieri e non presta molta attenzione alla strada che sta percorrendo e a quello che succede intorno a lui. Specialmente la mattina, quando è ancora assonnato. È come se avesse un pilota automatico, che lo porta da casa alla stazione e poi dalla stazione all’ufficio. A volte un evento inconsueto, come la spinta di un altro pendolare, lo squillo del cellulare, un annuncio dall’altoparlante, lo ridestano costringendolo a riprendere il controllo.

Proprio una di queste mattine, alzando lo sguardo, Pendolo ritrovò di fronte una porta sbarrata, con una lunga serie d’insegne poco rassicuranti.

 

 

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“Oh, dove sono capitato, stamani?”, pensò, ancora tra il sonno.

“Forse è l’accesso all’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra?”

“Oppure, che sia l’ingresso della misteriosa Area 51, nel Nevada?”

“O il cosmodromo di Bajikonur? Se sono fortunato, potrò veder partire la Soyuz!”

“Non saremo mica ad Alcatraz?”

“Chissà, forse sono arrivato, alla fine, a Fort Knox?”

“Sono forse i Neri Cancelli di Mordor, recentemente ristrutturati e finalmente automatizzati?”

 

E poi realizzò, finalmente

“Ah, già, è solo l’ingresso al Freccia Club della Stazione di Santa Maria Novella…”

è passato il Carnevale

Mercoledì mattina, piove e i treni sono in ritardo. Decido di ingannare l’attesa prolungata più del solito prendendo un caffè al bar della stazione. Entro, faccio lo scontrino, mi avvicino al bancone e ordino la bevanda al barista. Ascolto distrattamente la radio, sta passando “I will survive”, inizio a canticchiarla.

“First I was afraid, I was petrified…” Muovo appena le labbra, emettendo un suono debole, almeno un’ottava sotto alla brillante voce di Gloria Gaynor, biascicando le parole delle strofe, che non ricordo bene. Noto che altri avventori del locale stanno facendo altrettanto: il labiale è confuso e incomprensibile in tutto il pezzo tranne nella parte “I will survive, eh, ehi” e nella seguente parte strumentale. Mi sembra un brano azzeccato, stamani.

Proprio mentre la canzone sfuma, entra nel locale un personaggio noto. Si tratta di un signore che trovo spesso nella stazione e che in più di un’occasione ha “attaccato bottone”, tentando di coinvolgermi in improbabili discussioni teologiche e di appiopparmi uno dei numerosi opuscoli a sfondo religioso che porta sempre con sé. Cerco di mimetizzarmi con gli arredi del bar, non ho proprio voglia sentire le sue teorie sulla fine del mondo, stamani. Per fortuna, però, la sua attenzione è rivolta al barista.

“Buongiorno!” irrompe con entusiasmo, decisamente non corrisposto dal suo interlocutore. “Come va, stamani?”

“Male!” risponde il barista, tra il distratto e lo scocciato, “Stamani è cominciata male. Non vedi? Piove…”

“Ehhhh” risponde l’uomo con gli opuscoli, un “eeehh” lungo, abbastanza lungo da contenere un “Non ti angustiare troppo, amico mio, c’è di peggio…” e, continua, “Se va male, è perché è passato il Carnevale!

Ed è con questa riflessione profonda, così profonda che non credo nemmeno di averla capita bene, che, di soppiatto, esco dal bar e vado, sotto la pioggia, a prendere il treno. In ritardo.

L’uomo col fiore in bocca

Ieri sera dopo cena sono tornata alla stazione, ma non per prendere il treno, per una volta. Nel piazzale della stazione andava in scena “L’uomo col fiore in bocca” di Luigi Pirandello: non avevo mai visto quest’opera teatrale, in realtà non l’avevo neanche letta, e sono stata felice di aver avuto questa occasione, proprio vicino a casa, proprio nella stazione da dove ogni giorno partono i miei viaggi pendolari.

Qui trovate notizie sull’evento.

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Si tratta di un atto unico, di durata abbastanza breve, in cui uno sconosciuto, malato terminale di cancro, si racconta a un viaggiatore che ha appena perso il treno, nel caffè di una piccola stazione di provincia. Il dialogo tra una persona “comune” ed una che sa di essere a breve condannata ci fa riflettere sul rapporto dell’uomo con la morte. Per l’uomo dal fiore in bocca, che sa di avere a disposizione ormai poco tempo, tutti i particolari e le sfaccettature della vita di tutti i giorni assumono un valore immenso.

Una nota particolare: la rappresentazione doveva iniziare con la partenza del treno per Firenze Santa Maria Novella, che, come al solito, è arrivato con venti minuti di ritardo! Più realistico di così…

Riporto alcune parti dell’opera, qui trovate il testo integrale.

L’uomo dal fiore. […]

E così, ha lasciato tutti quei pacchetti in deposito alla stazione?

L’avventore. Perché me lo domanda? Non vi stanno forse sicuri? Erano tutti ben legati…

L’uomo dal fiore. No, no, non dico!

Pausa

Eh, ben legati, me l’immagino: con quell’arte speciale che mettono i giovani di negozio nell’involtare la roba venduta…

Pausa

Che mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rossa, levigata… ch’è per se stessa un piacere vederla… così liscia, che uno ci metterebbe la faccia per sentirne la fresca carezza… La stendono sul banco e poi con garbo disinvolto vi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben piegata. Levano prima da sotto, col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l’altro e ci fanno anche, con svelta grazia, una rimboccaturina, come un di più per amore dell’arte; poi ripiegano da un lato e dall’altro a triangolo e cacciano sotto le due punte; allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrere quanto basta a legare l’involto, e legano così rapidamente, che lei non ha neanche il tempo d’ammirar la loro bravura, che già si vede presentare il pacco col cappio pronto a introdurvi il dito.

L’avventore. Eh, si vede che lei ha prestato molta attenzione ai giovani di negozio.

L’uomo dal fiore. Io? Caro signore, giornate intere ci passo. Sono capace di stare anche un’ora fermo a guardare dentro una bottega attraverso la vetrina. Mi ci dimentico. Mi sembra d’essere, vorrei essere veramente quella stoffa là di seta… quel bordatino… quel nastro rosso o celeste che le giovani di merceria, dopo averlo misurato sul metro, ha visto come fanno? se lo raccolgono a numero otto intorno al pollice e al mignolo della mano sinistra, prima d’incartarlo.

Pausa

Guardo il cliente o la cliente che escono dalla bottega con l’involto appeso al dito o in mano o sotto il braccio… Li seguo con gli occhi, finché non li perdo di vista… immaginando… – uh, quante cose immagino! Lei non può farsene un’idea.

Pausa – Poi, cupo, come a se stesso:

Ma mi serve. Mi serve questo.

L’avventore. Le serve? Scusi… che cosa?

L’uomo dal fiore. Attaccarmi così – dico con l’immaginazione – alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata.

Pausa

Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… – ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire… sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. – Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì…

[…]

Non vede la relazione? Neanche io.

Pausa

Ma è che certi richiami d’immagini, tra loro lontane, sono così particolari a ciascuno di noi; e determinati da ragioni ed esperienze così singolari, che l’uno non intenderebbe più l’altro se, parlando, non ci vietassimo di farne uso. Niente di più illogico, spesso, di queste analogie.

[…]

Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla.

Con cupa rabbia:

E questo è da dimostrare bene, sa? con prove ed esempi continui, a noi stessi, implacabilmente. Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. I1 sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. I1 gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noje… a tante stupide illusioni… insulse occupazioni… Sì, sì. Questa che ora qua è una sciocchezza… questa che ora qua è una noja… e arrivo finanche a dire, questa che ora è per noi una sventura, una vera sventura… sissignori, a distanza di quattro, cinque, dieci anni, chi sa che sapore acquisterà… che gusto, queste lagrime… E la vita, perdio, al solo pensiero di perderla… specialmente quando si sa che è questione di giorni.

 

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Problemi pendolari

Problema

State aspettando un treno lungo il binario uno. Il treno successivo diretto verso la vostra destinazione partirà dal binario sei venti minuti dopo. L’altoparlante annuncia che il treno che state aspettando ha venti minuti di ritardo.

Quale dei due treni partirà prima?

Soluzione: quello in arrivo al binario dove non siete voi.

 

Dimostrazione:

Supponiamo che voi siate al binario uno. Tanto lo sapete che di solito parte prima quello, perché è un Regionale Veloce e fa pochissime fermate intermedie. L’altoparlante annuncia il treno in partenza al binario sei, siete tentati, ma subito dopo annuncia quello al binario uno. Inizia a lampeggiare la lucina sul tabellone, accanto al binario sei. Vi state già incamminando verso il sottopassaggio, quando con la coda dell’occhio vedete che anche quella del treno al binario uno ha iniziato a ballare a destra e a sinistra. Al binario sei sta arrivando un treno stracarico di pendolari, mentre al binario uno ancora niente. Vi decidete, finalmente, a cambiare strategia e vi fiondate nel sottopassaggio. Avete quasi raggiunto la vostra uscita da quel maleodorante tunnel quando venite investiti da una slavina umana formata dai pendolari appena scesi dal treno,  che si stanno velocemente incamminando verso l’uscita, trascinandovi, come una corrente impetuosa, in direzione opposta alla vostra.

Il treno al binario sei, nel frattempo, riparte. Quello al binario uno matura un ritardo aggiuntivo di dieci minuti.

Supponiamo, viceversa, che una vocina interiore, l’istinto pendolare che c’è in voi, tanto per citare il buon Raf, vi suggerisca, senza alcun motivo apparente, di scegliere il treno al binario sei. Come si dice, meglio un treno locale oggi che un Regionale Veloce mai… Vi incamminate tranquillamente verso il binario sei, salite le scale, raggiungete una panchina e vi sedete. Di fronte a voi, scorgete, lungo il binario uno, gli altri viaggiatori, in attesa. “Tze, che bischeri…” pensate, forti della vostra pluriennale esperienza. E infatti, ecco spuntare, all’orizzonte, il trenino locale, in perfetto orario. Salite sulla carrozza, soddisfatti di aver fatto, ancora una volta, la scelta giusta, alla faccia di quei poveretti, ancora lì, lungo il binario uno. Vi accomodate su uno dei sedili, in una carrozza semi vuota e aspettate la partenza del treno. Aspettate… aspettate…

E intanto ecco arrivare al binario uno il Regionale Veloce, che essendo Veloce, appunto, e in ritardo, si ferma e riparte prima che voi possiate pensare di scendere dal trenino locale. Che, per dare la precedenza, accumula dieci minuti di ritardo.

C.V.D.

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Desideri in viaggio

2013-12-30 10.05.58-2Alla stazione di Santa Maria Novella, a Firenze, quest’anno hanno preparato un grande albero di Natale, perfettamente conico, decorato con mille lucine. È proprio bello. Alla sua base, viaggiatori, pendolari, turisti, gente di passaggio, hanno appeso un bel po’ di letterine indirizzate a Babbo Natale.

Anch’io come Ilaria che ne ha parlato in questo suo post, ieri mattina, mi sono fermata un attimo a leggerle e, come tutti quelli che passavano di lì, a fare una foto con il cellulare. Beh, veramente, a causa della combinazione infelice di un ritardo e una coincidenza mancata, ci ho passato ben più di un attimo. È stato un po’ divertente, un po’ malinconico. Un mix di sensazioni che è tipico di questo periodo dell’anno.

C’erano lettere in italiano, spagnolo, tedesco, inglese, francese.

C’erano biglietti con caratteri a me sconosciuti: cinese, giapponese, arabo e chissà che altro.

C’erano calligrafie eleganti, con i riccioli a tutte le lettere, e c’erano segni incerti, come di chi da poco ha imparato a scrivere.

C’erano fogli finemente decorati con motivi natalizi, e messaggi velocemente scribacchiati sullo scontrino del caffè.

Chi chiedeva una macchina nuova, chi la Playstation.

Chi aveva nostalgia di Luana, chi voleva rimettersi con Nick.

Chi, come Mariah Carey, si accontentava: “All I want for Christmas, is you!”

Chi chiedeva una casa, chi un lavoro o, in alternativa, di vincere al Superenalotto.

Chi chiedeva treni in orario, più puliti, con il riscaldamento funzionante (in molti, per la verità).

Chi, con tanta buona volontà, ma poca dimestichezza con la grammatica italiana, augurava “Tanti auguri HA tutti”.

E alla fine, anch’io ho preso un foglietto, strappandolo dal mio quaderno, e ho scritto il mio piccolo grande desiderio. Anche se ormai Babbo Natale è già passato, spero che faccia un’eccezione e mi accontenti, nell’anno nuovo che sta per cominciare.

E tanti auguri a tutti voi, che sia un 2014 ricco di tante belle cose, che tutti i vostri piccoli grandi desideri si avverino!

Da qualche parte, oltre l’arcobaleno

Pendolo partì di casa, come ogni giovedì mattina, alle sette e mezzo. Chiuse la porta con le solite tre mandate e s’incamminò verso la stazione. Lì avrebbe preso il treno che lo avrebbe portato a Cittàgrande, dove lavorava allo sportello dell’ufficio reclami di un Grande Magazzino specializzato nella vendita di elettrodomestici di tutti i tipi. Come ogni mattina lo aspettavano un sacco di clienti inferociti, già s’immaginava, sarebbe ritornato per l’ennesima volta il tizio arrogante a cui non funzionava l’aspirapolvere, ne aveva già comprati tre modelli (ma cosa ci faceva, quello lì, con gli aspirapolvere, vallo a sapere), e poi la signora in lacrime perché la lavatrice nuova si era mangiata il suo maglione preferito, e la ragazza un po’ svampita, in crisi perché il forno a microonde non dava segni di vita dopo appena una settimana dall’acquisto, e così via. Non che lui si intendesse di elettronica, anzi,  le cose tecnologiche non lo avevano mai interessato particolarmente. Probabilmente quel posto di lavoro lo aveva ottenuto più per la pazienza e la capacità di rimanere impassibile di fronte alle scenate e offese dei clienti inferociti che per le sue effettive competenze. Ma, in questi tempi di crisi era bene tenerselo stretto, il lavoro, anche se non era proprio quello a cui aspirava.

Uscendo dal cancello del giardino, quel giovedì mattina, notò una luce strana: stava piovendo, il cielo era scuro, ma le strade, le case, erano insolitamente luminose. Alzando lo sguardo, rimase sorpreso da uno spettacolo inconsueto. Un gigantesco e brillante arcobaleno attraversava il cielo da nord a sud, un arco perfetto e completo, con tutti i colori dell’iride: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. Che bellezza! Uno così perfetto, erano anni che non ne vedeva, a pensarci bene, forse, non ne aveva mai visto.

È un segno, pensò. Decise di andare a vedere dove andava a finire, invece di andare al lavoro, non sembrava molto lontano. Nella peggiore delle ipotesi avrebbe preso il treno dopo e sarebbe arrivato in ritardo, il direttore del Grande Magazzino gli avrebbe fatto una bella ramanzina, ma, tanto, lavorando all’ufficio reclami, c’era abituato. Se fosse stato fortunato, invece, magari avrebbe potuto trovare la leggendaria pentola d’oro nascosta dal folletto, di cui aveva sentito raccontare quando era piccino.

Invece di andare alla stazione, si diresse verso sud, dove l’arcobaleno sembrava più vicino. Camminava con il naso all’insù, ignaro degli ostacoli che avrebbe trovato.

Attraversò la strada davanti a casa senza guardare, per poco non venne investito da un tizio in motorino che gli lanciò una sfilza di accidenti.

Proseguì sul marciapiede, dopo pochi passi si scontrò con una signora canuta con un paio di spessi occhiali da vista, che stava andando a fare la spesa. “E stia attento!”, brontolò. Se ne andò borbottando contro i giovani di oggi che non hanno rispetto delle persone anziane.

Attraversò la piazzetta, per fortuna senza intoppi, ed entrò nei giardini pubblici. Andava spedito, perché sapeva che l’arcobaleno non dura molto e gli sembrava che stesse iniziando a sbiadire un po’ nella parte centrale. A un certo punto sentì un “ciak”. No, purtroppo non era quello di un regista che dava il via alle riprese di un film con protagonista la sua attrice preferita. Era invece il rumore della sua scarpa sinistra che si scontrava con la cacca di un cane. Era gigantesca! Il produttore sicuramente era stato quel sanbernardo dei suoi vicini di casa. E, a giudicare dalla consistenza e dall’odore, doveva essere fresca di giornata. Maledizione, pensò, ma poi si ricordò che porta fortuna. Mentre si puliva alla meglio con un fazzolettino di carta, continuava a ripetersi: “E’ un altro segno, oggi deve essere la mia giornata fortunata”.

L’arcobaleno era sempre più sbiadito, doveva sbrigarsi. Riprese il cammino a passo spedito, continuando a guardare ancora per aria, invece che di fronte a sé, nonostante tutto quello che gli era successo. E infatti dopo pochi metri si andò a scontrare con un alberello dal tronco sottile ma la chioma folta, ancora piena di foglie colorate, anche se eravamo quasi alla fine di novembre. L’alberello tremò per la botta e si scrollò di dosso tutte le goccioline di pioggia cadute nella notte, facendo al nostro Pendolo una bella doccia.

Nemmeno questo lo fece desistere, continuò imperterrito a inseguire l’arcobaleno attraverso stradine, vialetti, scale. Gli sembrava di aver percorso un bel po’ di chilometri e che fosse passato un sacco di tempo, quando finalmente arrivò alla meta. Dell’arcobaleno era rimasto solo un piccolo spicchio e in fondo c’era… il treno per Cittàgrande in partenza dal binario tre! Non si era accorto che tutto il suo tragitto lo aveva portato dove si recava ogni mattina, sulla banchina della stazione.

Sulla panchina, un bambino suonava un motivetto allegro con un flauto di Pan. Guardandolo bene, quel bambino aveva la barba lunga e il viso pieno di rughe. Vedendo Pendolo, smise di suonare e si mise a ridere sguaiatamente. “Sei il folletto della pentola, vero? Dove l’hai nascosta?” E il piccoletto, riuscendo a fatica a calmarsi dalle risate, “Ti ho fregato, era dall’altra parte dell’arcobaleno!”

Era troppo deluso per mettersi a discutere, con un folletto poi. Se lo avesse visto qualcuno, lo avrebbe preso per pazzo. Pendolo rinunciò alla pentola d’oro, si godette ancora per qualche istante l’ultimo spicchio di arcobaleno rimasto e salì sul treno, pronto come ogni mattina ad affrontare la consueta sfilza di reclami e lamentele.