Dal finestrino della linea 6

Dopo lo scatto rubato alla lettrice della Ferrante sulla metropolitana parigina, rieccomi con alcune altre immagini dalla Ville Lumière, sempre dalla metro. Questa volta siamo sulla linea 6, quella che attraversa la Senna sul Pont de Bir-Hakeim, tra le stazioni di Passy e Bir-Hakeim, da cui si può ammirare la Tour Eiffel. Sarà banale ma è la mia linea preferita,  per il tragitto sopraelevato sui tetti della città, per le carrozze un po’ vintage, per il tipico odore di gomma bruciacchiata degli pneumatici nelle stazioni. In questa occasione mi sono divertita a fare foto volutamente mosse dei passeggeri in attesa sulla banchina, trasformati per qualche istante in evanescenti fantasmini 🙂

©vitadapendolare.wordpress.com, 2017

Se avessi la macchina del tempo…

Se avessi la macchina del tempo, se potessi invertire il moto delle lancette dell’orologio, sicuramente vorrei tornare a rivivere l’età dei perché: quel periodo dell’infanzia in cui tutto è nuovo, meraviglioso, da scoprire. L’età in cui la realtà si mescola con la fantasia, le cose che per noi grandi sono normali, banali, scontate, appaiono ancora misteriose e affascinanti. Insomma, l’età di quei due bambini che stamani stanno aspettando alla stazione il treno per Firenze Santa Maria Novella, in compagnia dei nonni. La più grande dei due è una bella bimba, con i capelli raccolti in due treccine chiuse con dei fiocchetti colorati, un vestitino estivo a fiori con delle graziose gale sulle spalle e sull’orlo della gonna.

“Come sei bella, stamani!” la schernisce il nonno, “Oh quanti ammennicoli ti sei messa?” indicando i numerosi braccialetti colorati che adornano i polsi della nipotina.

“Hai fatto bene, stamani si va in città! Si va a vedere il Duomo!” replica la nonna.

Il fratellino è leggermente più piccolo, capelli corti a spazzola, occhi incredibilmente vivaci, non riesce a stare fermo e fa continuamente avanti e indietro tra la panchina e la linea gialla lungo i binari (che “non deve essere toccata, sennò arriva il controllore e ti manda via dalla stazione” cit. la nonna).

Appena arriva il treno, si blocca con un’espressione di gioia e di stupore. Che meraviglia! Guardandolo bene, anche a me oggi sembra meno brutto.

Il gruppetto sale sulla mia stessa carrozza e si sistema nei seggiolini di fianco al mio: i nonni siedono uno di fronte all’altro, sul lato del corridoio, lasciando ai piccoli i posti accanto al finestrino. I due bambini stanno in piedi per tutto il viaggio, con il naso e le mani appiccicati al vetro.

Il treno dopo qualche minuto dalla partenza passa lungo un grigio cantiere di periferia, aperto da anni, ormai, dove stanno nascendo come funghi anonimi edifici, tutti uguali. Ma non tutti, stamani, la pensano come me:

“Nonno, guarda, una ruspa! Un’altra, laggiù, è più grossa! Guarda, c’è anche la gru! E lo schiacciasassi! Che cantiere grosso, non l’avevo mai visto un cantiere grosso così!”

Incrociamo un altro treno, che procede in direzione opposta.

“Guarda, è a due piani! Ha un piano di sotto e un piano di sopra! Perché non abbiamo preso quello anche noi?”

“Perché quello non va a Firenze, quando torniamo indietro cerchiamo di prendere anche noi il treno a due piani!” replica paziente la nonna.

“…Ma va più forte di questo?”

“Eh questo non lo so…”

A un certo punto incrociamo anche la superstar dei binari nostrani, lo stupore dei bambini, soprattutto il piccolo, diventa incontenibile.

“La Freccia Rossa! Guarda come va veloce! Dove va, nonno?”

“Penso che vada a Bologna, o a Milano, o a Venezia…”

“Andiamo anche noi a Bologna? Dai!”

“La prossima volta, magari, oggi si è detto che si va a Firenze.”

“… Ma va più forte la Freccia Rossa o Italo? ”

Sull’argomento i nonni, devo dire, non sono molto preparati.

Ci fermiamo in una stazione appena fuori Firenze. Siamo ancora fermi quando il treno sul binario accanto riparte.

“Si parte!” esclama il piccolo.

“Ma non vedi che siamo ancora fermi?” lo corregge la sorellina.

“No, siamo partiti, guarda!” replica indicando i finestrini dell’altro treno, che si stanno muovendo, effettivamente.

Il nonno allora tenta di spiegare in modo semplice il concetto di moti relativi al nipotino, che non sembra troppo convinto.

Entriamo finalmente nella stazione di  Santa Maria Novella, un tripudio di treni a uno, due piani, Frecce Rosse, Frecce Argento, Itali, mezzi di servizio, gente, valigie, negozi… Il treno si ferma, ci prepariamo a scendere. Il piccolo per mano alla nonna, la sorellina con il nonno, si avviano verso il centro. Chissà quante cose meravigliose scopriranno, oggi. Davvero, li invidio un po’ 🙂

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Incubo di un pomeriggio di mezza estate

Esco stanca e sudata dal lavoro, oggi non funzionava neppure l’aria condizionata. Ma sono tranquilla, non prenderò un malanno, dato nemmeno sul treno funziona. Per lo meno è quasi vuoto, mi metterò a leggere un po’, per rilassarmi. Rettifica, è appena salita una combriccola allegra, colorata e disordinata di gente proveniente dal mare. È formata da una quindicina di adulti e cinque o sei bambini sotto i tre anni, ovviamente accompagnati da borsoni, borsine, borsette, zaini, passeggini, borse termiche, borse da spiaggia, borse della spesa, asciugamani, cappelli, contenitori di ogni forma, colore e dimensione. L’aria calda e umida nella carrozza è pervasa da un odore di crema solare, panino con la mortadella, sudore. Sono stati tutto il giorno al mare, beati loro, sono contenti e riposati e trasmettono tutta la loro gioia agli altri passeggeri emettendo decibel e decibel di risate sgangherate. Vorrei le cuffie giganti che indossa quel ragazzetto seduto là in fondo: sembra così assorto e isolato dal resto della carrozza. Forse se mi concentro nella lettura non li sento. Ci riesco, quasi, ma all’improvviso uno dei bambini scoppia in una bizza disperata. Più che un pianto sembra un misto tra il grido di dolore di un animale preistorico e gli artigli di Freddy Krueger strisciati su una lavagna. I genitori lo ignorano totalmente. Se avessi il numero di cellulare di un esorcista, oggi lo chiamerei. Cambiare carrozza? Sono troppo stanca, poi, arrivando nella stazione e vedendo la quantità di gente che è salita non penso che la situazione migliorerà. Il viaggio sembra ancora più lungo, anche perché nel frattempo il treno per qualche inspiegabile motivo ha accumulato un quarto d’ora di ritardo. Guardo fuori dal finestrino, per distrarmi, ma non funziona. Finalmente il treno rallenta, gli adulti del gruppo confusionario raccolgono tutte le loro carabattole e si preparano a scendere. Una delle donne prende in collo il piccolo indemoniato, che sorprendentemente si mette a strillare ancora più forte, sbracciandosi e agitandosi, non riesco a capacitarmi di come tutto ciò sia fisicamente possibile. La mamma, per niente turbata, cerca con non troppa convinzione e scarsi risultati di calmarlo. Il convoglio si ferma, le porte si aprono, le emissioni acustiche piano piano si placano, finalmente. Si riparte e nelle orecchie ho il tipico fruscio che si percepisce dopo essere stati in discoteca o sotto le casse di un concerto heavy metal. Il treno giunge finalmente alla mia fermata, con passo stanco, quasi strascicando i piedi arrivo a casa e mi getto sotto la doccia, finalmente è finito l’incubo… fino a domani, almeno!

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di poche parole

Un tipo quadrato, di poche parole, ma ben inquadrato, solido, diciamo. Un carattere spigoloso, forse un po’ troppo rigido, ma, in fondo in fondo, dal cuore tenero. Un fisico robusto, bello pieno. È abituato a viaggiare, fa proprio parte della sua natura, si vede. Penso sia americano, a sentire le sue amiche, sedute lì, accanto. Perché lui tace, guarda solo fuori dal finestrino, in silenzio. Eppure, a guardarlo bene, sembrerebbe alla mano. E anche pieno di risorse, proprio pieno zeppo, sì. Se proprio vogliamo trovargli un difetto, beh, mi sembra un po’ pesante, ecco. Non legge, non dorme, non ascolta la musica, non smanetta con il telefono, semplicemente, siede, impettito, leggermente infastidito dal riflesso del sole sul finestrino, e aspetta di arrivare dove deve arrivare. Non cambia mai posizione, oscilla solo leggermente quando il vagone passa sopra uno scambio: non se lo aspettava, evidentemente, ma, a parte il leggero tremolio, non mi pare troppo infastidito. Arriva il controllore, verifica i biglietti delle due amiche americane e passa oltre, lo ignora. Sale una signora un po’ anziana, claudicante, lo guarda male, probabilmente vorrebbe sedersi al suo posto (“ah questi giovani di oggi!”, leggo nel suo sguardo), ma ce n’è un altro libero, più avanti, e procede oltre. Il treno rallenta, tra poco devo scendere, faccio appena in tempo a immortalarlo in una foto con il cellulare, per poterlo presentare anche a voi, il mio vicino di viaggio di oggi, un tipo quadrato, di poche parole. 🙂

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La bella addormentata… sul treno

Pomeriggio di inizio giugno, rientro dal lavoro, sul treno.  Il primo caldo della stagione ha un effetto soporifero su di me, ma anche sugli altri viaggiatori. Tutto lo scompartimento, stranamente, è avvolto in un silenzio ovattato: cullati dalle lievi oscillazioni sui binari, c’è chi legge, chi ascolta la musica, ma siamo tutti mezzi addormentati.

In questa scena quasi onirica a un certo punto irrompe il controllore, per la consueta verifica dei biglietti. Tutto procede regolarmente, con discrezione direi, quasi per non disturbare. Poco distante da me sono sedute due ragazze, giovani e carine, con abbigliamento estivo che lascia libere le gambe e le braccia, sulle quali sfoggiano una bella abbronzatura ambrata, il viso è nascosto da giganti occhialoni da sole. Dormono profondamente, a giudicare dalla postura stravaccata e dalla bocca semi aperta. È il loro turno per la verifica del biglietto: il controllore con discrezione accenna:

“Biglietto, prego!”

Nessun cenno di reazione.

“Biglietto, prego… ticket please…”

Ancora niente, prova delicatamente a scuotere la spalla della ragazza seduta sul lato del corridoio.

“Ticket please!”

Niente. Prova con quella seduta accanto al finestrino.

Ticket please!”

La ragazza pare riprendersi da un sonno ancestrale, come se dormisse da un secolo, con aria tra l’assonnato e l’infastidito rivolge finalmente la sua attenzione al controllore.

Ticket please!”

Ripete ormai ossessivamente il controllore. La ragazza gli risponde, non capisco in che lingua, indicando la sua amica. Intuisco che i biglietti li ha lei, che ancora giace serena tra le confortevoli braccia di Morfeo.

Il controllore risponde ancora in inglese, lei ribatte accennando a un airport. Alla fine è lui a cedere, dicendo:

“Scendete a Firenze? …Florence?

E la ragazza, con aria innocente e un po’ disorientata, tipica proprio delle turiste americane appena atterrate (un attimo, però, manca qualcosa… non hanno le tipiche mastodontiche valigie con loro!):

“Yes, Florence…

E lui:

“Va bene, via, ripasso tra un po’ allora, later…

Appena il controllore esce dallo scompartimento, le facce di entrambe le ragazze, anche quella della bella addormentata, si contraggono in una smorfia che in pochi secondi si trasforma in una grassa risata. Tra le risa, commentano la scena, in un perfetto italiano con la “c” bene aspirata.

Scendono entrambe nella mia stessa stazione, due fermate prima di Firenze Santa Maria Novella.

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Il Vade-mecum del Viaggiatore

Un po’ di tempo fa, casualmente, nel sottopassaggio della stazione, tanto per rimanere in tema, ho incontrato un libro un po’ curioso che non conoscevo.

Si tratta di “Un romanzo in vapore” di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, pubblicato nel 1856, una trentina di anni prima che nascesse il suo ben più famoso burattino.

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Nonostante il titolo, il libro non è un vero e proprio romanzo, ma piuttosto un insieme di brevi interventi a volte eterogenei tra loro, aventi come filo comune la descrizione di un viaggio in treno da Firenze a Livorno, che l’autore reputa “lungo e pericoloso”. Chissà cosa ne pensa Ilaria, che lo percorre tutti i giorni come pendolare!

Uno dei capitoli che mi ha fatto più sorridere è quasi alla fine, il XVII, intitolato “il Vade-mecum del Viaggiatore”. Molti dei punti mi sembrano ancora oggi più che mai attuali! Lo riporto qui di seguito, per  i viaggiatori di ieri, oggi e domani… buona lettura!

– Avendo necessità di partire con un dato treno, è sempre meglio giungere alla stazione dieci minuti avanti la partenza… che cinque minuti dopo.

– Procurate, dovendo comprare il biglietto, di pagare con moneta da ventiquattro carati – perché i bullettinai delle Strade-ferrate su quest’articolo sono schizzinosi fino alla nausea.

– Cercate di porre il vostro biglietto in una tasca sicura, per evitare il caso di smarrirlo, e trovarvi costretto a ripagare il prezzo di tutta la gita, con biglietto di prima classe (prepotenza che sa di Medio-Evo lontano un miglio).

– Se non vi spinge necessità o veduta economica, preferite i treni ordinari ai così detti treni diretti: perché quantunque da Firenze a Livorno lo stradale non sia lunghissimo, nonostante la natura umana, è così caduca, così esigente e così avvezzata male, che difficilmente può stare due ore di seguito, senza domandarvi qualche servigio, o qualche piacere per forza.

– Se dovete partire con un treno diretto, prima di salire in vagone fate il vostro esame di coscienza, per vedere se v’occorre nulla. Accade che, durante la gita, si fanno sentire alle volte dei bisogni più imperiosi dei bisogni sociali… e allora, credetelo a me, la gita di piacere diventa un sanguinoso epigramma.

– Sulla scelta della Classe, in cui dovete entrare, consigliatevi col vostro porta-monete. Se amate stare in piedi, entrate in quarta classe, nuovo genere di supplizio inventato recentemente, a benefizio delle persone poco facoltose, dagli azionisti delle strade ferrate.

Se poi amate l’aria fresca, la durezza delle panche e i reumi di Cervello, entrate in un vagone di terza classe e sarete esaudito.

Volendo salvare i rispetti umani e mettersi al coperto dalla sorpresa di una pioggia improvvisa o di un colpo di sole, la seconda classe è fatta apposta.

Se amate i comodi della vita, o se viaggiate per conto di qualche cliente, non c’è da esitare: la prima classe è quella che più conviene.

– Se dovete fermarvi in qualche Stazione intermedia, non vi divagate troppo: e particolarmente, non vi lasciate prendere dalle carezze di Morfeo. Rammentatevi che il sonno è traditore. Il sonno tradì Parisina – e non era in wagone!

– Viaggiando in terza o quarta classe, dove il vento ha libero dominio, sarà bene che il vostro cappello sia fortemente adeso alla vostra testa – perché restandone senza (del cappello, beninteso, non già della testa) avreste è vero, la soddisfazione di mettere il buonumore e l’ilarità in tutta la brigata, ma vi toccherebbe poi  l’umiliazione di fasciarvi il capo col fazzoletto da naso, per il rimanente del viaggio. Io non ho mai creduto che il cappello conico sia il coperchio più artistico che potesse toccare all’uomo: ma  neppure il fichu si addice gran cosa alla fisionomia maschile, specialmente se questa è fornita di baffi e fedine. Se per disgrazia il vento vi involasse il cappello, e foste di coloro che hanno la velleità di coltivare sul mento, e nei dintorni una barba alla cappuccina, allora vi consiglio piuttosto di prendere un cimurro di testa, che a fasciarvi la nuca col fazzoletto da naso. L’ilarità dei vostri compagni di viaggio, ne sono sicuro, diventerebbe smodata e provocante.

– Ogni volta che il treno è sul punto di partire, se voi parlate caldamente con la persona di faccia, procurate che tra il vostro naso e quello dell’interlocutore, ci passi una rispettosa distanza – poiché, nell’urto che si danno tra loro i wagoni, movendosi, potrebbe accadervi, come è accaduto a tanti, che il vostro interlocutore venisse a darvi un bacio (coi denti) sul tenerume delle vostre narici. Questi baci, di sovente, arrivano all’anima assai più… del primo bacio d’amore!

– Se il wagone in cui entrate vi lascia libero nella scelta del vostro posto, fate in modo di scansare la vicinanza dei ragazzi e dei parlatori di vantaggio. Tanto i primi che i secondi finirebbero per cavarvi di cervello.

– La vita è breve… ma la noia è lunga! Perciò se desiderate ammazzare in qualche modo le lunghissime ore del wagone, procacciatevi un libro… o fate mentalmente il riepilogo delle vostre passività.  

Turisti fai da te

Essere pendolari tra due delle città più belle  d’Italia, anzi, direi del mondo, è davvero un privilegio. Poter far colazione prima di partire all’ombra della cupola del Brunelleschi e magari prendere il caffè dopo pranzo in piazza del Campo non è da tutti… Ma, ovviamente, pur avendone la possibilità, non lo faccio mai: la mattina sono sempre di fretta, riesco a malapena a prendere il treno di corsa e a pranzo difficilmente esco, troppo presa dalle questioni di lavoro.

Quando ero ragazzina e vivevo in campagna ero abituata a riconoscere l’inizio della bella stagione con l’arrivo delle rondini e il canto del “cucco” (come è chiamato il cuculo dalle mie parti). I tempi sono cambiati: come il ragazzo della via Gluck, sono andata a vivere in città e adesso, invece la primavera per me arriva quando vedo per le strade e i marciapiedi, i piedi nudi delle turiste americane ciabattare nelle infradito, bianchi come le vecce, direbbe la mia nonna. Di solito questo succede verso fine febbraio: io giro ancora con il piumino, gli stivali e i calzettoni di lana, mentre loro osano già minigonne vertiginose e shorts variopinti. Non so come facciano a non prendere un accidente! Sono sempre allegre e chiassose, soprattutto la sera, grazie anche a qualche bicchiere (o bottiglia) di Chianti di troppo: la gioia dei giovanotti autoctoni a caccia di nuove conquiste esotiche. Prendono sempre il treno di corsa all’ultimo momento, irrompendo rumorosamente nello scompartimento e passando il tempo del viaggio tra risate grasse e cori improvvisati.

I giapponesi sono invece i turisti più disorientati. Viaggiano sempre con gli occhi fissi sulla mappa aperta, rischiando di investire coloro che si trovano sul loro tragitto. Sono quelli che mi fermano più spesso per chiedermi informazioni, di solito non sono mai dove pensavano di essere e li devo reindirizzare. Dato che né il mio né il loro inglese è a livelli shakespeariani, la nostra conversazione si trasforma inesorabilmente in uno spettacolo di mimo improvvisato per strada. Quando pensano di avere capito, mi ringraziano con un leggero inchino e si incamminano, sempre controllando la mappa. Alla stazione più volte li ho sorpresi a fotografare i treni, non solo Italo o le Frecce, ma soprattutto i regionali scassati… Forse nel loro mondo iper-tecnologico le nostre vecchie caffettiere sono degli affascinanti pezzi vintage… chissà…

I più preparati sono i tedeschi: nella mano destra una guida intitolata “Toskana”, un pratico zainetto in spalla, una reflex con uno zoom a cannone al collo, giubbottino leggero senza maniche da pescatore su camicia a quadretti, cappellino con visiera Jack Wolfskin, pantaloni al ginocchio e ovviamente gli immancabili sandali con calzino bianco. Sul treno sono quieti e tranquilli, non sbagliano mai un orario o una fermata. Leggono la guida, riguardano gli scatti della giornata o, più semplicemente, dormono tranquilli, come questi due qui 🙂

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Un po’ li invidio, i turisti: anche a me piacerebbe avere più tempo per andare a scoprire le meraviglie delle mie città. A volte, quando vedo un gruppo con la guida, mi avvicino per sentire cosa sta raccontando. Spesso scopro cose che non sapevo, e mi sento un po’ in colpa: ma come, questi attraversano mezzo mondo per vedere questo palazzo, ed io, che ci passo tutti i giorni sotto, nemmeno me ne accorgo?

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Do you speak English?

Oggi* cambio di orario e di mezzo. Sono seduta nella sala d’attesa della stazione degli autobus, aspettando la mia corsa, prevista in partenza per le 13.35. Accanto a me un turista giapponese fissa  già da un po’ la stessa pagina della guida che ha in mano, probabilmente si è appisolato, ma da qui non riesco a capire bene. Ecco arrivare due adolescenti appena usciti da scuola, strascicando i piedi: il primo è esile e minuto, ha una criniera bionda che gli scende fin sulle spalle, abbigliamento e accessori da metallaro, il secondo, un po’ più alto e robusto, sfoggia una bella acconciatura da “Ultimo dei Mohicani” e una ricca collezione di pearcing sulle orecchie e sul sopracciglio sinistro. Alla mia sinistra, all’angolo, una tranquilla signora, ha con se una piccola valigia un po’ rétro, piena zeppa.

Al nostro eterogeneo gruppetto in attesa si avvicina un’altra signora, visibilmente disorientata, visibilmente nord-europea, guardando alternativamente una mappa che regge con la mano sinistra, essendo la destra impegnata nel trascinare un trolley blu scuro, e un punto imprecisato di un orizzonte che non esiste, essendo tutti noi dentro a un’autostazione.

La nuova arrivata si siede titubante accanto all’altra signora, le due sono quasi coetanee, stimo, ma totalmente diverse tra loro: la prima arrivata è bassa, cicciottella, con i capelli mori raccolti dietro la nuca, la turista disorientata è invece alta, magra, con un collo molto lungo e capelli biondissimi tagliati a caschetto. Lo so, la descrizione sembra un po’ stereotipata, ma è proprio così che erano queste due mie compagne di attesa di autobus delle 13.35 di ieri.

Dopo un breve sorriso e un educato saluto, la signora appena arrivata rivolge all’altra la classica domanda:

“Exuse me, do you speak English?”

L’altra rimane un attimo interdetta, inizia a scuotere la testa per negare, ma non fa in tempo a rispondere niente che la nostra turista continua:

“I need to go to S’nta M’ria N’v’lla railway station…”

Nel sentire le parole “Santa”, “Maria” e “Novella” la passeggera autoctona si illumina. Certo che lo sa dov’è! E non sarà certo la non conoscenza della lingua a impedirle di comunicarlo. Insomma, siamo o no discendenti di Marco Polo e Cristoforo Colombo? Figuriamoci se non riuscirà a far capire da questa turista danese, tedesca, olandese o qualsiasi cosa sia, dov’è la stazione di Santa Maria Novella (che, tra l’altro, è vicinissima: basta uscire dal garage degli autobus e ce la troviamo praticamente davanti).

Inizia così una descrizione del percorso a metà tra lo spettacolo di un mimo e i comunicati della sicurezza delle hostess sugli aerei prima del decollo:

“Allora, qui fuori a destra…”

(nel pronunciare la parola destra solleva vistosamente il corrispondente braccio per far capire bene la direzione)

“…c’è l’USCITA, U-SCI-TA…”

(scandisce bene la parola USCITA, con volume molto alto, come se la non conoscenza della lingua italiana della povera turista dovesse essere necessariamente accompagnato a una qualche forma di sordità, e tracciando con gli indici delle sue mani, nello spazio davanti a lei, la parte superiore di un rettangolo delle dimensioni approssimative di una porta)

“… poi gira a sinistra…”

(evidenzia l’azione mostrando il braccio corrispondente, il sinistro in questo caso, e flettendo il polso ad angolo retto, in quello che nel suo linguaggio corporale dovrebbe rappresentare l’atto dello svoltare)

“… e va avanti per venti metri…”

(il venti è facile da rappresentare, basta mostrare per due volte le dieci dita di entrambe le mani, per essere sicura ripete questa operazione due volte, per un totale di quaranta dita)

“… poi attraversa al semaforo …”

(rappresentato formando un cerchio con i pollici e gli indici delle due mani)

“… e sale le scalette …”

(per spiegare l’azione del salire le scale, fa oscillare alternativamente indice e medio della mano destra, mentre il polso descrive una traiettoria ascendente)

“… e così arriva a Santa Maria Novella.”

La signora nord-europea osserva, durante la descrizione, con aria piuttosto dubbiosa, e ripete in scala ridotta le coreografie della sua improvvisata guida, per fissare bene le informazioni ricevute. Appena sente dire “Santa Maria Novella” capisce che il percorso virtuale è giunto a destinazione e ringrazia gentilmente. Il suo sguardo mi ricorda quello mio e dei miei compagni di classe quando il professore di chimica, alla fine della lezione, ci chiedeva: “E’ tutto chiaro?” Ed era chiaro che niente era chiaro, ma nessuno osava farglielo notare, per evitare che ripartisse con la supercazzola. E infatti la nostra turista si affretta ad alzarsi, riprende mappa e trolley, saluta educatamente tutto il gruppetto, compresi i due metallari, che ricambiano con uno sguardo distratto, e si avvia velocemente verso l’uscita.

* (in realtà la storia è di ieri ma solo oggi ho avuto tempo per trascriverla e pubblicarla)

Colonna sonora del pendolare/3

Eccoci qua, anche per quest’anno ce l’abbiamo fatta ad arrivare all’ultimo giorno di lavoro prima della pausa estiva. Oggi pomeriggio, in una giornata particolarmente calda e umida, arrivo qualche minuto prima alla stazione per il viaggio di ritorno che mi condurrà verso le meritate ferie. In questi giorni di solito mi prende anche un po’ di malinconia, forse per la stanchezza, oppure perché, nonostante tutto, il tran tran quotidiano fa in qualche modo compagnia, da` delle certezze, in un mondo che di certezze ne ha sempre meno. Ma, ripensandoci, macché malinconia! Mi aspettano tre settimane di riposo e svago e poi, proprio oggi mi e` arrivato il nuovo computer. Anche se teoricamente sarebbe uno strumento di lavoro, per me ormai e` diventato una specie di compagno di viaggio e, come un bimbo la mattina di Natale, non vedo l’ora di baloccarmi con questo bel giocattolo. Oggi più che mai ho bisogno di un viaggio “all by myself” come canta Celine Dion, pero`, al contrario di lei, “I wanna be”, almeno per un’oretta.
Scelgo accuratamente una carrozza vuota con aria condizionata funzionante e mi sistemo su un seggiolino abbastanza centrale, dal lato opposto al sole, apro la borsa, prendo il nuovo portatile e lo accendo.
Ad un tratto, la carrozza ha un sobbalzo, mi accorgo che e` appena salito, con la grazia di una mandria di bufali, tipo quelli del parco del Serengeti, un gruppo, o meglio un branco di giovani turisti spagnoli. Per la maggior parte sono ragazze, tutte in shorts succinti e canotte minimaliste, per la gioia dei viaggiatori di sesso maschile sparsi nel vagone, tutte con un’esasperante, inaspettata, irritante vitalità,  visti l’ora, il periodo, il caldo opprimente.
Completano il quadro dei miei compagni di viaggio di oggi, un gruppo di cinque americani: una giovane coppia con una bimba di un anno circa e una coppia più  matura, probabilmente i genitori di lei.
Il gruppo di spagnoli si sistema proprio dietro di me e ben presto il livello di emissione acustica raggiunge dei livelli che anche il più tollerante degli ispettori del lavoro definirebbe inaccettabile. Il rumore e` costituito da dialoghi a distanza, risate grasse, conversazioni telefoniche.
La cosa migliore sarebbe prendere armi e bagagli e spostarsi da un’altra parte, ma ormai mi sono sistemata, sono stanca… e poi sono arrivata prima io, ovvia! Per cercare di limitare il fastidio prendo le cuffie, le collego al telefono e inizio a ascoltare uno dei brani che ho memorizzato. Il primo che mi capita e` la Nona di Beethoven, secondo me uno dei punti più alti della musica di tutti i tempi. Mi dispiace sfruttare un simile capolavoro come tampone per le mie orecchie, come argine nei confronti del dirompente caos che si sta materializzando dietro di me.
Alzo il volume e inizio ad assaporare le prime note, ma a un tratto mi arriva anche un’altra sorgente sonora: i miei compagni di viaggio hanno pure uno stereo!
E così le note del violoncello che introduce la celeberrima melodia dell’Inno alla Gioia si mescola con un ritmo latino, enfatizzato dal tamburellare delle mani sulle cosce e dai cori starnazzanti che si uniscono al cantante nei ritornelli.
Mentre il baritono nelle mie cuffie intona: “O Freunde…”, risponde un paradossale e stonato controcanto “… quiero bailar contigo toda la noche…”
La situazione sta degenerando. Una delle ragazze ha persino la brillante idea di improvvisare, proprio in mezzo del corridoio, alcuni passi di flamenco, sotto lo sguardo stralunato degli altri passeggeri.
Come se non bastasse, zitta zitta, l’aria condizionata intanto ha smesso di funzionare. Me ne accorgo quando vedo il signore accanto a me che si sta sventolando con un foglio e che sta assumendo il preoccupante aspetto di una porchetta in una festa paesana. E mi rendo conto che anche io mi sto surriscaldando.
Per completare il quadro, ecco infine la bimba della famiglia americana irrompere nella scena con un pianto disperato. Ha del talento, la piccola, da grande potrebbe diventare un ottimo soprano drammatico.
Basta, non ne posso più. I miei timpani iniziano a supplicare le mie gambe di portarli via da quel caos e alla fine queste, nonostante la stanchezza, cedono. Mi sposto nella carrozza vicina tenendo le cuffie. Finalmente mi posso gustare l’esplosione del coro nell’Inno alla Gioia, non dico in santa pace, ma per lo meno in condizioni un po’ migliori.
E così mi lascio alle spalle i dieci minuti peggiori della giornata, probabilmente della settimana. Ma per fortuna, da oggi, per qualche giorno, i ruoli cambieranno e la turista sarò io!