Sale sul treno quando mancano ancora cinque minuti alla partenza. È affannato, deve aver fatto una bella corsa per arrivare in tempo. E inquieto, un viaggiatore inquieto. Porta con sé solo una borsa di pelle da ufficio. Cerca tra i viaggiatori già seduti uno dall’aspetto esperto e lo interroga sulla destinazione del treno, per avere conferma di quanto scritto sul tabellone lungo il binario, che si trova proprio davanti a questa carrozza e che ha controllato almeno due volte prima di salire. Si sposta verso il centro dello scompartimento, poi ci ripensa e torna indietro, verso l’entrata. Sceglie un posto, si siede. Si guarda intorno, ci ripensa e si sposta dalla parte opposta del corridoio, sul lato lungo il binario, in modo da poter tenere sott’occhio il tabellone. Posa la borsa sul sedile accanto al suo, libero. Anche i due posti di fronte sono liberi. Arriva l’orario della partenza, il treno inizia a muoversi, in direzione opposta a quella del sedile su cui si trova il viaggiatore inquieto. Si alza, leggermente contrariato, e va a sedersi nel posto di fronte. Come se le sue natiche, nell’atto di sedersi, anziché posarsi sul tessuto del sedile, si fossero imbattute in un cespuglio spinoso, il viaggiatore inquieto, non ancora terminato lo spostamento, si rialza immediatamente, per prendere la borsa e il giubbotto, rimasti nel posto davanti a lui, e spostarli accanto a sé. Finalmente, si siede, posa un braccio sui suoi averi, accanto a lui, e inizia a guardare fuori dal finestrino. Non c’è molto da vedere, a dire il vero: è buio, siamo in campagna, si riconoscono appena i profili delle colline, con qualche luce qua e là, e il tutto è mascherato dal riflesso pallido della carrozza semivuota sul vetro. Il treno rallenta, sta per arrivare alla prossima fermata del suo quotidiano tragitto. Il viaggiatore inquieto scatta in piedi, chiede a uno degli altri passeggeri dove ci troviamo. Ottenuta la risposta, chiede conferma del fatto che ancora non siamo arrivati nella stazione dove lui deve scendere. No, non ci siamo ancora, mancano ancora quattro fermate, manca almeno una quarantina di minuti. Il viaggiatore inquieto si risiede, apre la borsa, prende un foglio stampato, che riporta in alto il logo delle Ferrovie e nella parte centrale un elenco. Cerca ancora nella borsa, più a fondo. Trova un paio di occhiali e una penna. Inforca i primi, mentre con la seconda spunta i primi due nomi dell’elenco sul foglio. Rimette a posto il tutto e ricomincia a guardare fuori dal finestrino, anche se il panorama non è molto più interessante di prima. Dalla parte opposta della carrozza entra il capotreno e inizia la verifica dei titoli di viaggio. Il viaggiatore inquieto scatta come un soldatino sull’attenti. Inizia a frugare nelle tasche dei pantaloni. Si sente il tintinnare di alcuni spiccioli e lo scricchiolare di un mazzo di chiavi. Niente. Passa alle tasche posteriori. Ma dove l’ho messo? Passa ad esaminare il giubbotto, senza successo. È il turno della borsa, che ha due scomparti esterni. Nel primo che apre trova finalmente l’agognato cartoncino. Aspetta impaziente il suo turno per la verifica, in capotreno è stato trattenuto da una coppia di turisti che gli chiedono informazioni su una coincidenza. Tocca a lui, tutto a posto. Grazie, buon viaggio. Il viaggiatore inquieto ripone il biglietto nella tasca esterna della borsa. Non quella da cui l’aveva presa, l’altra. Ha appena chiuso la cerniera quando si accorge dell’incongruenza, a cui pone rimedio immediatamente. Nella fermata successiva, il treno indugia qualche minuto prima di ripartire. Nessun problema particolare, sta solo aspettando il treno che deve arrivare dalla direzione opposta, poiché nel tratto successivo la linea è a binario unico. Il viaggiatore inquieto guarda nervosamente l’orologio. Riprende il foglio stampato dalla borsa, lo controlla, calcola qualcosa mentalmente, riguarda l’orologio, poi, di nuovo, il foglio e ancora l’orologio. Il fischio della chiusura delle porte pone fine ai suoi tormenti, almeno per un po’. A ogni fermata si ripete la coreografia del foglio, la spunta dell’elenco, il controllo dell’orologio e la verifica che il biglietto sia ancora nella tasca giusta, non si sa mai, potrebbe essere scivolato, qualche malintenzionato potrebbe averlo preso, bisogna stare attenti, un altro controllo all’orologio, un altro al foglio, un calcolo mentale, ancora, finché il treno non riparte. Dopo un tempo che sembra infinito arriviamo alla penultima spunta dell’elenco del foglio stampato. Ci siamo quasi: alla prossima fermata il viaggiatore inquieto dovrà scendere dal treno. Anche se manca almeno un altro quarto d’ora al termine di quest’agonia, il viaggiatore inquieto inizia a prepararsi. Piega in quattro il foglio con l’elenco delle fermate, lo rimette nella borsa, già che c’è ricontrolla che il biglietto ci sia ancora, sì, c’è ancora, si alza, indossa il giubbotto, chiude la cerniera, poi i bottoni, sistema le maniche, prende la borsa, poi, indovinate un po’, la riapre, ricontrolla che ci sia tutto, anche il biglietto nella tasca esterna, richiude le varie cerniere, si guarda intorno, identifica l’uscita più vicina e inizia a camminare in quella direzione. Passa gli ultimi minuti in equilibrio davanti ai gradini della porta. Il treno sta ancora rallentando, non è ancora fermo, nonostante ciò il viaggiatore inquieto afferra saldamente la maniglia di apertura. Ecco lo sbuffo dell’aria compressa, si possono aprire le porte, ora. Il viaggiatore inqueto tira con forza la maniglia, si sente un rumore strano, la porta non si apre, riprova, niente. Inizia a tirare avanti e indietro la maniglia in modo convulso, aiutandosi con oscillazioni di tutto il corpo, niente da fare, sembra inesorabilmente bloccata. Un pendolare paziente si offre di provare. Il viaggiatore inquieto si sposta malvolentieri, rimane apprensivo a ridosso dell’uscita, per ora interdetta. Il pendolare paziente tira con decisione la maniglia. Tac, si sente uno scatto e la porta si apre. Il viaggiatore inquieto, ora anche contrariato, scende i due gradini e s’incammina verso il sottopasso. Lo osservo dal finestrino, forse sembra un po’ meno inquieto, e lo siamo anche noi, i suoi compagni di viaggio di oggi.
stress
Natale pendolare #7
E poi c’è chi trova tutta questa atmosfera natalizia, un po’ opprimente…
Incubo di un pomeriggio di mezza estate
Esco stanca e sudata dal lavoro, oggi non funzionava neppure l’aria condizionata. Ma sono tranquilla, non prenderò un malanno, dato nemmeno sul treno funziona. Per lo meno è quasi vuoto, mi metterò a leggere un po’, per rilassarmi. Rettifica, è appena salita una combriccola allegra, colorata e disordinata di gente proveniente dal mare. È formata da una quindicina di adulti e cinque o sei bambini sotto i tre anni, ovviamente accompagnati da borsoni, borsine, borsette, zaini, passeggini, borse termiche, borse da spiaggia, borse della spesa, asciugamani, cappelli, contenitori di ogni forma, colore e dimensione. L’aria calda e umida nella carrozza è pervasa da un odore di crema solare, panino con la mortadella, sudore. Sono stati tutto il giorno al mare, beati loro, sono contenti e riposati e trasmettono tutta la loro gioia agli altri passeggeri emettendo decibel e decibel di risate sgangherate. Vorrei le cuffie giganti che indossa quel ragazzetto seduto là in fondo: sembra così assorto e isolato dal resto della carrozza. Forse se mi concentro nella lettura non li sento. Ci riesco, quasi, ma all’improvviso uno dei bambini scoppia in una bizza disperata. Più che un pianto sembra un misto tra il grido di dolore di un animale preistorico e gli artigli di Freddy Krueger strisciati su una lavagna. I genitori lo ignorano totalmente. Se avessi il numero di cellulare di un esorcista, oggi lo chiamerei. Cambiare carrozza? Sono troppo stanca, poi, arrivando nella stazione e vedendo la quantità di gente che è salita non penso che la situazione migliorerà. Il viaggio sembra ancora più lungo, anche perché nel frattempo il treno per qualche inspiegabile motivo ha accumulato un quarto d’ora di ritardo. Guardo fuori dal finestrino, per distrarmi, ma non funziona. Finalmente il treno rallenta, gli adulti del gruppo confusionario raccolgono tutte le loro carabattole e si preparano a scendere. Una delle donne prende in collo il piccolo indemoniato, che sorprendentemente si mette a strillare ancora più forte, sbracciandosi e agitandosi, non riesco a capacitarmi di come tutto ciò sia fisicamente possibile. La mamma, per niente turbata, cerca con non troppa convinzione e scarsi risultati di calmarlo. Il convoglio si ferma, le porte si aprono, le emissioni acustiche piano piano si placano, finalmente. Si riparte e nelle orecchie ho il tipico fruscio che si percepisce dopo essere stati in discoteca o sotto le casse di un concerto heavy metal. Il treno giunge finalmente alla mia fermata, con passo stanco, quasi strascicando i piedi arrivo a casa e mi getto sotto la doccia, finalmente è finito l’incubo… fino a domani, almeno!
Problemi pendolari
Problema
State aspettando un treno lungo il binario uno. Il treno successivo diretto verso la vostra destinazione partirà dal binario sei venti minuti dopo. L’altoparlante annuncia che il treno che state aspettando ha venti minuti di ritardo.
Quale dei due treni partirà prima?
Soluzione: quello in arrivo al binario dove non siete voi.
Dimostrazione:
Supponiamo che voi siate al binario uno. Tanto lo sapete che di solito parte prima quello, perché è un Regionale Veloce e fa pochissime fermate intermedie. L’altoparlante annuncia il treno in partenza al binario sei, siete tentati, ma subito dopo annuncia quello al binario uno. Inizia a lampeggiare la lucina sul tabellone, accanto al binario sei. Vi state già incamminando verso il sottopassaggio, quando con la coda dell’occhio vedete che anche quella del treno al binario uno ha iniziato a ballare a destra e a sinistra. Al binario sei sta arrivando un treno stracarico di pendolari, mentre al binario uno ancora niente. Vi decidete, finalmente, a cambiare strategia e vi fiondate nel sottopassaggio. Avete quasi raggiunto la vostra uscita da quel maleodorante tunnel quando venite investiti da una slavina umana formata dai pendolari appena scesi dal treno, che si stanno velocemente incamminando verso l’uscita, trascinandovi, come una corrente impetuosa, in direzione opposta alla vostra.
Il treno al binario sei, nel frattempo, riparte. Quello al binario uno matura un ritardo aggiuntivo di dieci minuti.
Supponiamo, viceversa, che una vocina interiore, l’istinto pendolare che c’è in voi, tanto per citare il buon Raf, vi suggerisca, senza alcun motivo apparente, di scegliere il treno al binario sei. Come si dice, meglio un treno locale oggi che un Regionale Veloce mai… Vi incamminate tranquillamente verso il binario sei, salite le scale, raggiungete una panchina e vi sedete. Di fronte a voi, scorgete, lungo il binario uno, gli altri viaggiatori, in attesa. “Tze, che bischeri…” pensate, forti della vostra pluriennale esperienza. E infatti, ecco spuntare, all’orizzonte, il trenino locale, in perfetto orario. Salite sulla carrozza, soddisfatti di aver fatto, ancora una volta, la scelta giusta, alla faccia di quei poveretti, ancora lì, lungo il binario uno. Vi accomodate su uno dei sedili, in una carrozza semi vuota e aspettate la partenza del treno. Aspettate… aspettate…
E intanto ecco arrivare al binario uno il Regionale Veloce, che essendo Veloce, appunto, e in ritardo, si ferma e riparte prima che voi possiate pensare di scendere dal trenino locale. Che, per dare la precedenza, accumula dieci minuti di ritardo.
C.V.D.
Cosa non farò quando andrò in pensione
… se mai ci andrò, ma questa è un’altra storia.
Non andrò alla posta alle otto di mattina, come dovevo fare per forza quando andavo a lavorare e non intaserò per mezza mattinata lo sportello perché non mi torna il conto della pensione di questo mese.
Non andrò al supermercato il sabato mattina.
Se proprio dovrò andarci, non assalirò come una furia il reparto delle offerte, pretendendo di acquistare il massimo possibile dei prodotti scontati, come se dovessi accaparrarmi beni di prima necessità per un evento bellico imminente.
Non palperò con metodica assiduità tutte le mele e tutti i pomodori del reparto ortofrutta, non busserò contro tutti i cocomeri per trovare quello migliore, maturo al punto giusto, anche perché non ho mai capito e probabilmente mai capirò che suono fa un cocomero buono.
Se, al mercato, sul treno, sull’autobus, in coda alla posta, in coda dal dottore, incontrerò qualche mia amica, non inizierò con i resoconti tipo bollettino di guerra, su chi è morto questa settimana e come, su chi si è sentito male ed è stato ricoverato. Non informerò il mondo che mi circonda sulla salute mia e dei miei familiari, non descriverò a tutte le persone che condividono il mio spazio i dettagli più raccapriccianti delle malattie che ho avuto.
In luoghi pubblici, dove altri sono costretti a sentire i miei sproloqui, non lancerò critiche generiche sulle generazioni che mi seguiranno, della serie “… i giovani di oggi non sono buoni a niente, non capiscono niente eccetera”, salvo poi, un attimo dopo, decantare le fantastiche doti della mia nipotina (ammesso che ne abbia mai una), che è la prima della classe, è la più brava della scuola di danza e le hanno assegnato il ruolo da protagonista nel saggio di Natale, suona il violoncello e ha vinto il titolo di Piccola Miss del quartiere.
Non prenderò l’autobus per andare al mercato nell’orario di spostamento dei pendolari. Che cavolo ci andrei a fare, alle otto e mezzo di mattina, al mercato? Potrei benissimo andarci alle dieci quando i pendolari sono già al lavoro, no?
Non salirò sull’autobus con il carrellino pieno zeppo di spesa, pretendendo di andare a sedere nel posto più distante da me.
Non brontolerò continuamente, rivolta alla ragazza di colore vistosamente incinta e con un bimbo piccolo in collo, che “… questi stranieri sono proprio maleducati, non lasciano il posto a sedere alle persone anziane, vorrei vedere se lo facessero nel loro paese… ” e discorsi qualunquisti/razzisti di questo genere.
Ma soprattutto, non mi alzerò dal mio posto a sedere, ottenuto facendo valere i miei diritti di anzianità su un povero studente assonnato, sette fermate prima della mia, che poi è anche il capolinea dove scendono tutti, spingendo, calpestando, molestando i poveri passeggeri appesi ai supporti in modo precario e pressati come in una scatola di sardine, gridando ogni volta, nelle orecchie del malcapitato “Scende alla prossima lei? Si può spostare un pochinino? C’è gente che deve scendere! Oh! Non si spostano mica sai…”, per poi centrare, con il mezzo tacco della scarpa sinistra, di cuoio nero con una bella fibbia dorata, molto bon-ton devo dire, l’alluce destro di una povera pendolare, appena arrivata con il treno, rovinandole l’inizio della giornata.
E per finire, la gita delle medie!!!
Alcune pagine fa, in un post intitolato “Ah, come vorrei che fosse sempre così”, ho raccontato di una mattinata speciale, con il treno in orario, i pendolari quieti e pure simpatici, l’aria primaverile, insomma, una favola. Fossi un regista e dovessi realizzarci un film, per questa scena sceglierei delle luci color pastello e un’atmosfera leggermente sfocata, un po’ onirica. Perché di questo si è trattato: di un sogno. La realtà quotidiana, purtroppo, è ben diversa.
Oggi è uno dei giorni in cui devo effettuare, per il rientro, di un cambio treno nella stazione centrale della mia città, con un margine di tempo risicatissimo di otto minuti teorici. Ovviamente, per la legge di Murphy, il primo treno accumula durante il viaggio i suoi consueti, direi quasi fisiologici, sei-sette minuti di ritardo e arriva, sbuffando accaldato come i suoi passeggeri, al binario sedici. L’altro treno che devo prendere parte al binario uno, dalla parte opposta. Lo so che non ho speranze di prenderlo, ma tento ugualmente lo scatto. Ma devo desistere presto perché, davanti a me, si sta avvicinando minaccioso un gigantesco gruppo di bambini, tutti con dei cappellini colorati di blu e arancione, tenuti insieme da alcuni insegnanti che si muovono minacciosi e nervosi nel tentativo di tenerli uniti. Mi ricordano i cani pastori alle prese con un gregge un po’ troppo ribelle.
Non ci sono vie d’uscita alternative: come i salmoni, devo risalire la corrente. Ci riesco con fatica, ma purtroppo quando arrivo al binario uno riesco a vedere solo la coda del treno che sparisce all’orizzonte. Devo aspettare un’ora per il prossimo. Ma tutto sommato è presto, è una bella giornata, ne approfitto per fare una breve passeggiata in centro. Torno alla stazione con un buon anticipo, il treno è già lì che mi aspetta. Scelgo la carrozza in modo da minimizzare, all’arrivo, la distanza tra il punto in cui scenderò e l’ingresso al sottopassaggio (ecco, questa è una delle manie che mi sono venute dopo un po’ di pendolarismo). Salgo, ancora non c’è quasi nessuno, scelgo il posto, mi siedo. La pacchia dura poco: un signore con la divisa di Trenitalia m’invita cortesemente a cambiare di posto perché quella carrozza è stata prenotata. Invece di attraversare il treno, scendo e torno sul marciapiede. La carrozza adiacente non va bene, è di prima classe, devo salire su quella successiva, che ha una delle porte bloccate. Raggiungo l’altra porta, evidentemente è quella accanto alla toilette, poiché, proprio mentre sto per salire, qualche simpaticone tira lo scarico del wc investendo il binario sottostante con uno scroscio di acqua tutt’altro che limpido, che per poco non colpisce anche le mie scarpe. Finalmente trovo un posto in cui sedermi, ci sono già alcuni passeggeri. Ma l’epopea non è finita, no, oggi non mi sono fatta mancare proprio niente. Mancano pochi minuti alla partenza quanso l’intera carrozza è invasa da un altro gruppo di ragazzi, più grandicelli di quelli di prima, probabilmente delle medie, di rientro da una gita. Mamma mia, si spostano spingendosi, sbattono da tutte le parti e soprattutto, urlano, urlano come degli ossessi. E le insegnanti, per farsi sentire, urlano più di loro, intimandoli: “VOLETE STARE ZITTI!!!!!! NON CI SIETE SOLO VOI SUL TRENO!!!!!”. Lo so, lo fanno in buona fede, ma nonostante le buone intenzioni, in realtà peggiorano ulteriormente la situazione. E la mia vicina, che sta parlando al telefono, anche lei, urla! Decibel e decibel di caos. Quando, finalmente, riesco a scendere e m’incammino verso casa, i timpani per un po’ rimangono traumatizzati, sento uno strano fruscio nelle orecchie che sparisce solo dopo una buona mezzora e una lunga, lunghissima doccia rigenerante.
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Alzarsi la mattina quaranta minuti in anticipo rispetto solito, per prendere il treno che precede quello consueto e arrivare in tempo e possibilmente non troppo trafelata a un importante appuntamento di lavoro, salvo poi vedere vanificare il tutto a causa dei quaranta minuti di ritardo accumulati per “inconvenienti al materiale rotabile” e arrivare al suddetto appuntamento appena in tempo, scapigliata e con il fiatone, non ha prezzo…. Anzi, ce l’ha: centotredici euro e cinquanta centesimi al mese per l’esattezza.
Per tutto il resto, c’è Trenitalia….
Caro compagno di viaggio…
Caro compagno di viaggio di oggi, che condividi con me quest’angusto spazio, in piedi nel vestibolo di un treno pendolari sovraffollato a causa della cancellazione del treno precedente e surriscaldato da un sole prematuramente torrido, il fato ha voluto farci incontrare, o, meglio, scontrare, e percorrere insieme un tratto della nostra esistenza. Nonostante l’intersezione tra i nostri universi sia stata breve e fugace, mi sembra già di conoscerti un po’ e posso affermare con sicurezza di non sopportarti proprio per niente. Te lo dico chiaramente, sei odioso e antipatico. Ma oggi mi sento buona e nonostante la mia avversione nei tuoi confronti, voglio scriverti questa lettera, per darti qualche consiglio per i tuoi prossimi viaggi, casomai ti capitasse di trovarti di nuovo in una situazione come quella che stiamo passando.
Innanzi tutto, se salendo sulla carrozza sei stato fortunato e la marea umana ti ha spostato in prossimità dell’unico appiglio a cui i viaggiatori si possono sostenere, ti prego, non avvinghiartici sopra come una ballerina di lap-dance, impedendone l’accesso a chiunque e lasciando tutti gli altri in balia degli scossoni a urtare uno contro l’altro, spintonandosi, calpestandosi vicendevolmente i piedi alla vana ricerca di un precario equilibrio. E se possibile regola un po’ il volume con cui discuti con il tuo collega, che a sua volta si è letteralmente seduto sul corrimano lungo le scalette, accaparrandosi e monopolizzando un altro possibile appiglio, siete solo a un metro di distanza in fondo. A me e agli altri viaggiatori stanchi, compressi e senza sostegno, mica interessa di quel progetto megalitico a cui state lavorando. Certo, ci fa piacere che stiate preparando la missione per la conquista di Marte, brevettando un metodo sicuro per la fusione fredda o combinando un’operazione finanziaria da milioni di milioni… Se non mostriamo l’interesse che meritate è perché in questo momento siamo presi da problemi contingenti di infima importanza rispetto ai vostri, tuttavia poco gradevoli: io ad esempio sono costretta a manovre da surfista e la mia vicina, nelle mie stesse condizioni, mi ha appena calpestato l’alluce con il tacco a spillo delle sue lucide decolté.
Caro compagno di viaggio, sempre tu, tu che viaggi con uno zaino che sembra la gobba di un dromedario nel deserto, il carapace di una testuggine delle Galapagos, perché non te lo togli di dosso, viste le condizioni in cui stiamo viaggiando? Non puoi perché custodisce i tuoi preziosi congegni tecnologici? Allora, per lo meno evita di spostarti ogni dieci secondi sbattendolo in faccia a tutti noi! Anche perché prendersi una i-paddata nel mento a pochi secondi di distanza dal perforamento dell’alluce non fa piacere, diciamo…
Ma siamo quasi arrivati, mio caro compagno di viaggio, o, meglio, io sono arrivata, mentre tu prosegui. Il treno si ferma, si aprono le porte, insieme a me devono scendere tante altre persone. Potresti, per una manciata di secondi, farti un pochino da parte, spostarti in quell’angolino che si è liberato, invece di startene lì impalato nel proprio davanti all’uscita, come un cactus nel deserto nel bel mezzo di una tempesta di sabbia, o come uno dei faraglioni di Capri, con il tuo zaino monolitico, che infrangi le onde di pendolari che vorrebbero scendere. E se ti chiedo “Permesso, per favore”, perdona il mio tono perentorio e irrispettoso, ma davanti a me già vedo la muraglia umana di quelli che vogliono salire e se perdo ancora solo qualche istante rischio di non scendere mai più e, oltretutto, di dovermi sorbire per altri interminabili minuti, la tua brillante eloquenza.
Ce l’ho fatta a scendere, finalmente, caro compagno di viaggio. Per oggi, e probabilmente per sempre, la nostra forzata convivenza è terminata. Ci rivedremo su qualche altro treno, chissà, forse in qualche altro posto, forse non ci incontreremo mai più. Ti saluto, caro compagno, in fondo mi stavi anche un po’ simpatico. Ora che ci penso, a volte, senza rendermene conto, ti somiglio anche un po’. E allora, buon viaggio, alla prossima.
Cavallino arrì arrò
Non è andata bene oggi al lavoro: è stata una di quelle giornate in cui va tutto storto, piena di tensione, nervosismo, telefonate, email, discussioni. Salgo nel treno che mi riporta a casa di pessimo umore e con un gran mal di testa. Come se non bastasse, per dopodomani devo finire una relazione per una conferenza e devo ancora scrivere diverse cose. Appena sistemata nello scompartimento, apro il computer e inizio a scrivere, cercando di concentrarmi più possibile.
Siamo a circa un terzo del viaggio quando sento nei sedili dietro di me una presenza insolita che mi distrae dal documento. Dallo spazio tra i due seggiolini adiacenti spunta la faccia sorridente di una bella bambina, con gli occhi vispi e una cascata di riccioli rossi. Sta indicando con le minuscole dita il mio computer e mi sta dicendo qualcosa nella misteriosa lingua dei bambini piccoli. Le sorrido e le chiedo come si chiama, lei mi fa “ciao” con la mano e risponde qualcosa d’incomprensibile.
Si sporge sempre di più verso il computer, vorrebbe raggiungere con le dita il monitor. È ormai quasi sbilanciata e sta per cadermi in collo quando la mamma la riacciuffa, rimproverandola dolcemente: “Lascia stare la signora, non vedi che sta lavorando?”
Per tutta risposta, la bambina scoppia in un pianto disperato, le sue grida acute mi sfondano i timpani e mi rintronano, come se fossi dentro una campana che qualcuno sta martellando selvaggiamente. La mamma allora, per calmarla, inizia a dondolarla e farla ballare sulle ginocchia, canticchiando canzoncine e filastrocche.
La bambina piano piano si calma, ma, nella sua lingua misteriosa, esorta la mamma a continuare nella sua performance canora. Tra le varie filastrocche di questo improvvisato repertorio, una in particolare non solo cattura la mia attenzione, ma mi catapulta indietro nel tempo di un bel po’ di anni. Io la ricordavo così:
Cavallino arrì arrò
prendi la biada che ti do
prendi i ferri che ti metto
per andare a San Galletto
a San Galletto c’è una via
che ti porta a casa mia…
Era una delle filastrocche che mia nonna Rosa ci cantava (a me, ai miei fratelli e ai miei cugini) per farci stare buoni quando avevamo più o meno l’età di quella bambina. Era davvero da tanto tempo che non la sentivo! Che sensazione strana, e quanti ricordi riaffiorano nella mia mente! Chiudo il computer, basta, fino a domani non voglio ripensare ai problemi e alle scadenze.
Il treno rallenta, sto arrivando a destinazione. Prendo la borsa e il giubbotto e mi preparo a scendere. M’incammino verso casa, è un bel pomeriggio sereno e delle placide nuvole bianche solcano un cielo che, dopo tutti i giorni di pioggia passati, è di un meraviglioso color turchese. Ho ancora un bel mal di testa, ma l’umore va decisamente migliorando… a volte basta veramente poco per sentirsi meglio!
Il sabato del pendolare
La donzelletta vien dalla stazione
in sul calar del sole…
Con mezzora di ritardo.
E alla fine è arrivato anche un altro venerdì sera. Nonostante il consueto ritardo finalmente sono a casa. Anche questa settimana, che sembrava interminabile, è finita.
Come ogni lunedì era iniziata con il trauma della sveglia la mattina, la corsa alla stazione, la delusione per il ritardo mattiniero del treno (“Maledizione… Potevo dormire un quarto d’ora in più!”), il viaggio strapazzato, la corsa verso l’ufficio, le email, le scadenze, le relazioni da rileggere, le mille cose da fare e da rifare, i caffè frettolosi, le riunioni noiose, la seconda corsa alla stazione, il viaggio di ritorno strapazzato, il passaggio a livello bloccato che ferma il treno per venti minuti, finalmente a casa, la cena a base di surgelati pronti in dieci minuti, un po’ di televisione, mamma mia che sonno, a letto, che domattina si riparte.
Lunedì… martedì… mercoledì… giovedì…
E arriva il venerdì, la settimana pendolare si chiude e inizia il weekend, con le sue speranze e il suo carico di aspettative. E’ già un paio di giorni che è nell’aria e le quotidiane chiacchierate con i colleghi hanno spesso come oggetto: ”Allora, che fai questo fine settimana? Noi si va… bla bla bla bla…”. Io di solito non ho mai programmi troppo complicati, il mio obiettivo è riposarmi e riprendere fiato.
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia…
Finalmente avrò un po’ di tempo per me stessa, potrò… che ne so, andare al cinema, fare una bella passeggiata al sole, visitare quella bella mostra in centro, ascoltare quel bel disco che mi hanno regalato…
Sabato mattina la sveglia tace, ma mi sveglio lo stesso alle sei, per l’abitudine. Mi ostino a rimanere a letto fino alle otto e mezzo. Quando mi alzo, mi sento un po’ in colpa. Ancora in pigiama, gironzolo un po’ per casa, non sono abituata a vederla con la luce naturale del giorno, ci sono un sacco di cose da fare e sono già le nove. Il sabato mattina passa “a fare le faccende”, come diceva la mia nonna: pulizie dappertutto, caricare la lavatrice, tendere i panni e infine, come nei videogiochi, il mostro finale, il ferro da stiro. Per rimettermi in pari da tutte le incombenze domestiche non mi basta la mattinata del sabato e sconfino inesorabilmente nel pomeriggio. Un attimo, che ore sono? Di già? Ma è tardissimo! Abbiamo fissato di trovarci con degli amici a cena, devo ancora fare la doccia, lavarmi i capelli e vestirmi… La serata è piacevole, il locale è carino, i nostri amici hanno un sacco di cose da raccontarci, ma io verso le nove e mezzo inizio già a sbadigliare. Il maledetto orologio biologico del pendolare, anche il sabato sera vuole dire la sua. Mi sforzo di rimanere sveglia, cerco di dissimulare il sonno, con notevole sforzo resisto fino a fine serata.
La domenica mattina, tipicamente soffro una specie di jet-lag, con mal di testa, sonnolenza e umore grigio. Le condizioni non migliorano a pranzo, sempre dai genitori, con l’irruzione frequente di qualche parente che, non vedendoti da tanto tempo, si sente in dovere di farti il terzo grado. Si arriva alla domenica pomeriggio, ormai
…tristezza e noia
recan l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier fa ritorno…
Avevo voglia di andare a fare una passeggiata in centro e visitare la mostra, che sta anche per finire, ma il tempo è brutto e minaccia di piovere. La tentazione di rimanere in casa a poltrire sul divano è davvero forte. Per oggi ce la faccio a resistere: prendo l’ombrello ed esco.
E arriva veloce, troppo veloce, la domenica sera, cena leggera (dopo il pranzo dai genitori ho calorie sufficienti fino almeno a mercoledì) e a letto presto, che domattina alle sei e dieci si riparte! Menomale!