Il blogger pendolare nella Tesi di Foxcola

Il blogger pendolare analizza i propri compagni di viaggio e lo racconta nel blog… ma se qualcuno analizzasse i pendolari blogger? 😀

PENDOLANTE

Foxcola è blogger, è pendolare, è capo treno. Ed è anche l’autrice di una Tesi di Laurea che ha coinvolto noi tutti blogger pendolari. Foxcola partendo dalle Interviste Pendolanti, ha tracciato un nostro profilo.  Ne riporto alcuni stralci, sperando di aver colto

Il pendolare-blogger

[…] è emersa la figura di grande interesse del Pendolare-Blogger, portavoce del consumatore e strumento di risonanza del passaparola. I blog sul pendolarismo sono dei veri e propri contenitori stracolmi di impressioni, considerazioni, sensazioni, ricordi e istantanee; i racconti sono intrisi di percezioni, di immagini mentali, in altre parole, di quella che abbiamo identificato come esperienza […]
Ma chi è l’autore di questo tipo di blog? […]
La prima costante che salta agli occhi confrontando le 16 interviste è che si tratta di persone con un livello culturale medio-alto, che hanno una naturale attitudine alla scrittura e a cui piace leggere. Sono quasi tutti pendolari per lavoro e la maggior…

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Mi raccomando, chiama Massimo!

E’ lunedì, il cielo è grigio, cade una pioggerella leggera, troppo leggera per aprire l’ombrello, ma sufficiente per inumidire i miei capelli e renderli orrendi. La sveglia è suonata con troppa irruenza, sono ancora sotto shock, il caffè che ho preso a colazione non ha fatto alcun effetto. Ho due occhiaie che mi rendono simile a un panda. L’umore è dello stesso colore del cielo: grigio.

Alla stazione, cerco di evitare qualsiasi interazione con altre forme di vita pendolare. Non ho voglia di mettermi a chiacchierare, di sentir raccontare cosa hanno fatto nel fine settimana i miei compagni di viaggio, non ho voglia di discutere del meteo o delle recenti vicende politiche, di imparare nuove gustosissime ricette, di lamentarmi dei ritardi dei treni.  All’arrivo del Regionale Veloce, studio accuratamente il flusso di persone e scelgo la carrozza più lontana, di solito più vuota delle altre.

Lo so, lo so, sono antipatica, stamani, e allora? Avete qualcosa da ridire in proposito?

Per fortuna lo scompartimento è quasi deserto, saremo in tutto sette o otto, non di più. Scelgo il posto in fondo, in modo da non avere vicini accanto o davanti. Il viaggiatore più prossimo è seduto più avanti, sulla destra. Dal mio posto vedo solo le sue gambe accavallate e il quotidiano che sta leggendo. Bene, si preannuncia un viaggio tranquillo. Prendo il libro dalla borsa, cerco il punto dove sono arrivata e inizio a leggere.

Arrivata alla fine del capitolo, alzo per un attimo lo sguardo e noto che il mio vicino  ha posato il quotidiano sul sedile davanti a lui, utilizzandolo per distendere le gambe ed evitare di posare le scarpe sulla seduta. Sembra essere proprio comodo. Gli arti inferiori sono mollemente incrociati all’altezza delle caviglie, le punte dei piedi e delle ginocchia sporgono in fuori, il bacino è scivolato in avanti. Indossa un paio di scarpe di cuoio nero, non nuove ma curate, strette da due lacci sottili, un paio di pantaloni scuri, ma non troppo eleganti. La posa rilassata li ha fatti risalire un poco, rivelando, sotto, un paio di calzini di colore bordeaux e di lunghezza insufficiente,  e un paio di centimetri almeno degli stinchi villosi.

Riprendo la lettura, anche se per poco: sono circa a metà della seconda pagina del nuovo capitolo quando una fastidiosa musichina richiama brutalmente la mia attenzione. È la suoneria del cellulare del mio vicino. Che, con molta calma, sufficiente a sviluppare completamente il tema melodico, si accinge a rispondere. La conversazione si svolge con un livello di emissione acustica simile alla suoneria.

“…”

“Vi siete sentiti poi ieri sera?”

“…”

“Mi ha detto che ti chiamava, ti ha chiamato?”

“…”

“Ah, l’hai chiamato tu? E che cosa ti ha detto?”

“…”

“Ah, ho capito, e poi?”

“…”

“Giusto, io però prima sentirei anche Massimo.”

“…”

“Sì, hai ragione, ma chiama anche Massimo, prima!”

“…”

“Sì, sì, ma Massimo lo sa sicuramente…”

“…”

“No, no, lui lo sa, sono sicuro, lo ha finito la settimana scorsa…”

“…”

“Ho capito, ma io sentirei anche Massimo, prima…”

“…”

“Non ce l’hai il numero di Massimo? Aspetta, te lo do io!”

“…”

“…”

“… aspetta, non lo trovo Marco, Matteo, Massimo, ma questo non è quel massimo lì, aspetta, Massimo… Massimo… forse è questo… no…”

“…”

“…”

“Eccolo, ci sei? Allora, tre-tre-otto…”

“…”

“Prego, mi raccomando, chiamalo, Massimo, senti lui come ha fatto, vedrai che te lo dice!”

“…”

“Comunque se vuoi stare tranquillo senti Massimo, te lo dico, io!”

“…”

“…”

“Vai, ci sentiamo dopo, ciao!”

“…”

“Ciao!”

Lo scompartimento torna in una quiete ovattata, in sottofondo si sente solo lo sferragliare delle ruote sui binari e saltuariamente la voce dell’altoparlante che ci ricorda di convalidare il titolo di viaggio. Dalla postazione del mio vicino, adesso, arrivano pochi, sommessi rumori: il click della chiusura della borsa, seguito dal fruscio di un sacchetto di carta e quindi da un piacevole profumo di mandarini. Riprendo la lettura. Vado avanti ancora tre pagine e poi riecco l’ormai familiare musichetta da cellulare.

“Pronto?”

Risponde il mio vicino, con la voce un po’ impastata, poiché, nonostante stia parlando al cellulare, non smette di mangiare i suoi mandarini.

“…”

“Ah, e che ti ha detto Massimo?”

“…”

“…”

“…”

“Lo sapevo, Massimo è una garanzia!”

“…”

“Visto? Hai fatto bene a chiamarlo!”

“…”

“Ok, va bene, fammi sapere come va, poi! Ci sentiamo, ciao!”

Continuo a leggere, questa volta mi concentro di più. Solo quando sono quasi arrivata mi accorgo che il mio compagno di viaggio è già sceso, in una delle fermate intermedie.

Esco dalla stazione, m’incammino verso l’uscita. Ho ancora sonno, ma l’umore è un po’ migliorato.

Perché adesso so che, qualsiasi cosa mi capiterà oggi, ho già pronta la soluzione: chiamerò Massimo!

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Buon inizio settimana, Pendolo!

Come ogni primo giorno del mese lavorativo, Pendolo partì di casa quindici minuti prima del solito per recarsi alla stazione: quella mattina doveva rinnovare l’abbonamento. Alla biglietteria c’era una bella coda, decise quindi di mettere da parte la sua innata avversione nei confronti di tutti i congegni tecnologici e di affrontare una delle due temutissime macchinette automatiche. A dire il vero la fila era tutta alla biglietteria umana, non c’era nessuno alle macchinette e questo già sarebbe bastato a qualsiasi pendolare con un minimo di esperienza a far venire almeno un leggero sospetto… Ma i due dispositivi erano accesi, su entrambi appariva un invitante messaggio di benvenuto e non c’erano avvisi o segnali particolari, quindi, di che doveva aver paura? Se fossero state guaste, se ci fossero stati problemi di qualsiasi tipo, lo avrebbero segnalato, no? Ahimè, il buon Pendolo era un inguaribile ottimista e confidava sempre nella fortuna, nella buona fede e nella buona volontà altrui, specialmente di lunedì mattina.

Alla macchinetta, selezionò con cura la stazione di partenza e quella di arrivo, specificò cognome, nome e data di nascita. La macchinetta, senza fare tanti complimenti, gli chiese subito di pagare la consistente gabella mensile. Selezionò la modalità di pagamento con bancomat, al che il freddo marchingegno ordinò, con voce decisa: “Inserire la carta!”. Pendolo eseguì il comando, un po’ timoroso. Uno strano rumore di aggeggi meccanici che sbattevano tra loro, frammisto a un poco rassicurante ronzio elettrico, iniziò a uscire dalla fessura dove aveva inserito la tesserina magnetica. Dopo qualche istante, la voce imperiosa ordinò: “Estrarre la carta!” Pendolo, di nuovo, obbedì. Per fortuna la tesserina magnetica era ancora integra. Non era ancora passata una frazione di secondo che l’odiosa macchinetta ordinò: “Inserire la carta!” E lui, scattando sull’attenti come al comando di un ufficiale, obbedì. Di nuovo, si ripeté lo strano rumore meccanico, come di denti  metallici intenti a masticare un pezzo di plastica, e di nuovo, l’irrazionale ordine: “Estrarre la carta!”

Dietro di lui si era intanto formata una piccola coda, capeggiata da un turista straniero, magrolino e piccoletto, dall’incredibile somiglianza con Einstein, che ballonzolava avanti e indietro, nervoso, e commentava: “Iz leit, iz leit, de ticchet, ai nid de ticchet!”.

Un altro tentativo ancora, ma niente, la macchinetta non ne voleva sapere della tesserina magnetica del povero Pendolo. Alla terza iterazione inserire/estrarre la carta, si rassegnò all’idea che quella macchinetta fosse guasta e si decise a provare l’unica altra disponibile. Ma le persone che stavano dietro di lui avevano avuto la stessa idea una frazione di secondo prima e tutta la coda si era già spostata in modo monolitico, così che il povero Pendolo si ritrovò  all’ultimo posto della fila, a pochi minuti dalla partenza del suo treno.

Era il turno del turista sosia dello scienziato, anche lui era in palese difficoltà, probabilmente aggravata dal suo essere straniero e dalla poca confidenza con le ribelli macchinette italiche. Continuava a inserire e disinserire velocemente una tesserina magnetica dorata, brontolando nervosamente “Iddasen uok, iddasen uok” per poi guardarsi intorno, preoccupato, “ueris di ader, ueris di ader”. Pendolo iniziava a temere seriamente di perdere il treno, guardando il tabellone si accorse infatti che era iniziata a lampeggiare la lucina che indicava l’imminente partenza.

I minuti successivi gli sembrarono lunghi quanto secoli. Un signore in giacca e cravatta si offrì di aiutare l’inesperto turista;  in due, tentando di dialogare tra loro in una strana lingua, ce la fecero a stampare l’agognato biglietto. Dopo il turista toccava a una ragazza con un ciuffo viola e le unghie variopinte, troppo lunghe per poter interagire per bene con il touch screen della macchinetta: ci mise un bel po’ a stampare l’abbonamento. Era poi il turno del suddetto signore in giacca e cravatta, che si era già dimostrato un pendolare esperto e per fortuna impiegò pochissimo tempo, poi toccava a uno studente con il cavallo dei pantaloni pericolosamente basso e un paio di cuffie gigantesche alle orecchie, da cui filtravano inconfondibili note distorte heavy metal…

Alla fine anche Pendolo ce la fece a raggiungere la testa della fila. Al primo tentativo l’algoritmo s’inceppò sulla selezione della stazione di arrivo, fissandosi per lunghi, lunghissimi istanti, su un’insopportabile schermata con su scritto “Attendere, prego”, per poi resettarsi all’improvviso. Pendolo ormai aveva perso il proverbiale buonumore mattutino, sostituito da un desiderio irrefrenabile di sfasciare quel marchingegno maledetto a colpi di spranga. Trovò tuttavia la forza di resistere e riprovò con più attenzione, tenendo a fatica a bada il fascio dei suoi nervi imbizzarriti. Ogni volta che toccava il touch screen per selezionare le varie opzioni, lo faceva ormai con cattiveria e violenza, come se il suo dito indice fosse il coltello di un efferato assassino che infieriva sulla sua vittima. Finalmente, brontolando, sferragliando, recalcitrando, la dannata macchinetta, offesa, ferita, stizzita, sputò disgustata l’agognato pezzetto di cartoncino mensile.

La lucina sul tabellone continuava a lampeggiare, c’era un tenue barlume di speranza di poter prendere il treno. Pendolo si fiondò sulle scale del sottopassaggio, scendendo e poi risalendo i gradini a due a due, aiutandosi anche con le braccia, con la grazia di un gibbone in fuga nella foresta. Quando riemerse dal sottopassaggio, fece appena in tempo a vedere la coda del treno sparire, dietro la curva appena fuori dalla stazione. Dal finestrino dell’ultimo vagone gli sembrò persino di vedere un ghigno soddisfatto sul volto del capotreno, ma forse quella era solo un’impressione.

Tanta fatica per niente, aveva perso il treno e ora doveva aspettare per quaranta minuti quello successivo. Che ovviamente arrivò in ritardo. Ritardo sul ritardo, ritardo al quadrato, all’ennesima potenza, anzi, ritardo esponenziale. Al lavoro lo aspettava di sicuro una bella ramanzina da parte del suo capo… Ed era pure iniziato a piovere… E non aveva nemmeno l’ombrello… E faceva un gran freddo, lì, sul binario, ad aspettare… Ed era solo lunedì.

Da qualche parte, oltre l’arcobaleno

Pendolo partì di casa, come ogni giovedì mattina, alle sette e mezzo. Chiuse la porta con le solite tre mandate e s’incamminò verso la stazione. Lì avrebbe preso il treno che lo avrebbe portato a Cittàgrande, dove lavorava allo sportello dell’ufficio reclami di un Grande Magazzino specializzato nella vendita di elettrodomestici di tutti i tipi. Come ogni mattina lo aspettavano un sacco di clienti inferociti, già s’immaginava, sarebbe ritornato per l’ennesima volta il tizio arrogante a cui non funzionava l’aspirapolvere, ne aveva già comprati tre modelli (ma cosa ci faceva, quello lì, con gli aspirapolvere, vallo a sapere), e poi la signora in lacrime perché la lavatrice nuova si era mangiata il suo maglione preferito, e la ragazza un po’ svampita, in crisi perché il forno a microonde non dava segni di vita dopo appena una settimana dall’acquisto, e così via. Non che lui si intendesse di elettronica, anzi,  le cose tecnologiche non lo avevano mai interessato particolarmente. Probabilmente quel posto di lavoro lo aveva ottenuto più per la pazienza e la capacità di rimanere impassibile di fronte alle scenate e offese dei clienti inferociti che per le sue effettive competenze. Ma, in questi tempi di crisi era bene tenerselo stretto, il lavoro, anche se non era proprio quello a cui aspirava.

Uscendo dal cancello del giardino, quel giovedì mattina, notò una luce strana: stava piovendo, il cielo era scuro, ma le strade, le case, erano insolitamente luminose. Alzando lo sguardo, rimase sorpreso da uno spettacolo inconsueto. Un gigantesco e brillante arcobaleno attraversava il cielo da nord a sud, un arco perfetto e completo, con tutti i colori dell’iride: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. Che bellezza! Uno così perfetto, erano anni che non ne vedeva, a pensarci bene, forse, non ne aveva mai visto.

È un segno, pensò. Decise di andare a vedere dove andava a finire, invece di andare al lavoro, non sembrava molto lontano. Nella peggiore delle ipotesi avrebbe preso il treno dopo e sarebbe arrivato in ritardo, il direttore del Grande Magazzino gli avrebbe fatto una bella ramanzina, ma, tanto, lavorando all’ufficio reclami, c’era abituato. Se fosse stato fortunato, invece, magari avrebbe potuto trovare la leggendaria pentola d’oro nascosta dal folletto, di cui aveva sentito raccontare quando era piccino.

Invece di andare alla stazione, si diresse verso sud, dove l’arcobaleno sembrava più vicino. Camminava con il naso all’insù, ignaro degli ostacoli che avrebbe trovato.

Attraversò la strada davanti a casa senza guardare, per poco non venne investito da un tizio in motorino che gli lanciò una sfilza di accidenti.

Proseguì sul marciapiede, dopo pochi passi si scontrò con una signora canuta con un paio di spessi occhiali da vista, che stava andando a fare la spesa. “E stia attento!”, brontolò. Se ne andò borbottando contro i giovani di oggi che non hanno rispetto delle persone anziane.

Attraversò la piazzetta, per fortuna senza intoppi, ed entrò nei giardini pubblici. Andava spedito, perché sapeva che l’arcobaleno non dura molto e gli sembrava che stesse iniziando a sbiadire un po’ nella parte centrale. A un certo punto sentì un “ciak”. No, purtroppo non era quello di un regista che dava il via alle riprese di un film con protagonista la sua attrice preferita. Era invece il rumore della sua scarpa sinistra che si scontrava con la cacca di un cane. Era gigantesca! Il produttore sicuramente era stato quel sanbernardo dei suoi vicini di casa. E, a giudicare dalla consistenza e dall’odore, doveva essere fresca di giornata. Maledizione, pensò, ma poi si ricordò che porta fortuna. Mentre si puliva alla meglio con un fazzolettino di carta, continuava a ripetersi: “E’ un altro segno, oggi deve essere la mia giornata fortunata”.

L’arcobaleno era sempre più sbiadito, doveva sbrigarsi. Riprese il cammino a passo spedito, continuando a guardare ancora per aria, invece che di fronte a sé, nonostante tutto quello che gli era successo. E infatti dopo pochi metri si andò a scontrare con un alberello dal tronco sottile ma la chioma folta, ancora piena di foglie colorate, anche se eravamo quasi alla fine di novembre. L’alberello tremò per la botta e si scrollò di dosso tutte le goccioline di pioggia cadute nella notte, facendo al nostro Pendolo una bella doccia.

Nemmeno questo lo fece desistere, continuò imperterrito a inseguire l’arcobaleno attraverso stradine, vialetti, scale. Gli sembrava di aver percorso un bel po’ di chilometri e che fosse passato un sacco di tempo, quando finalmente arrivò alla meta. Dell’arcobaleno era rimasto solo un piccolo spicchio e in fondo c’era… il treno per Cittàgrande in partenza dal binario tre! Non si era accorto che tutto il suo tragitto lo aveva portato dove si recava ogni mattina, sulla banchina della stazione.

Sulla panchina, un bambino suonava un motivetto allegro con un flauto di Pan. Guardandolo bene, quel bambino aveva la barba lunga e il viso pieno di rughe. Vedendo Pendolo, smise di suonare e si mise a ridere sguaiatamente. “Sei il folletto della pentola, vero? Dove l’hai nascosta?” E il piccoletto, riuscendo a fatica a calmarsi dalle risate, “Ti ho fregato, era dall’altra parte dell’arcobaleno!”

Era troppo deluso per mettersi a discutere, con un folletto poi. Se lo avesse visto qualcuno, lo avrebbe preso per pazzo. Pendolo rinunciò alla pentola d’oro, si godette ancora per qualche istante l’ultimo spicchio di arcobaleno rimasto e salì sul treno, pronto come ogni mattina ad affrontare la consueta sfilza di reclami e lamentele.

Il sabato del pendolare

La donzelletta vien dalla stazione

in sul calar del sole…

Con mezzora di ritardo.

 

E alla fine è arrivato anche un altro venerdì sera. Nonostante il consueto ritardo finalmente sono a casa. Anche questa settimana, che sembrava interminabile, è finita.

Come ogni lunedì era iniziata con il trauma della sveglia la mattina, la corsa alla stazione, la delusione per il ritardo mattiniero del treno (“Maledizione… Potevo dormire un quarto d’ora in più!”), il viaggio strapazzato, la corsa verso l’ufficio, le email, le scadenze, le relazioni da rileggere, le mille cose da fare e da rifare, i caffè frettolosi, le riunioni noiose, la seconda corsa alla stazione, il viaggio di ritorno strapazzato, il passaggio a livello bloccato che ferma il treno per venti minuti, finalmente a casa, la cena a base di surgelati pronti in dieci minuti, un po’ di televisione, mamma mia che sonno, a letto, che domattina si riparte.

Lunedì… martedì… mercoledì… giovedì…

E arriva il venerdì, la settimana pendolare si chiude e inizia il weekend, con le sue speranze e il suo carico di aspettative. E’ già un paio di giorni che è nell’aria e le quotidiane chiacchierate con i colleghi hanno spesso come oggetto: ”Allora, che fai questo fine settimana? Noi si va… bla bla bla bla…”. Io di solito non ho mai programmi troppo complicati, il mio obiettivo è riposarmi e riprendere fiato.

 

Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia…

Finalmente avrò un po’ di tempo per me stessa, potrò… che ne so, andare al cinema, fare una bella passeggiata al sole, visitare quella bella mostra in centro, ascoltare quel bel disco che mi hanno regalato…

Sabato mattina la sveglia tace, ma mi sveglio lo stesso alle sei, per l’abitudine. Mi ostino a rimanere a letto fino alle otto e mezzo. Quando mi alzo, mi sento un po’ in colpa. Ancora in pigiama, gironzolo un po’ per casa, non sono abituata a vederla con la luce naturale del giorno, ci sono un sacco di cose da fare e sono già le nove. Il sabato mattina passa “a fare le faccende”, come diceva la mia nonna: pulizie dappertutto, caricare la lavatrice, tendere i panni e infine, come nei videogiochi, il mostro finale, il ferro da stiro. Per rimettermi in pari da tutte le incombenze domestiche non mi basta la mattinata del sabato e sconfino inesorabilmente nel pomeriggio. Un attimo, che ore sono? Di già? Ma è tardissimo! Abbiamo fissato di trovarci con degli amici a cena, devo ancora fare la doccia, lavarmi i capelli e vestirmi… La serata è piacevole, il locale è carino, i nostri amici hanno un sacco di cose da raccontarci, ma io verso le nove e mezzo inizio già a sbadigliare. Il maledetto orologio biologico del pendolare, anche il sabato sera vuole dire la sua. Mi sforzo di rimanere sveglia, cerco di dissimulare il sonno, con notevole sforzo resisto fino a fine serata.

La domenica mattina, tipicamente soffro una specie di jet-lag, con mal di testa, sonnolenza e umore grigio. Le condizioni non migliorano a pranzo, sempre dai genitori, con l’irruzione frequente di qualche parente che, non vedendoti da tanto tempo, si sente in dovere di farti il terzo grado. Si arriva alla domenica pomeriggio, ormai

…tristezza e noia
recan l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier fa ritorno…

Avevo voglia di andare a fare una passeggiata in centro e visitare la mostra, che sta anche per finire, ma il tempo è brutto e minaccia di piovere.  La tentazione di rimanere in casa a poltrire sul divano è davvero forte. Per oggi ce la faccio a resistere: prendo l’ombrello ed esco.

E arriva veloce, troppo veloce, la domenica sera, cena leggera (dopo il pranzo dai genitori ho calorie sufficienti fino almeno a mercoledì) e a letto presto, che domattina alle sei e dieci si riparte! Menomale!

2012-08-15 11.07.24

Giocatori pendolari sfortunati

Ci risiamo. Dopo aver amorevolmente allevato un animalino virtuale in Pet Society, coltivato una rigogliosa fattoria a Farmville e costruito un sontuoso maniero a Castelville, sono ricaduta un’altra volta nella spirale perditempo dei “giochini sociali” (per chi non li conosce, quelli che ho nominato sono dei giochini di Facebook in cui ti ricrei una specie di ambiente virtuale e puoi andare a visitare gli ambienti creati dai tuoi amici, che per l’occasione diventano “vicini” di casa, fattoria, castello ecc.). Questa è la volta dell’ormai universalmente diffuso Ruzzle, di cui ha parlato anche Ilaria in questo suo post. L’ho installato nei giorni passati a casa con l’influenza e mi ci sono un po’ fissata, anche se adesso devo dire che la fase acuta dell’intossicazione è passata. Perché, a onore del vero, pur essendo abbastanza vulnerabile a cadere nella tentazione, a me queste passioni ludiche non durano poi molto, per fortuna. Chissà che fine avrà fatto l’animalino di Pet Society, sarà morto di stenti? E la fattoria di Farmville sarà infestata da erbacce e sterpaglie, mentre il maniero di Castelville starà ormai cadendo in rovina…

Scusate… è appena arrivato il messaggino che mi avverte che un mio amico  vuole sfidarmi a Ruzzle… devo andare… ok, ok, prima finisco il post!

Insomma, ancora non mi è passata, ma ha i giorni contati… Spero… E poi non è mica vero che è il passatempo ideale per il pendolare: a me, per esempio, giocare durante il viaggio, invece di rilassare, innervosisce. Il consueto stress del pendolare si somma alla sottile ansia della competizione, il giochino si insinua nei ritmi e nelle dinamiche del viaggio quotidiano, da un lato condizionandolo, ma anche subendone gli immancabili imprevisti.

Ecco quindi una serie di corollari della legge di Murphy applicabili ai pendolari giocatori di Ruzzle, dimostrati dalla mia seppur breve esperienza personale:

  1. Se aspetti che il treno arrivi prima di iniziare la partita a Ruzzle, il treno non arriverà.
  2. Se, preso dallo sconforto, inizierai la partita, il treno arriverà e dovrai interromperla sul più bello per salire.
  3. Se sei alla stazione e il treno che stai aspettando ha molto ritardo, per qualche motivo non ci sarà il segnale per il cellulare e non potrai giocare.
  4. Se sei sul treno, stai giocando e vincendo una partita a Ruzzle, passerà il controllore e dovrai interromperla.
  5. Se stai perdendo una partita, non passerà nessuno a chiederti il biglietto e potrai perderla in tutta tranquillità.
  6. Se stai vincendo la partita, il treno accelererà e arriverà a destinazione prima che tu la finisca, così la dovrai interrompere per scendere.
  7. Se il treno rallenta e accumula ritardo, lo farà in un punto della linea dove non c’è segnale e non potrai giocare a Ruzzle per passare il tempo.
  8. Se stai vincendo una partita il cellulare si scaricherà e si spegnerà, non avrai con te il cavetto per ricaricarlo e dovrai aspettare l’arrivo per vedere come va a finire.
  9. Se ti sposti in disparte sulla banchina per concentrarti in vista del terzo round a Ruzzle contro il tuo acerrimo avversario, inizierà a piovere e dovrai tornare di corsa sotto la pensilina, in mezzo alla calca.
  10. In tutti questi casi il tuo avversario a Ruzzle sarà comodamente seduto sul divano di casa, in condizioni psicofisiche ottimali per concentrarsi sul giochino, e ti sconfiggerà in modo impietoso.

 

Insomma, è chiaro che questo giochino, apparentemente un innocuo passatempo per ingannare l’attesa durante il viaggio, in realtà è fonte di tensioni, arrabbiature, corse e stress.

La conclusione? Meglio, molto meglio, un bel libro.

ruzzle

Non sopporto

Ispirata dalle prime pagine del libro di Paolo Sorrentino che sto leggendo (Hanno tutti ragione, Universale Economica Feltrinelli), stanca, stressata e desiderosa di ferie, voglio fare un elenco delle cose che non sopporto della mia vita da pendolare.

Quindi, oggi eccomi in versione Puffo Brontolone.

Non sopporto i treni affollati, dover smettere di leggere per estrarre dalla borsa l’abbonamento richiesto dal controllore, quelli che mettono i piedi sul seggiolino, quelli che gettano la plastica nel contenitore della carta e viceversa, dover cambiare treno perché quello su cui sono salita è rotto, l’aria condizionata che non funziona, l’aria condizionata che funziona troppo, arrivare alla stazione e dover scendere quando mi manca mezza pagina per finire il capitolo del libro che sto leggendo, i libri con i capitoli troppo lunghi, arrivare in ritardo e non avere il tempo di prendere il caffè al bar della stazione, la gente che urla quando parla al cellulare, le suonerie dei cellulari sparate a tutto volume, assistere alla scenetta tra controllore e passeggero senza biglietto e senza documenti, i bambini che piangono, le panchine tutte occupate quando vorrei sedermi, gli scioperi il venerdì, quelli che rubano il rame, i turisti che invadono con le valigie il corridoio, scendere e risalire le scale del sottopassaggio per cambiare binario, incontrare una vecchia conoscenza (di cui non sentivo proprio la mancanza) e rischiare di perdere il treno perché questa ha da raccontarti tutto-vita-morte-miracoli degli ultimi dieci anni in cui non ci siamo visti.

Non sopporto non avere nessuno che mi aspetta alla stazione, aver voglia di scrivere ma non sapere cosa, avere qualcosa da scrivere ma non avere tempo perché bisogna scendere, ascoltare i resoconti del weekend il lunedì mattina, che pare che tutti siano stati in località meravigliose e abbiano avuto esperienze fantastiche mentre io sono dovuta rimanere a casa per rimettermi in pari con i panni da stirare, arrivare trafelata di corsa sul binario proprio quando il treno sta iniziando a muoversi e le porte sono ormai tutte chiuse, il cambio del binario all’ultimo minuto, avere pochi minuti, a volte secondi, per cambiare da un treno in arrivo al binario 1A ad uno in partenza al binario 17, quelli che prendono il Frecciarossa in orario mentre io sto aspettando la mia caffettiera con le ruote in ritardo, prendere finalmente il Frecciarossa e scoprire che il posto indicato sul biglietto acquistato ieri sera on line coincide con quello di altre due persone, di cui un turista tedesco che non capisce e che pensa che io sia la solita italiana-pizza-mandolino che vuole fregarlo, comprare un ombrello a cinque euro dai venditori ambulanti perché improvvisamente è iniziato a piovere, che si romperà sicuramente appena uscita dalla stazione.

Non sopporto l’odore di umanità che si spande nella carrozza nel tardo pomeriggio quando l’aria condizionata è rotta, i cartelli gialli alle porte rotte, lo spread e il bund, le notizie catastrofiche riportate sui giornali gratuiti distribuiti alla stazione, le mamme che brontolano i bambini che piangono, il telefono che squilla mentre mi sto preparando per scendere, i finestrini bloccati, le porte aperte delle toilette, svegliarsi di soprassalto al suono della sveglia, addormentarsi alle nove di sera davanti alla televisione per la stanchezza accumulata durante il giorno, le pareti del sottopassaggio imbrattate dalle scritte, quelli che ogni  giorno mi si avvicinano per chiedermi qualche spicciolo benedicendo la mia famiglia e raccontandomi per l’ennesima volta tutte le loro sventure, non trovare l’abbonamento nella borsa perché l’ultima volta  il controllore me l’ha chiesto appena prima di scendere e per la fretta non l’ho rimesso nel solito posto.

Non sopporto il salasso al conto corrente che devo fare ogni inizio del mese per rinnovare l’abbonamento, il caldo torrido dell’estate se non sono in ferie, bruciarsi il palato con il caffè bollente, perché sono arrivata tardi stamani, ma non troppo tardi da doverci rinunciare, la nebbia che fa svolazzare i capelli stirati ieri dal parrucchiere, l’affollamento sull’autobus, il treno in ritardo quando ho un appuntamento importante al lavoro, il treno in ritardo la sera quando devo tornare a casa, il treno in ritardo, sempre.

Non sopporto i bivacchi nella stazione, quelli che chiedono di firmare per una petizione e poi chiedono un contributo per sostenere le loro iniziative, gli adolescenti che dicono le parolacce e bestemmiano in modo raccapricciante, la gita della scuola, l’uscita degli scout con i loro zaini megalitici, la gita dei pensionati, che attaccano discorso a chiunque gli capiti a tiro, quelli che dicono “si stava meglio quando si stava peggio”, quelli che dicono che i giovani di oggi non sono buoni a niente, le coppiette di adolescenti che stanno tutto il tempo del viaggio a baciarsi, le ragazzine che passano tutto il viaggio a discutere di smalti, i professori delle scuole superiori che si lamentano dell’inadeguatezza e della maleducazione dei loro studenti.

Non sopporto gli uomini d’affari impinguinati che passano il tempo del viaggio al telefono, discutendo le loro strategie vincenti, le signore che, andando a una visita medica, ritengono opportuno informare chiunque sul loro stato di salute e sull’originalità e gravità dei loro sintomi, gli aumenti del prezzo dell’abbonamento, dimenticarsi di convalidare il biglietto, i surgelati, quelli che salgono sul treno prima di far scendere le persone che sono arrivate, quelli che si piazzano proprio davanti alla porta ostacolando chi vuole scendere, la voce della macchinetta dei biglietti che esclama a tutto volume: “inserire la carta!!!”, non avere lo spazio libero accanto per posare la borsa, l’inizio della scuola, le toilette delle stazioni, la voce dell’altoparlante che mi informa che il treno che sto aspettando “oggi non sarà effettuato, ci scusiamo per il disagio”.

Amnesie e allucinazioni mattutine

Scendo dal primo treno della mattina e, visto che è stranamente in orario, posso impiegare parte dei minuti che mancano alla partenza del secondo per prendermi un caffè. Mentre percorro il breve tragitto tra il binario e il bar della stazione, ancora tra il sonno, mi accorgo di una donna che, fissandomi, si sta dirigendo verso di me, sorridendo.

Il viso ha qualcosa di vagamente familiare, ma non lo riconosco, non riesco a ricollegarlo a un nome o a un evento, insomma, non so proprio chi sia. Mentre si avvicina, la sento pronunciare un allegro “Buongiorno!”.

Sono sempre più in crisi, che sia una vecchia compagna di scuola? Oppure, magari, dell’università? O la commessa di un negozio dove di recente ho comprato qualcosa? Niente. Buio completo. “Eccoci!” penso, “Questa è proprio una bella amnesia, sintomo di vecchiaia incipiente…”. Inizio a preoccuparmi seriamente, deve essere colpa dello stress, sto lavorando davvero troppo in questo periodo, intanto continuo a rovistare nei cassetti della memoria, tra i file del mio hard disk.

Ormai è vicina, sto per rispondere al suo saluto con un altro sorridente, anche se un po’ disorientato “Buongiorno” (non posso mica passare da maleducata o da smemorata), quando il suo sguardo si sposta verso i binari dietro di me. La donna continua a sorridere e parlare, mi raggiunge e mi oltrepassa. Guardando meglio, vedo spuntare, tra i capelli e il foulard, il filo di una cuffia, collegata a un cellulare.

Tiro un sospiro di sollievo, in realtà stava soltanto chiamando qualcuno al telefono utilizzando un auricolare e casualmente aveva guardato nella mia direzione, il suo saluto non era diretto a me! E` effettivamente una perfetta sconosciuta. Menomale, non sono impazzita e non ho perso la memoria (almeno per ora)!