Viaggio in compagnia di una famigliola chiassosa: marito, moglie, bimbo 1 e bimbo 2, di circa due e quattro anni, stimo. Marito e moglie discutono su dove sia meglio mettere il passeggino. I bambini litigano e si becchettano, mettendosi a piangere alternativamente. Mi metto a leggere, per distrarmi.
… La tua intelligenza non ha ali. Vai dietro a Comte e a tutta la sua viscida prole di ruffiani e leccapiedi. Parli della tua posizione nell’universo con una sicumera strabiliante. Dai l’impressione di pensare che un misero individuo come te possa avere una presa salda sull’Assoluto. Eppure stanotte andrai a letto e sognando darai vita a uomini, donne, bambini del passato e del futuro. Come fai a sapere che in questo istante, con tutta la boria che ti viene dal pensiero contemporaneo, non sei solo una creatura di un sogno sul futuro nella mente, poniamo, di un filosofo del Cinquecento? Come fai a sapere che non sei solo una creatura di un sogno sul passato di un hegeliano del 2500? Come fai a sapere, ragazzo, che non svanirai nel XVI o nel XXVI secolo nel momento in cui chi ti sta sognando si sveglierà?*
Il bimbo 1, non so come, si è arrampicato sullo schienale del sedile e ora incombe pericolosamente sulla mia testa. Il bimbo 2 sta gridando, cercando di imitare non so quale animale. Marito e moglie baloccano distrattamente con i rispettivi smartphone.
Mi viene da ripensare al brano appena letto. Se è vero che tutto questo è un’illusione, se è solo la proiezione di un sogno di qualcuno, nel passato o nel futuro, o in un mondo parallelo, questo “qualcuno” deve aver mangiato molto pesante, stasera a cena…
* Edward Page Mitchell, “L’orologio che andava all’indietro”, nella raccolta “Viaggi nel tempo”, pag. 119-120, edita da Einaudi.
L’estate appena iniziata sta cominciando a farsi vedere anche lungo i binari: le scuole sono finite, alcuni pendolari iniziano a manifestare qualche segno di abbronzatura, altri sono momentaneamente scomparsi, lasciando il posto a turisti variopinti, l’atmosfera è più sonnolenta e rilassata. Almeno così la vedo io, specialmente stamani che posso prendere il treno un’ora dopo il mio consueto orario pendolare. Salita sulla carrozza, mi sorprendo a trovare lo scompartimento completamente vuoto. Guardo per bene, forse c’è qualcuno, magari piccolo di statura, forse accucciato in un angolino, addormentato. No, non c’è proprio nessuno. Questo scompartimento è tutto per me. Il sogno di molte mattinate passate in piedi compressa nel vestibolo, o imprigionata nel seggiolino tra corpulenti viaggiatori pieni di valigie, si è avverato. Che bellezza, nessun grido, nessuna conversazione chiassosa, nessuna gita delle scuole elementari, nessun brontolio. Posso aprire il finestrino e godermi il vento, anche se mi scompiglia i capelli, la danza rilassata della tenda blu, che ondeggia leggera, ogni tanto si affaccia fuori, poi rientra, sbattendo mollemente sul vetro. E ancora, l’odore dei tigli in fiore, il rumore ritmico delle ruote sulle rotaie, che oggi mi sembra meno frenetico. Tutto perfetto, pare.
Eppure… Eppure non mi sento proprio a mio agio. Provo una sensazione di fastidio, una sottile inquietudine, che non mi fa stare totalmente in pace. Non sarà mica nostalgia dei ciarlieri compagni di viaggio? Delle risate sgangherate dei giovani studenti? Dei trolley che ribaltano? Cerco di leggere un po’. Un rumore improvviso mi fa trasalire. È solo la porta scorrevole dello scompartimento che, mentre il treno passava su uno scambio, si è aperta e richiusa, sbattendo. Ma questo evento fortuito, mette miei sensi in allerta, quasi inconsciamente. Stiamo arrivando a destinazione e come sempre, prima dell’ultima fermata dobbiamo attraversare una galleria abbastanza lunga. Che mi pare ancora più lunga, oggi. Le luci che illuminano il vagone mi sembrano più fioche, il buio della galleria, più buio. Sento aprire e chiudere una porta nel vagone adiacente. L’inquietudine aumenta. Passano alcuni istanti e di nuovo quel rumore, questa volta più vicino. Non è uno scambio, qualcuno si sta avvicinando. Chi vuoi che sia, cerco di tranquillizzarmi, sarà uno dei passeggeri del vagone accanto che si sta spostando, dato che là l’aria condizionata è veramente molto forte. Ma che senso ha, ora, che siamo quasi arrivati? Sarà qualcuno che sta cercando una toilette? Ma non potrebbe aspettare un paio di minuti e andare alla stazione? E se fosse un malintenzionato che vuole derubarmi e farmi del male? A chi posso chiedere aiuto, qui? E se non ci fosse più nessuno sul treno, per qualche strano motivo? Se, uno per uno, si fosse sbarazzato di tutti i miei compagni di viaggio? Si apre uno spiraglio nella porta del mio scompartimento, istintivamente prendo la borsa e l’abbraccio, come faccio a casa con il cuscino del divano quando guardo in tv i film horror. Dallo spiraglio spunta una mano, che inizia a spingere la porta. Sembra si sia incastrata nella guida. Spero quasi che sia così. Piano piano spunta un avambraccio, con un tatuaggio minaccioso e un grosso braccialetto metallico, poi una spalla. “Accidenti a queste porte!”, sento borbottare, dall’altra parte. La voce è grave, graffiata, sento odore di tabacco. La figura piano piano inizia a completarsi. Stringo ancora di più la mia borsa. Maledico il momento in cui ho scelto questo scompartimento deserto. Mai più, mi dico, piuttosto vado accanto ad Amanda Ciarlieri e alla sua amica Gianna e mi sorbisco le loro disquisizioni culinarie per tutto il viaggio. L’oscuro personaggio è davanti a me, adesso, con lo sguardo severo e le braccia incrociate. “Biglietto, prego!”… E’ solo il capotreno, per la verifica dell’abbonamento.
Contrariamente ai post precedenti, i cui protagonisti sono inventati (anche se ispirati dalla quotidiana realtà del treno pendolare), quelli di cui vi sto per raccontare li ho incontrati davvero. Eh, sì… spesso la realtà supera la fantasia.
Viaggio di ritorno in un pomeriggio autunnale ancora tiepido: sono alla stazione, lungo il binario uno, aspettando il treno per tornare a casa. Mi godo gli ultimi raggi del sole ormai basso sull’orizzonte. Intorno a me il solito brulicare di viaggiatori: chi parte, chi arriva, chi aspetta qualcuno che sta per arrivare, chi saluta qualcun altro che sta per partire, chi, semplicemente, guarda passare i treni, come il nonno in bicicletta con il nipotino.
Non mi accorgo della loro presenza fin quasi all’arrivo del treno.
“Salutate la nonna, forza, bambini!”
“Ciao nonna!”
Il gruppetto è costituito da una mamma, una nonna e due bambini intorno ai sette-otto anni, stanno aspettando lo stesso treno che prenderò io. Eccolo che arriva. Si dirigono verso la stessa porta che ho scelto io.
“Aspettate, bambini, rispettate le regole: prima si lasciano scendere i viaggiatori in arrivo, poi, quando è il nostro turno, con calma, saliamo, capito?”
Salgono appena prima di me e si dirigono verso sinistra. Io invece, per abitudine, scelgo la parte opposta del vagone, che, come al solito, è quasi vuota. Il tempo di sistemarmi nel seggiolino ed eccoli di nuovo:
“Venite di qua, che è più libero, si sta meglio.”
Si vanno a sedere nei posti a fianco al mio, dall’altra parte del corridoio. Poco male, penso, mi sembra una famigliola simpatica e, tutto sommato, tranquilla, nonostante l’aspetto vivace dei due piccoli. Non devono prendere spesso il treno, immagino, si guardano intorno pieni di curiosità e interesse, facendo un sacco di domande. La mamma, giovane e dinamica, è sempre pronta a rispondere con calma.
Riprendo la lettura del mio libro.
Dopo un po’, con la coda dell’occhio vedo i tre concentrati su un telefonino: stanno guardando delle foto, i bambini sembrano molto presi, devono essere molto interessanti.
“Mamma, cos’è questo?” chiede il più piccolo.
“Non lo riconosci? È un fegato!”, risponde la mamma.
“Io lo avevo riconosciuto, lo vedi? È sezionato!”, precisa il fratello maggiore, con un piglio saputello.
L’argomento insolito della conversazione dei tre mi distrae dalla lettura.
“E questo? Lo riconoscete?”, interroga la mamma.
“Sìììì!” rispondono i due, in coro. Tocca al piccolo, questa volta, dimostrare le proprie competenze: “È un cervello!”
Si avvicina per vedere meglio.
“Ma è umano?”
“No,” li tranquillizza la mamma, “è di una cavia!”
Continuano a far scorrere le foto sullo schermo del cellulare.
“Guarda, due gemelli siamesi! Come sono strani!”
Il piccolo, che non vuole essere da meno:
“Una volta ho visto un agnellino con due teste…”
Alla mia sorpresa iniziale si aggiunge un certo disgusto e anche una leggera inquietudine… La conversazione è troppo insolita per non continuare a seguirla. Dopo la parentesi sui gemelli siamesi, si apre una discussione sulle tecniche di imbalsamatura e su come conservare cose raccapriccianti sotto spirito. Il tutto, con una naturalezza tale che a malapena mi accorgo che, soltanto quando siamo quasi all’arrivo del treno, gli argomenti tornano a essere più “consueti”.
“Basta con le foto, bambini! Piuttosto, li avete fatti i compiti?”.
Ed è solo qui che, effettivamente, vedo i piccoli spaventarsi.
“Sì, mamma, ma le moltiplicazioni sono difficili!”
“…E la nonna non le spiega bene, sembrano sempre facili, a lei, ma sono difficili!”
“Va bene, dai, riguardiamole insieme!”
Solo nell’ultima parte del viaggio riesco di nuovo a concentrarmi nella mia lettura, con il sottofondo cantilenante delle due vocine incerte che ripetono la tabellina del sette.
La foto non è pendolare: ritrae un piccolo Alien che ho incontrato a Lucca Comics.
Dimitri Biasimov è quello che può essere definito un signore distinto. Canuto, magro e longilineo, sarebbe ancora più alto se la schiena non fosse un po’ ingobbita, probabilmente dai numerosi decenni passati chino su una scrivania. Sobriamente elegante e impeccabile nell’abbigliamento, predilige i colori smorti.
È un tipo molto abitudinario, Dimitri. Prende sempre il treno delle sette e dodici la mattina e quello delle diciassette e diciotto il pomeriggio. Da quanto tempo? Non lo so io, non lo sanno i miei compagni di viaggio con i quali occasionalmente scambio qualche parola, sicuramente da molto prima che iniziasse la mia avventura pendolare, ma non mi stupirei se fossero diversi decenni. Sale sulla seconda carrozza, verso la testa del treno, sceglie un posto nella parte centrale della carrozza, possibilmente evitando di avere altri viaggiatori seduti a fianco o di fronte, possibilmente sul lato destro, guardando nella direzione di marcia, per non avere il riflesso del sole. Si accomoda sul sedile dalla parte del finestrino e posa una consunta borsa di pelle sul sedile di fianco al suo, per scoraggiare eventuali viaggiatori a sedervisi. Prende dalla borsa un libro dalla copertina di tela marrone, con le pagine ingiallite e i caratteri piccolissimi, inforca un paio di occhialini e inizia a leggere. Continua a leggere fino all’arrivo, cercando di non distrarsi. Non tollera alcuna alterazione delle sue quotidiane abitudini e, se capita qualche evento a perturbare il suo viaggio, lo vedi subito che inizia ad agitarsi e a borbottare sottovoce. Un brontolio concitato e per niente amichevole.
Non sopporta il caldo dell’estate, il freddo dell’inverno, l’umidità dell’autunno, i pollini della primavera. Se mi chiedeste qual è la sua situazione metereologica ideale, avrei non poche difficoltà a rispondervi.
Non sopporta quelli che non pagano il biglietto: lui, in tutti gli ormai numerosi lustri di pendolarismo, non è mai stato neppure una volta fuori regola con l’abbonamento. Non sopporta le inutili discussioni che nascono quando il controllore li scopre: non avete pagato il biglietto? Pagate la multa e smettetela di discutere.
Non sopporta i ragazzetti chiassosi che vanno a scuola. Sono inutilmente confusionari, non fanno altro che spingersi e rimbalzare da un posto all’altro del vagone con quegli zaini ciondolanti.
Non sopporta quei due tizi sempre in giacca, cravatta, auricolare e occhiali da sole, anche se il sole non c’è: sono sempre alle prese con conversazioni telefoniche complicatissime che secondo loro sono di vitale importanza, vista la concentrazione e il piglio sicuro con cui le conducono, ma di cui a Dimitri non interessa la benché minima parte.
Non sopporta le signore ciarliere, quelle che passano il tempo del viaggio a discorrere delle prodezze dei propri figli, sicuramente degli adolescenti brufolosi come quelli che lo infastidiscono tanto, di ricette che trasudano grassi e colesterolo, di saldi e negozi convenienti.
Non sopporta il profumo intenso e dolciastro con cui si cospargono ogni mattina in modo smisuratamente esagerato e con cui infestano l’intero vagone.
Non sopporta in generale gli odori del vagone: le esalazioni umane di ogni tipo, particolarmente concentrate in estate, il tanfo insopportabile che ogni tanto proviene dalle toilette, gli aromi delle pietanze che qualche scellerato viaggiatore consuma durante il viaggio.
Non sopporta quelli che giocano a quegli inutili giochini sui cellulari e sui tablet, tenendo la suoneria a volume elevato, costringendo tutta la carrozza ad ascoltare quelle musichine sciocche e infantili.
Non sopporta quelli che mettono i piedi sul seggiolino di fronte, quelli che dormono con la bocca spalancata e russano pure, in generale non sopporta chi non mantiene, durante il viaggio, una postura e un atteggiamento composti e rispettosi, come fa lui.
Nel suo mondo ideale, vorrebbe avere ogni giorno uno scompartimento tutto per sé, o almeno, abbastanza vuoto da non dover vedere, né sentire, dal suo posto, nessun altro. Gli succede molto raramente, di solito deve condividere il viaggio con altre persone irrispettose, rumorose e maleducate. Perché lui non sopporta niente e nessuno che disturbi la sua lettura. Una situazione che, purtroppo per lui, invece, accade piuttosto di frequente. E allora il suo umore, tendenzialmente grigio anche in situazioni ottimali, s’incupisce, e inizia a borbottare, con un volume di borbottio proporzionale al livello di fastidio. È quasi divertente, vederlo da fuori: sembra uno di quei vecchi trattori con il motore scoppiettante che ogni tanto emette uno sbuffo.
Come oggi pomeriggio: a poche fermate dall’arrivo i due sedili di fronte al suo vengono occupati da due ragazze con i jeans tutti strappati, i capelli scompigliati, con ciocche di colori improbabili e i visi ornati da numerosi piercing. Quella seduta lungo il lato del corridoio mastica una gomma, roteando la mascella come un bovino al pascolo. A intervalli regolari produce con la gomma palloncini che riempie d’aria fino a farli scoppiare rumorosamente. Quella davanti a lui siede in modo scomposto, tiene le gambe sgraziatamente accavallate e ad un tratto, con la punta dello scarpone borchiato, sfiora la piega perfetta dei pantaloni di Dimitri. Già vistosamente infastidito dalla presenza per niente gradita, a questo punto il canuto pendolare inizia a borbottare. Capto frammenti delle sue lamentele “Ah questi giovani… ma l’educazione non gliela insegnano più… il rispetto per le persone anziane… se l’avessimo fatto noi, ai nostri tempi… io alla loro età…” e così via. Le due, invece, auricolari alle orecchie con musica a tutto volume, sguardo fisso sui rispettivi telefonini, non lo degnano della minima attenzione. Vedo che sta per perdere veramente la pazienza, il volume del borbottio aumenta, come una pentola sul fuoco che inizia a bollire. Chissà, oggi forse lo vedremo perdere le staffe! Ma per fortuna il treno inizia a rallentare, Dimitri si alza e sempre borbottando si avvia verso l’uscita. Anche per oggi il suo viaggio pendolare è terminato.
Sollevo lo sguardo dallo schermo del computer portatile. I miei compagni di viaggio di oggi sono una coppia di giovani, entrambi sulla ventina, entrambi di carnagione bianco-grigiastra, entrambi indossano jeans strappati in più punti, maglietta con le maniche tagliate grossolanamente, bianca, larga e sformata, per lui, nera e aderente, per lei. Hanno entrambi numerosi tatuaggi su braccia e collo e diversi piercing in vari punti del viso. Capelli rasati a zero per lui, colore corvino e taglio geometrico per lei, associato a un vistoso trucco nei toni del nero.
La ragazza porta in braccio un fagotto cicciottello, grigio con delle toppe color crema, dall’aspetto morbido, con due occhioni azzurri: un cagnolino che avrà al massimo un paio di mesi, ma già piuttosto grosso. Da adulto sarà un bel bestione, immagino. Ma adesso è veramente troppo carino, non resisto.
“Che bello!”, esclamo, “come si chiama?”
“Igor”, risponde lei, sorridendo, orgogliosa.
“E’ adorabile!”, commento, mentre il piccolo sbadiglia.
È un cucciolo di pitbull, mi spiegano, lo hanno adottato, sono andati a prenderlo oggi e lo stanno portando verso la nuova casa. L’aspetto tenero e indifeso di quel fagottino vellutato stride un po’ con l’immagine non troppo rassicurante degli esemplari adulti di quella razza, ma la dolcezza con cui i due giovani lo accudiscono e le buffe espressioni del suo muso, tra l’assonnato e il curioso, mi fanno credere che non potrà mai diventare molto cattivo, lui.
In pochi minuti, come potrete immaginare, la simpatica bestiola diventa protagonista assoluta e inconsapevole del viaggio di oggi. Nei posti rimasti liberi, intorno a noi, si avvicendano vari personaggi che proprio nell’interazione con il cucciolo mostrano curiose peculiarità per le quali vale la pena spendere un post.
Ve li presento, nell’ordine in cui si sono manifestati.
#1. L’esperto. Sale nella stessa stazione, qualche istante dopo i due, stessa età e stesso stile nell’abbigliamento. Porta un paio di grosse cuffie appoggiate sul collo. Appena seduto nel posto libero accanto al mio, inizia a dispensare consigli su come crescere al meglio il piccolo Igor. Suggerimenti sull’alimentazione di tipo generico (“Mi raccomando, non gli date assolutamente niente di quello che mangiate voi!”), ma anche molto dettagliati (“La frutta gli fa bene, la mela è ottima, ma, mi raccomando, non gli date la banana, che sennò gli viene la cacca durissima!”), e poi, ancora, sul tipo di guinzaglio, sulla vita sessuale che dovrà tenere, una volta cresciuto, sull’educazione (“Mi raccomando, se fa qualcosa di sbagliato, non lo brontolate, altrimenti si spaventa, piuttosto, mostratevi dispiaciuti, così non lo rifà più!”). E’ per me un sollievo, quando scende.
#2. Il foto-video-amatore. Prende il posto dell’esperto, appena sceso, nel sedile libero accanto a me. Non parla molto bene l’italiano, per cui, per fortuna, i complimenti sono limitati a un generico “Bello… canino… complimenti!”. In compenso, appena seduto, tira fuori dalla tasca un moderno smartphone, chiede il permesso ai padroni con un incerto “Posso?” e scatta un’interminabile serie di foto al cucciolo, cambiando spesso inquadratura e invadendo la mia porzione di spazio. Ma non basta. Esaudito il bisogno di immortalare lo sconosciuto quadrupede, tiene a precisare che “Anche io… uguale… cane… pitbull…” e continua ad aggeggiare con il dispositivo finché non riesce a riprodurre nel piccolo schermo una serie di video (che ovviamente mi metto a sbirciare) aventi come protagonista un molosso di colore grigio scuro e dimensioni ragguardevoli, dall’apparenza piuttosto vivace, che si diverte a fare dispetti al padrone e che viene ripetutamente richiamato e corretto in una lingua a me sconosciuta.
#3. L’addetto alle pulizie. Su questo treno è presente il servizio di pulizia a bordo, quindi, come di consueto, un addetto percorre il treno avanti e indietro svuotando i contenitori dei rifiuti. Arrivato nella nostra postazione, dopo aver diligentemente compiuto la propria ecologica mansione, con la stessa mano guantata che ha ravanato nei profondi pertugi del cestino, accarezza il musetto del cucciolo, che ringrazia tutto soddisfatto leccandola con la lingua rosata… bleah!
#4. Il virtuoso. Eccoci arrivati al mio personaggio preferito. Un vero artista. Seduto nel gruppetto di sedili di fianco ai nostri, dall’altra parte del corridoio, si esibisce in una sorprendente dimostrazione di human beatbox (non so se è il termine giusto, non saprei come definire questo talento), a base di miagolii, stridii, garriti, cinguettii, schiocchi, fruscii, ronzii, fischi, barriti, latrati, muggiti, pigolii, squittii, cinguettii, friniti, nitriti, grugniti, sibili, ragli, belati e tanti altri versi ancora, incredibilmente realistici. Il suo scopo? Attirare l’attenzione dell’assonnato cagnolino, con scarso successo tra l’altro, visto che il piccolo a malapena si gira verso di lui sbadigliando.
#5. Le americane, dulcis in fundo. Un dulcis fin troppo dulcis, quasi stucchevole, come quelle caramelle troppo colorate che si attaccano ai denti. Un dulcis rosa shocking. Si tratta di sette ragazze, infradito-e-reflex-munite, strizzate in canottiere, pantaloncini e gonnelline di dimensioni minime, dai colori sgargianti, sedute un po’ più in là nel vagone. Il sottofondo sonoro di quasi tutto il viaggio è stato un medley delle loro chiacchiere rumorose e delle loro risate sguaiate. Turiste di ritorno da una gita, suppongo. Se ne stanno per conto loro per quasi tutto il viaggio, sono rumorose, sì, ma non troppo moleste. Solo alla fine, per colpa di uno dei capolavori del virtuoso, si accorgono del cagnolino. Ed è una vera e propria deflagrazione di tenerezza cucciolosa, una reazione che a confronto la scioglievolezza di Lindor è roba da ragazzi. Dall’incontenibile esplosione di gioiosa sorpresa con cui accolgono il cucciolo mi verrebbe quasi da dedurre che in America non esistono i cagnolini. Tutto il vagone a questo punto è trascinato in un vorticoso susseguirsi di “Oh, my God!”, “Wonderful!”, “So sweet!”, “So cute!”… Una selva di mani graziose e curate, con unghie lunghissime, variamente decorate, circonda la povera bestiola, che pare quasi intimorita. Coccole, carezze, grattini dietro le orecchie, scatti di foto da cellulari variopinti, urla di gioia… Dal punto di vista della bestiola deve essere una visione simile alle allucinazioni provocate da certi tipi di droghe, immagino. Sono pochi minuti ma sembrano non finire mai. Poi, finalmente, il treno inizia a rallentare, siamo quasi arrivati a destinazione, ci alziamo e ci avviamo verso l’uscita, con sollievo del cagnolino, dei neo-padroni e… mio!
Il viaggio di ritorno dal lavoro procede come di consueto. Il vagone è quasi vuoto, popolato da pochi viaggiatori, sparsi qua e là, ognuno intento a far passare il tempo che manca all’arrivo a destinazione nel modo che ritiene più idoneo. C’è chi dorme, chi lavora con il computer, chi gioca con il cellulare, chi legge, chi guarda dal finestrino non si sa cosa, dato che è già buio. Io sono alle prese con le ultime, drammatiche pagine del libro che mi ha catturato in questi giorni. Appena arrivati a una delle stazioni che precedono il mio arrivo, un desueto e sinistro brusio ad alta frequenza preannuncia la fine della ormai familiare quiete pomeridiana. E infatti, pochi istanti dopo l’apertura delle porte, la carrozza viene invasa da un nugolo di ragazzine frenetiche. La prima immagine che mi viene in mente è quella di uno sciame di farfalle rosa, veramente graziose alla vista, ma, vi assicuro, altrettanto fastidiose per l’udito. Corrono lungo il corridoio, riempiono i sedili vuoti, ridono, saltano, ballano, cantano, strillano, cambiano di posto, scalpitano, scalciano e ancora ridono, saltano, strillano… Va bene, posso dire addio alla mia lettura, per stasera. Dopo di loro ecco arrivare molto più mestamente alcuni adulti, che tentano di sovrastare le urla fanciullesche con inutili raccomandazioni alla compostezza e al silenzio, ottenendo, come unico risultato, l’aggiunta di altri Decibel alla già compromessa situazione acustica. Non è una gita, penso. Prima di tutto, non torna l’orario, inoltre le ragazzine sono veramente troppo allegre e spensierate, e allo stesso tempo gli accompagnatori adulti mi sembrano troppo spaesati e insicuri, hanno troppo l’espressione “ma che cosa sto facendo, io, qui?”, per essere degli insegnanti. Studio meglio lo strano fenomeno: le bimbe hanno un’età compresa tra gli otto e gli undici anni, stimo, e, sotto i giubbotti, indossano tutte maglie o felpe di colore rigorosamente fucsia con stampata sul petto una faccia carina e sorridente circondata da ghirigori e fantasie floreali. Non comprendo, rimango un po’ interdetta. Da dove vengono? Dove vanno? Che cosa vogliono? E inizio con le ipotesi…
Forse un dittatore pazzo sta per conquistare il mondo con un esercito apparentemente innocuo di ragazzine, utilizzando come armi gli ultrasuoni che riescono a produrre quando si riuniscono in gruppi numerosi?
Forse un virus pericolosissimo e assai contagioso, che trasforma gli esseri umani in bimbe isteriche, è fuoriuscito da un laboratorio segreto, dove alcuni scienziati senza scrupoli lo hanno messo a punto?
Forse l’oscura setta delle bambine dalla felpa fucsia ha finalmente deciso di uscire allo scoperto e di ingaggiare una rivolta per soggiogare la grigia società dominata dagli adulti?
Forse una colonia di alieni dall’aspetto di innocenti fanciulle, con una flotta di astronavi dalla forma di gigantesche caramelle di Candy Crush, è appena atterrata qua vicino e sta per invadere il nostro pianeta?
Poi, finalmente, realizzo: “Ah, già, stasera c’è il concerto di Violetta…”
Vorrei invitare tutti gli sceneggiatori di fiction, fotoromanzi, telenovelas, soap opera e affini a farsi qualche viaggio su un treno pendolare, la mattina, vi assicuro che è una fonte inesauribile di ispirazione 🙂
Il treno è piuttosto affollato stamani e sono costretta a condividere lo spazio compreso tra i quattro sedili con cui è suddiviso il vagone con altre due donne. Una è seduta al mio fianco, a destra, l’altra di fronte a me. È quest’ultima, stamani, a catturare la mia attenzione. Indossa abiti e accessori scelti con cura, siede con eleganza, anche se la postura è abbastanza piegata su un lato e le gambe accavallate sconfinano nello spazio del sedile di fianco al suo, vuoto, sul quale ha sistemato le due borse che porta con sé. La testa è piegata un po’ in avanti e un po’ a sinistra, cosicché lo sguardo può concentrarsi sul tablet appoggiato sulle ginocchia, mentre la spalla e il lato sinistro della mandibola contribuisce a sorreggere il telefonino seminascosto dai lunghi capelli biondi contro l’orecchio. Con la mano destra sfiora ritmicamente la superficie del tablet, in orizzontale e verticale, alternativamente. Di tanto in tanto dal dispositivo esce un’allegra musichetta: deve trattarsi di uno di quei giochini elettronici che vanno di moda. Allo stesso tempo porta avanti una confidenziale conversazione con l’incognito interlocutore all’altro capo del telefono. Le due azioni sono totalmente scollegate tra loro: non esiste alcuna relazione tra la traiettoria del suo indice sulla piastra di vetro e le variazioni del ritmo della voce nella comunicazione, come se fossero controllate da due processori distinti e indipendenti tra loro. A un tratto, uno squillo sonoro la distrae momentaneamente da entrambe le mansioni. Proviene da una delle due borse, anzi, per essere precisi, dal secondo telefonino, bianco in questo caso, in essa contenuto.
“Scusa, scusa, amore, aspetta un attimo, ho un’altra telefonata.”
Posa delicatamente il primo cellulare dentro la borsa, aperta, senza chiudere la comunicazione, e prende l’altro. Inizia una seconda conversazione, con lo stesso tono affettuoso e confidenziale della prima.
“Buongiorno, amore, come stai? Dormito bene? Sì, sì, anche io, sono già in treno…”
Continua così per alcuni minuti, e riprende anche l’attività ludica con il tablet. Poco prima della stazione di arrivo, si congeda frettolosamente con il secondo misterioso interlocutore:
“Amore, sono quasi arrivata, devo prepararmi per scendere, ok, ti chiamo più tardi, va bene?”
Chiude la chiamata con il telefonino bianco e riprende il primo, quello nero, che nel frattempo aveva aspettato pazientemente nella borsa.
“Scusa, amore, ci ho messo più del previsto e ora sono quasi arrivata alla stazione, ti devo salutare. Ti chiamo più tardi, ok?”
Termina anche la seconda chiamata, che poi era la prima… Mancano ancora alcuni istanti all’arrivo, il treno ha appena iniziato a rallentare. Giusto il tempo di finire la partita sul tablet, e pure con successo, a giudicare dalla festosa musichetta, prima di riporre anche questo in una delle due borse e prepararsi a scendere.
E intanto a me inizia a frullare per la testa un famoso motivo di Renato Zero…
Prendere il treno, spesso e volentieri, è come andare al cinema o a teatro, anzi, talvolta è anche meglio. L’unico inconveniente è che non si può scegliere il titolo della rappresentazione a cui assisteremo, e neppure il genere. Può capitare un dramma familiare, un rocambolesco film d’azione o di fantascienza, un thriller mozzafiato, un documentario naturalistico… nessuno può saperlo a priori.
Il treno in questo viaggio di ritorno non è troppo affollato. Seduto davanti a me, in diagonale rispetto al mio sedile, un canuto signore dal fisico ingombrante è intento ad aggeggiare con le dita cicciottelle sullo schermo del suo tablet. Il libro che sto leggendo è bello, ma un po’ impegnativo: soprattutto il pomeriggio, fatico a mantenere la concentrazione e spesso mi distraggo. Nel gruppetto di quattro sedili dalla parte opposta del corridoio ci sono altri due viaggiatori, nella stessa configurazione.
Lei è una ragazza bella, di una bellezza di altri tempi, aggraziata. Non la bellezza sfacciata, ostentata, a cui siamo abituati. La corporatura è sottile, la postura composta: siede con la schiena ben dritta e le gambe unite. Le lunghe dita affusolate reggono un libro voluminoso con la copertina scura. La carnagione è chiarissima, sembra di porcellana, come le bambole antiche. I capelli ricci sono raccolti in una treccia morbida che dalla nuca scende fino a metà della schiena.
Lui è quasi sdraiato, una gamba è stesa fin sotto il sedile di fronte, l’altra è piegata, con il piede appoggiato su quella specie di piccolo gradino tra la parete e il pavimento che c’è in alcuni tipi di carrozza. Il viso vistosamente abbronzato è in parte nascosto da un paio di occhiali da sole, anche se il sole non c’è. Indossa un paio di jeans strappati, stivaletti e una T-shirt abbastanza aderente, che mette in bella mostra un fisico ben scolpito in palestra. È impegnato in una rumorosa conversazione telefonica, parla in italiano, con accento spagnolo. Il tono della voce è caldo, grave. Mi ricorda quella di Antonio Banderas, che teoricamente sarebbe o vorrebbe essere sensuale, ma nella mia mente suscita le immagini del Gatto con gli Stivali di Shrek e della gallina Rosita.
Dopo qualche minuto dalla partenza, la telefonata finisce, finalmente. Con la coda dell’occhio mi accorgo che sta fissando in modo ostinato la ragazza di fronte. Prima attraverso le lenti scure, poi, per enfatizzare, se possibile, l’atto, fa scendere gli occhiali sul naso, piegando la testa in avanti. Altro che sguardo fugace, questa è proprio un’accurata scansione 3D.
“Eccoci”, penso tra me e me, “stiamo per assistere a un abbordaggio in piena regola, da manuale!”
La ragazza percepisce lo sguardo ossessivo del suo vicino e reagisce con fastidio, aggiustando la postura sul sedile e avvicinando il libro al viso, per immergersi ancora di più nella lettura. L’attacco visivo continua, in modo palese, sfacciato. Sembra quasi di assistere a una scena di caccia. Ci starebbe bene, a questo punto, come sottofondo, l’ Aria sulla quarta corda di Bach e una voce fuori campo che ci spiega la scena: “…ed ecco il leopardo, il grosso felino acquattato nella folta vegetazione della savana che ha appena avvistato e sta puntando una giovane antilope, l’attacco del predatore è questione di attimi…“
E, infatti, all’improvviso:
“Cosa stai leggendo, di bello?”
La ragazza solleva lo sguardo dalle righe del proprio libro e lo rivolge, timorosa, al vicino compagno di viaggio. Sembra arrossire leggermente sulle guance.
“Un libro per l’università” risponde, titubante.
“Ah sembra interessante, cosa studi?”
“Lettere classiche.”
Il dialogo s’interrompe per un attimo. La ragazza ne approfitta per rituffarsi nelle pagine del libro. L’uomo non si è rassegnato, anzi, ha ripreso a studiare la preda con assiduità. Ed ecco, inevitabile, il secondo assalto, questa volta più diretto:
“Ma lo sai che sei bellissima?” esordisce, inaspettatamente.
Inizio quasi a pensare di non essere sul treno, stasera, ma sul set di un film tratto dai libri di Federico Moccia. La ragazza, di nuovo, smette di leggere, le guance adesso sembrano infuocarsi. Non risponde subito.
“Sì, sei bellissima. Non te lo dico per dire, me ne intendo, io!”
La storia si sta facendo avvincente, vediamo un po’ cosa si inventa, adesso.
“Sai, faccio il fotografo, io. Di moda… Hai mai fatto la modella?”
“N-no…” balbetta lei.
“Peccato, saresti perfetta! Ti piacerebbe provare?”
“N-non lo so… n-no…”
“Non ti fidi? Ah che sciocco, non mi sono nemmeno presentato, piacere, Manolo Espadrillas!”
(il nome, ovviamente, l’ho cambiato: Manolo viene da un aitante –almeno sulla carta- chitarrista che ha animato una serata nella località balneare dove ho trascorso le ferie… mentre Espadrillas è la prima parola spagnola con la “s” in fondo che mi è venuta in mente!). Porge la mano abbronzata, ornata da due grossi anelli su pollice e indice, alla ragazza, che educatamente risponde all’invito. Appena riesce a carpire l’arto della sua preda, l’uomo lo attrae verso di sé e lo circonda con l’altra mano. La ragazza si ritrae imbarazzata.
“Guarda”, le dice mostrandole lo schermo del cellulare e avvicinandosi in modo da invaderle con decisione lo spazio, “questo è il mio profilo Facebook, hai visto quanti contatti ho? Sono un fotografo famoso, sai”.
Ecco, secondo me questa è stata una caduta di stile da parte sua: misurare le proprie e altrui capacità sulla base dei contatti in qualche Social Network non mi sembra proprio il massimo. Ma, come si dice, in guerra, in amore, e durante un abbordaggio sul treno -aggiungo io- tutto è concesso.
“Guarda, queste sono alcune delle mie foto… Hai visto che belle?”
La ragazza sbircia timidamente lo schermo, combattuta tra l’imbarazzo e la curiosità.
“B-belle, sì, davvero…”
Come è andata a finire? Sinceramente, non lo so, il treno è arrivato nella mia stazione durante lo show delle foto sul cellulare e mi sono persa l’epilogo di questa storia. Arrivata a casa, prima di dimenticare il nome del nostro viaggiatore-cacciatore ho preso il computer (sono curiosa come una scimmia, lo so 🙂 ), ho aperto Facebook e, nella casellina in alto, per la ricerca, ho digitato Manolo Espadrillas (non importa che proviate anche voi, come ho già detto ho camuffato il nome!).
E… sorpresa! Era tutto vero! La sua foto sul profilo lo ritraeva in posa studiatamente plastica, sdraiato, ripreso dall’alto, in bianco e nero, sguardo fatale, da “Bello e Impossibile”. Non c’erano dubbi, era proprio il mio compagno di viaggio del pomeriggio. Ormai incuriosita, ho continuato a sbirciare nel suo profilo: aveva, effettivamente, un paio di migliaia di contatti, tra cui spiccavano parecchie ragazze sciantose, probabilmente modelle o aspiranti tali. Viste le sue impostazioni della privacy, praticamente inesistenti, ho potuto vedere anche le famose foto: realizzate in studio o in ambienti lussuosi, ritraevano soprattutto donne bellissime avvolte in abiti mozzafiato, molto chic. Chissà se, tra qualche tempo, tra questi trofei di caccia, troveremo anche la ragazza con la treccia che oggi pomeriggio leggeva sul treno…