Coraggio Pendolo, è quasi Natale!

Era proprio contento quel mercoledì,  alla stazione, il nostro Pendolo. Era una fredda mattina di metà dicembre, il cielo terso, di un giallo leggero lungo l’orizzonte, verso est, poi via via arancio, e poi rosa, fino a un tenue celestino. Le scie degli aerei vi disegnavano un motivo astratto fatto  di candide linee rette. Sulle rotaie, sulle sterpaglie intorno ai binari, nei prati, nei campi, nella notte si era formato un sottile strato di brina che smorzava e ingentiliva il paesaggio. Sembrava di essere in un quadro dipinto con gli acquerelli, in cui Pendolo e gli altri viaggiatori  erano delle macchie scure che stonavano un po’.

Era contento, Pendolo, perché quella mattina aveva deciso di entrare un’ora e mezzo dopo al lavoro. Era partito da casa alla stessa ora del solito, voleva approfittare di quel poco di tempo in più per fare con calma gli acquisti natalizi,  almeno una parte. Non è che amasse troppo girovagare per negozi alla ricerca di regali, specialmente in questo periodo, con la confusione e la frenesia dell’acquisto dell’ultimo minuto, non aveva neppure troppa fantasia nella scelta.  Ma ancora di più non sopportava ridursi all’ultimo minuto, come tutti i pendolari disorganizzati – mica come lui eh! – intasati nell’ingorgo di qualche grande magazzino o outlet nel fine settimana prima del venticinque.

E poi, saranno state le melodie natalizie che si sentivano ovunque, saranno stati gli sbrilluccichii degli addobbi e delle vetrine, sarà stata la prospettiva di arrivare al lavoro con calma,  insomma, Pendolo si sentiva di ottimo umore.

In piedi, sulla banchina, si era fatto mentalmente un ricco e dettagliato programmino per l’ora e mezzo a sua disposizione. Avrebbe ovviamente iniziato con una colazione a base di cappuccino e sfoglia all’arancia nella più bella pasticceria del centro, quella che aveva addobbato la vetrina con un albero fatto di biscotti innevati di zucchero a velo. Poi avrebbe iniziato il giro dei negozi. Dunque, doveva pensare ai genitori, alla sorella, ai nipoti dispettosi, ai colleghi, agli amici del calcetto, alla vecchia zia…

A un tratto, del tutto inaspettato, un pensiero si intromise tra le visioni di nastri colorati e carte da regalo: “Ma quant’è che sono qui che aspetto?” Era un pensiero che non veniva dalla sua mente, ma dalle punte dei suoi piedi, ormai ghiacciate. Guardò l’orologio e si accorse che il suo treno doveva essere già partito da almeno dieci minuti. Proprio in quel momento si fece viva la voce dall’altoparlante, che annunciò, appunto,  venti minuti di ritardo. “Uffa! Proprio stamani!” Decise a malincuore di rinunciare alla colazione nella pasticceria, doveva anche affrettarsi nell’acquisto dei regali, per poter entrare al lavoro in orario.

Faceva un gran freddo, lungo il binario. Per riscaldarsi un po’ iniziò a camminare su e giù. Si fermò davanti ai tabelloni con gli orari dei treni, a volte quando doveva aspettare, si metteva a studiarli, così, giusto per passare il tempo. Ma quella mattina il vetro del tabellone era tutto ghiacciato e non si leggeva un bel niente. I piedi e la punta del naso erano ormai surgelati. Passarono lenti, lentissimi i minuti, nessuna traccia del treno. Dopo una buona mezzora l’altoparlante con un suono gracchiante si schiarì la voce e annunciò con una punta di sadismo che il regionale che Pendolo stava aspettando era stato cancellato.  Quello successivo sarebbe arrivato dopo pochi minuti, Pendolo si rassegnò, ancora, ad aspettare, anche se ormai il buonumore e lo spirito natalizio erano stati sostituiti da un ben più familiare brontolio incavolato.

Si sporgeva oltre la linea gialla scrutando l’orizzonte, ma ancora niente. Poi, ad un tratto, riecco la voce gracchiante dell’altoparlante,  l’uccellaccio del malaugurio, foriero di brutte notizie e rotture di scatole: “Il treno regionale 12345 viaggia con quindici minuti di ritardo”. Maledetto! Se avesse avuto una fionda, preso un sasso dalla massicciata, il più spigoloso,  lo avrebbe lanciato  con tutta la sua forza contro quell’odioso aggeggio. Addio programmi di shopping natalizio! All’arrivo lo aspettava la solita corsa contro il tempo per arrivare in ufficio in orario. E per comprare i regali avrebbe intasato, come tutti, qualche centro commerciale o qualche outlet nel fine settimana prima del venticinque.

Era ormai completamente ibernato quando finalmente arrivò sul binario due uno scoppiettante treno diesel, con due sole carrozze, per di più invase da un gruppo di ragazzini delle medie in gita. “Ma da quando in qua si fanno le gite a dicembre?” Durante il viaggio, che Pendolo trascorse nel vestibolo della seconda carrozza, appeso alla maniglia della toilette e compresso tra lo zaino di un turista danese e le poppe di una corpulenta viaggiatrice con alito fetido, il treno accumulò altri dieci minuti di ritardo.

Giunto a destinazione, scattò come un velocista fuori della stazione, non accorgendosi che, lungo il muro, dove c’era sempre ombra, le brinate dei giorni passati avevano formato un insidioso strato ghiacciato. Perse l’equilibrio e fece una mezza capriola all’indietro per aria, atterrando sui glutei, proprio perpendicolarmente all’osso sacro.

 

Ah, come vorrei che fosse sempre così!

In molti dei miei post ho parlato delle peripezie cui è sottoposto il povero pendolare a causa dei ritardi dei treni. Le corse per non perdere la coincidenza con l’altro treno,  per arrivare in tempo al lavoro, alla riunione, lo stress, le attese interminabili lungo il binario, sono scene purtroppo molto, troppo, frequenti.

Oggi voglio scrivere qualcosa di diverso, voglio raccontarvi quanto è più bella la giornata quando il viaggio del pendolare va come dorebbe andare.

Perché stamani è successa una cosa cui non sono abituata: il treno del viaggio di andata mattutino è arrivato a destinazione (pensate un po’!) con ben tre minuti di anticipo.  Quei tre minutini che ci hanno regalato non sono un grande guadagno, è vero, ma hanno rilassato molto l’inizio della giornata a me e a molti miei compagni di viaggio.

Tanto per cominciare, durante la discesa non c’era  il solito pigia-pigia e non si è verificato l’effetto valanga all’apertura delle porte. Siamo scesi tutti ordinatamente, il signore che mi precedeva mi ha pure gentilmente tenuto aperta la porta dello scompartimento. Il percorso verso l’uscita non è stato la solita gara a ostacoli, mi è parso quasi una piacevole passeggiata.

Pochi metri dietro di me, tre signore discutevano amichevolmente di quale fosse la migliore marca di detersivi per i piatti.

Un ragazzo e una ragazza mi precedevano, camminando mano nella mano, con i loro zaini in spalla: rosa quello di lei, nero quello di lui. La ragazza  stava ripetendo, con il piglio sicuro di chi ha studiato un bel po’, la differenza tra “amor cortese” e “dolce stil novo”, lui la ascoltava attento e preoccupato, ripetendo le ultime parole di tutte le frasi per cercare di memorizzarle.

A un certo punto sono stata superata una ragazza che camminava con passo svelto portando sulle spalle la voluminosa custodia di un violoncello.

Il capotreno sorridente chiacchierava  con il macchinista affacciato al finestrino del locomotore.

In fondo al marciapiede, qualcuno fischiettava “Tanto pe’ canta’ ”, con un bel suono, armonioso e vibrato come quello di un usignolo.

E, uscita dalla stazione, mi sono accorta che era pure smesso di piovere.2013-04-08 08.06.34

 

 

Il sabato del pendolare

La donzelletta vien dalla stazione

in sul calar del sole…

Con mezzora di ritardo.

 

E alla fine è arrivato anche un altro venerdì sera. Nonostante il consueto ritardo finalmente sono a casa. Anche questa settimana, che sembrava interminabile, è finita.

Come ogni lunedì era iniziata con il trauma della sveglia la mattina, la corsa alla stazione, la delusione per il ritardo mattiniero del treno (“Maledizione… Potevo dormire un quarto d’ora in più!”), il viaggio strapazzato, la corsa verso l’ufficio, le email, le scadenze, le relazioni da rileggere, le mille cose da fare e da rifare, i caffè frettolosi, le riunioni noiose, la seconda corsa alla stazione, il viaggio di ritorno strapazzato, il passaggio a livello bloccato che ferma il treno per venti minuti, finalmente a casa, la cena a base di surgelati pronti in dieci minuti, un po’ di televisione, mamma mia che sonno, a letto, che domattina si riparte.

Lunedì… martedì… mercoledì… giovedì…

E arriva il venerdì, la settimana pendolare si chiude e inizia il weekend, con le sue speranze e il suo carico di aspettative. E’ già un paio di giorni che è nell’aria e le quotidiane chiacchierate con i colleghi hanno spesso come oggetto: ”Allora, che fai questo fine settimana? Noi si va… bla bla bla bla…”. Io di solito non ho mai programmi troppo complicati, il mio obiettivo è riposarmi e riprendere fiato.

 

Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia…

Finalmente avrò un po’ di tempo per me stessa, potrò… che ne so, andare al cinema, fare una bella passeggiata al sole, visitare quella bella mostra in centro, ascoltare quel bel disco che mi hanno regalato…

Sabato mattina la sveglia tace, ma mi sveglio lo stesso alle sei, per l’abitudine. Mi ostino a rimanere a letto fino alle otto e mezzo. Quando mi alzo, mi sento un po’ in colpa. Ancora in pigiama, gironzolo un po’ per casa, non sono abituata a vederla con la luce naturale del giorno, ci sono un sacco di cose da fare e sono già le nove. Il sabato mattina passa “a fare le faccende”, come diceva la mia nonna: pulizie dappertutto, caricare la lavatrice, tendere i panni e infine, come nei videogiochi, il mostro finale, il ferro da stiro. Per rimettermi in pari da tutte le incombenze domestiche non mi basta la mattinata del sabato e sconfino inesorabilmente nel pomeriggio. Un attimo, che ore sono? Di già? Ma è tardissimo! Abbiamo fissato di trovarci con degli amici a cena, devo ancora fare la doccia, lavarmi i capelli e vestirmi… La serata è piacevole, il locale è carino, i nostri amici hanno un sacco di cose da raccontarci, ma io verso le nove e mezzo inizio già a sbadigliare. Il maledetto orologio biologico del pendolare, anche il sabato sera vuole dire la sua. Mi sforzo di rimanere sveglia, cerco di dissimulare il sonno, con notevole sforzo resisto fino a fine serata.

La domenica mattina, tipicamente soffro una specie di jet-lag, con mal di testa, sonnolenza e umore grigio. Le condizioni non migliorano a pranzo, sempre dai genitori, con l’irruzione frequente di qualche parente che, non vedendoti da tanto tempo, si sente in dovere di farti il terzo grado. Si arriva alla domenica pomeriggio, ormai

…tristezza e noia
recan l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier fa ritorno…

Avevo voglia di andare a fare una passeggiata in centro e visitare la mostra, che sta anche per finire, ma il tempo è brutto e minaccia di piovere.  La tentazione di rimanere in casa a poltrire sul divano è davvero forte. Per oggi ce la faccio a resistere: prendo l’ombrello ed esco.

E arriva veloce, troppo veloce, la domenica sera, cena leggera (dopo il pranzo dai genitori ho calorie sufficienti fino almeno a mercoledì) e a letto presto, che domattina alle sei e dieci si riparte! Menomale!

2012-08-15 11.07.24

Giocatori pendolari sfortunati

Ci risiamo. Dopo aver amorevolmente allevato un animalino virtuale in Pet Society, coltivato una rigogliosa fattoria a Farmville e costruito un sontuoso maniero a Castelville, sono ricaduta un’altra volta nella spirale perditempo dei “giochini sociali” (per chi non li conosce, quelli che ho nominato sono dei giochini di Facebook in cui ti ricrei una specie di ambiente virtuale e puoi andare a visitare gli ambienti creati dai tuoi amici, che per l’occasione diventano “vicini” di casa, fattoria, castello ecc.). Questa è la volta dell’ormai universalmente diffuso Ruzzle, di cui ha parlato anche Ilaria in questo suo post. L’ho installato nei giorni passati a casa con l’influenza e mi ci sono un po’ fissata, anche se adesso devo dire che la fase acuta dell’intossicazione è passata. Perché, a onore del vero, pur essendo abbastanza vulnerabile a cadere nella tentazione, a me queste passioni ludiche non durano poi molto, per fortuna. Chissà che fine avrà fatto l’animalino di Pet Society, sarà morto di stenti? E la fattoria di Farmville sarà infestata da erbacce e sterpaglie, mentre il maniero di Castelville starà ormai cadendo in rovina…

Scusate… è appena arrivato il messaggino che mi avverte che un mio amico  vuole sfidarmi a Ruzzle… devo andare… ok, ok, prima finisco il post!

Insomma, ancora non mi è passata, ma ha i giorni contati… Spero… E poi non è mica vero che è il passatempo ideale per il pendolare: a me, per esempio, giocare durante il viaggio, invece di rilassare, innervosisce. Il consueto stress del pendolare si somma alla sottile ansia della competizione, il giochino si insinua nei ritmi e nelle dinamiche del viaggio quotidiano, da un lato condizionandolo, ma anche subendone gli immancabili imprevisti.

Ecco quindi una serie di corollari della legge di Murphy applicabili ai pendolari giocatori di Ruzzle, dimostrati dalla mia seppur breve esperienza personale:

  1. Se aspetti che il treno arrivi prima di iniziare la partita a Ruzzle, il treno non arriverà.
  2. Se, preso dallo sconforto, inizierai la partita, il treno arriverà e dovrai interromperla sul più bello per salire.
  3. Se sei alla stazione e il treno che stai aspettando ha molto ritardo, per qualche motivo non ci sarà il segnale per il cellulare e non potrai giocare.
  4. Se sei sul treno, stai giocando e vincendo una partita a Ruzzle, passerà il controllore e dovrai interromperla.
  5. Se stai perdendo una partita, non passerà nessuno a chiederti il biglietto e potrai perderla in tutta tranquillità.
  6. Se stai vincendo la partita, il treno accelererà e arriverà a destinazione prima che tu la finisca, così la dovrai interrompere per scendere.
  7. Se il treno rallenta e accumula ritardo, lo farà in un punto della linea dove non c’è segnale e non potrai giocare a Ruzzle per passare il tempo.
  8. Se stai vincendo una partita il cellulare si scaricherà e si spegnerà, non avrai con te il cavetto per ricaricarlo e dovrai aspettare l’arrivo per vedere come va a finire.
  9. Se ti sposti in disparte sulla banchina per concentrarti in vista del terzo round a Ruzzle contro il tuo acerrimo avversario, inizierà a piovere e dovrai tornare di corsa sotto la pensilina, in mezzo alla calca.
  10. In tutti questi casi il tuo avversario a Ruzzle sarà comodamente seduto sul divano di casa, in condizioni psicofisiche ottimali per concentrarsi sul giochino, e ti sconfiggerà in modo impietoso.

 

Insomma, è chiaro che questo giochino, apparentemente un innocuo passatempo per ingannare l’attesa durante il viaggio, in realtà è fonte di tensioni, arrabbiature, corse e stress.

La conclusione? Meglio, molto meglio, un bel libro.

ruzzle

Cronaca di un viaggio che doveva essere diverso dal solito e invece…

Una sorpresa inaspettata… Marco ed io siamo stati invitati alla presentazione di un libro che si tiene nientepopodimeno che in uno dei palazzi più belli di Roma, un posto che noi umani e pure pendolari di solito vediamo solo in tv. Ovviamente non ci siamo fatti sfuggire l’occasione e abbiamo accettato con entusiasmo. L’invito riportava che in quel luogo, per l’uomo vige l’obbligo di indossare giacca e cravatta, per la donna è richiesto un abbigliamento sobrio. Marco allora, a dieci anni dalla laurea, rispolvera la veccchia cravatta blu e io mi rassegno a passare la giornata su un paio di tacchi più alti e più scomodi del solito.

A me piacciono le scarpe con il tacco, le indosso anche volentieri, ma spesso non posso, di fatto sono incompatibili con la vita di una pendolare. Nella vita di tutti i giorni bisogna essere pronti a tutto: corse improbabili contro il tempo, lunghi tragitti in piedi strizzati tra valigie e zaini, attraversamento dei binari (lo ammetto, una volta l’ho fatto, ero proprio al limite, sono stata attenta però!).Oggi però non è un viaggio normale, oggi prendiamo il treno vip, la Frecciargento, quindi anche i tacchi ci stanno bene.

Usciamo di casa con comodo anticipo per prendere il treno per Firenze Santa Maria Novella. Piove a dirotto. Alla stazione, la prima amara sorpresa: il treno che volevamo prendere è stato cancellato a causa del maltempo e quello successivo è già segnalato con un ritardo previsto di venti minuti. Ci rendiamo conto subito che non ce la faremo a prendere in tempo la Frecciargento che abbiamo prenotato. Decidiamo di prendere la macchina fino a Firenze Rifredi, dove prevediamo che ancora sia traffico affrontabile, è più facile trovare un parcheggio e ci sono molti treni in più per raggiungere Santa Maria Novella. Inizia una corsa frenetica senza esclusione di colpi (non fisici, per fortuna) e clacsonate. Arriviamo a Rifredi e constatiamo che i “molti treni in più” su cui confidavamo, a causa delle cancellazioni e dei ritardi per il maltempo, si riducono ad uno solo. Che sta arrivando al binario cinque. Adesso. Allora, via, di corsa nel sottopassaggio, scavalcando mendicanti, studenti, gente che sta contemplando il tabellone come davanti a un’immagine sacra (solo che, invece di pregare, imprecano). Saliamo rovinosamente sul treno, siamo strizzati come le alici in un vasetto sott’olio. Io, purtroppo, sono abituata a queste cose, mi rassegno e non ci faccio troppo caso, Marco invece, inizia a brontolare.

Il treno, o meglio il contenitore di umanità compressa, si ferma dopo pochi metri dalla partenza, probabilmente il traffico ferroviario è perturbato (e anche il nostro umore) e le precedenze nella circolazione sono cambiate. Le lancette dell’orologio scorrono velocemente, la probabilità di prendere la Frecciargento diminuiscono sempre di più. Oltretutto, da inguaribili ottimisti quali siamo e soprattutto per risparmiare qualche euro, abbiamo scelto un biglietto non modificabile, in cui non sono previsti rimborsi o cambi di prenotazione.

Non abbiamo tenuto conto del fatto che il viaggiatore ferroviario è un perfetto esempio a cui si può applicare la Legge di Murphy, esiste anche un corollario il cui enunciato è più o meno questo: “Se il tuo treno è in ritardo, la coincidenza partirà puntuale”.

Quando ormai le speranze sono ridotte al minimo, il treno riparte e, seppure a passo d’uomo, arriva nella stazione di Santa Maria Novella con un margine di ben tre minuti rispetto alla partenza della Frecciargento, necessari per teletrasportarsi dal binario uno al dieci. Quindi, ancora una volta, ripartiamo con  uno scatto frenetico, con rischio di scivolamento a causa del pavimento in marmo bagnato per la pioggia.

Ma la Legge di Murphy, per fortuna, non si smentisce nemmeno in questo caso: dato che comunque, siamo arrivati con tre minuti di anticipo, le condizioni di validità del corollario che ho enunciato in precedenza non sussistono e difatti anche il Frecciargento ha quindici minuti di ritardo… E quindi, appena arriveremo a Roma, ci aspetterà una nuova corsa, ma questa è un’altra storia…

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Non può piovere per sempre

I miei post, prima di essere pubblicati qui, nascono, generalmente proprio sul treno, in un quadernino rosso pieno di cancellature, scarabocchi, disegnini e ripensamenti, poi la sera dopocena vengono ripuliti e riscritti con Word e infine copiati e incollati qui. Per questo motivo tra il concepimento del post e la sua nascita vera e propria passano in genere un paio di giorni. Questa introduzione è per spiegare perché oggi, in una fredda e assolata mattina di fine autunno – inizio inverno, pubblico un post che parla di pioggia.

Quando li ho visti salire sul treno, stamani, ho capito che avevo sbagliato i miei calcoli. Avendo visto il cielo sereno con qualche innocua nuvoletta, mi ero messa le scarpe scamosciate e soprattutto, prima di partire, avevo steso il bucato fuori. Ma la presenza sul treno dei venditori di ombrelli è inequivocabile: oggi pioverà. La loro affidabilità è quasi perfetta, mi piacerebbe sapere quale sito o canale del meteo consultano.  Alla stazione spuntano da ogni angolo appena cadono le prime gocce, offrendo per pochi euro un riparo al viaggiatore sprovveduto che è partito da casa, magari di fretta, come me, confidando nella clemenza del tempo.

Tipicamente i prodotti offerti da questi venditori improvvisati sono tre: ombrellini ripiegabili, facilmente trasportabili in borsa, ombrelli classici più grandi e impermeabili di plastica. Più di una volta questi ragazzi mi hanno salvato da una doccia quasi certa. Diverse volte ho acquistato un ombrellino ripiegabile. Il modello è sempre lo stesso, disponibile in vari colori e fantasie. Di solito li compro tinta unita, l’ultimo era di un bel giallo brillante, scelto così per dare un tocco di colore a una giornata di per sé grigia. Il problema di questi ombrellini è l’affidabilità: praticamente sono usa e getta. Dopo un paio di utilizzi una delle stecche inizia mestamente a penzolare e l’ombrello assume una triste postura ripiegata. Il failure si verifica tipicamente nel momento di massima violenza della pioggia. Al minimo alito di vento si ribaltano lasciando il povero utente sotto lo scroscio di pioggia battente. Essendo piuttosto imbranata e scoordinata e viaggiando spesso con parecchie cose addosso e per la testa, in questi casi sono in particolare difficoltà. Giusto pochi minuti fa stavo camminando con passo svelto verso la stazione sotto la pioggia, riparata da uno di questi ombrellini. Una borsa su ognuna delle spalle: sulla destra quella con portafoglio, libro, chiavi, trucchi, ecc. sulla sinistra quella da lavoro con il computer, il quaderno per gli appunti, alcuni articoli da leggere, una tesi da correggere. Con una mano reggevo l’ombrello e con l’altra tenevo il cellulare all’orecchio, stavo discutendo con un collega un lavoro in scadenza. Alla prima inaspettata folata di vento, l’ombrello si è rigirato e due stecche si sono rotte. Come se non bastasse, la borsa del computer mi è scivolata dalla spalla, la tracolla si è incastrata con la sciarpa, che praticamente mi ha strozzato. Con qualche difficoltà sono riuscita  goffamente a recuperare la borsa e evitare di soffocare, ma il riparo dalla pioggia è uscito seriamente compromesso da questa piccola disavventura e sono arrivata alla stazione con il giubbotto per metà fradicio.

Il record negativo di durata l’ho battuto lo scorso inverno, una domenica pomeriggio. Dovevo andare in centro a Firenze, scesa dal treno mi sorprese un improvviso e abbondante acquazzone. Comprai un grazioso ombrellino azzurro all’uscita della stazione. All’angolo con via Nazionale (vale a dire approssimativamente dopo cinquanta metri dall’acquisto) il nuovo ombrello mi abbandonò cedendo alla violenza delle intemperie. Sarei dovuta tornare indietro e pretendere la sostituzione: insomma, va bene che avevo speso solo cinque euro, ma un minimo di garanzia ci dovrebbe essere, no? Ma era tardi per l’appuntamento dove mi dovevo recare e lasciai perdere.

Le rare volte in cui riesco a partire da casa organizzata prendo un ombrello più grande. Ma mi impiccia: in treno non so mai dove metterlo, specialmente se è fradicio. Allora lo nascondo nello spazio tra due coppie di seggiolini tra loro opposti. Lì non dà fastidio a nessuno, ma la probabilità di dimenticarlo è alta e diventa praticamente una certezza se nel frattempo, all’arrivo, smette di piovere.

Concludo con un ultimo aneddoto che ha per protagonisti la pioggia e gli ombrelli, ma anche le leggi del mercato, della relazione tra domanda e offerta: in una bancarella in centro, in un giorno di pioggia, ho letto un cartello con su scritto: “Qui ombrelli a 3 euro, quando piove a 5 euro”.

cello rain

Pendolari in umido

Piove, senti come piove, Madonna come piove, senti come viene giù… Piove, senti come piove, Madonna come piove, senti come viene giù… Cantava Jovanotti un po’ di tempo fa.

Quando piove, la vita del pendolare si complica ulteriormente. Peggiorano le condizioni del traffico, i ritardi dei treni, e poi lungo tratti a piedi bisogna stare più attenti: le macchine che passano sulle pozzanghere, i passanti che ti vengono incontro a testa bassa puntandoti addosso l’ombrello come un ariete, rischiando di accecarti con le stecche. Insomma, un inferno.

Intendiamoci, a me la pioggia piace. Quando sono in casa e non devo uscire. Quando d’estate ci sono quaranta gradi e porta un po’ di refrigerio. Quando sono sotto le coperte e sento le gocce picchiettare sui vetri della finestra. Ma non oggi, proprio, oggi, no.

E’ lunedì, la settimana è iniziata normalmente, la giornata è passata con le consuete attività. Manca solo un’ora, sto completando le ultime cose, quando sento il rumore di una chiamata su Skype. Mi hanno convocata in una riunione non prevista, dobbiamo pianificare un nuovo progetto, la scadenza è a breve e la nostra presenza è strategica. In altri termini, stasera devo rimanere al lavoro un’ora in più. Vabbè, non è la prima volta, non sarà certo l’ultima. La riunione si svolge senza grosse sorprese, esco, come previsto, un’ora dopo il consueto. Se tutto va bene, riuscirò a prendere il treno delle diciotto e trenta.

Se tutto va bene.

Nel frattempo, arriva il diluvio. Inizia una pioggia fitta e insistente, intervallata da brevi ma frequenti scrosci. Con queste condizioni meteo, vado a prendere l’autobus. Mentre mi avvicino alla fermata, rischio di essere investita da un’automobile sulle strisce pedonali. Gli automobilisti con la pioggia diventano particolarmente aggressivi. Non mi investe, per fortuna, ma già che c’è pensa bene di passare sopra a una pozzanghera e farmi una bella doccia. Maledico lui e anche qualche suo consanguineo. Sotto la pensilina dell’autobus, siamo tutti stipati e fradici. L’autobus passa con quindici minuti di ritardo, pieno zeppo di gente con ombrelli gocciolanti. E’ il caos. Le più comuni norme di civile convivenza sono totalmente disattese: adolescenti che rubano il posto a sedere agli anziani, gente che sale prima di far scendere, un sottofondo di turpiloqui di vario genere. Ad un certo punto una donna che sta per scendere pensa bene di aprire l’ombrello dentro al bus, si incastra nella porta, ostruendo il passaggio sia a quelli che salgono che a quelli che devono uscire. Alla fermata dopo sale un venditore ambulante, con una grossa borsa di plastica azzurra e un minuscolo ombrello a fiori. Esclama: “Porco diavolo, si stava meglio in Africa!” Come dargli torto, in questi momenti!  L’autobus si infogna nel traffico intorno a una rotonda vicino alla stazione. Anche se non sono esperta di rotonde, quella lì deve essere stata proprio progettata male, visto che, invece di favorire il deflusso del traffico, lo congestiona in modo impressionante. Ormai ho la certezza di aver perso il treno. Scendo dall’autobus, entro nella stazione e un barlume di speranza si riaccende: il mio treno ha dieci minuti di ritardo e sta partendo in quel momento. Ovviamente oggi è al binario più lontano, quello senza nemmeno la pensilina. Con altri due pendolari iniziamo lo scatto verso il binario cinque. Una corsa ad ostacoli oggi resa ancor più interessante dal pavimento scivoloso, segnalato da quei simpatici cartelli gialli con disegnato un omino in procinto di cadere. La discesa delle scale del sottopassaggio, rivestite in travertino, è particolarmente insidiosa. Risalgo i gradini del sottopassaggio a due a due. Arrivata in cima però, la delusione: il treno ha già le porte chiuse e sta iniziando  muoversi. Dal finestrino, il capotreno ci guarda, stringe le spalle e ci fa un mezzo sorriso, che vorrebbe forse essere di scusa e di comprensione, ma a me sembra più un sadico ghigno soddisfatto.

Mi rassegno ad aspettare, con i piedi fradici e l’umore nero che più nero non si può, altri cinquanta minuti per il treno successivo.

Quotidiana odissea ferroviaria – reloaded

 

Sottotitolo: meglio un intercity oggi che un regionale veloce mai

 

Premetto che il racconto che segue non è frutto della mia fantasia, ma è realmente accaduto, proprio a me, oggi pomeriggio.

 

Oggi devo rientrare dal lavoro con un po’ di anticipo, mi aspetta l’annuale visita della caldaia a casa. Nel primo pomeriggio mi avvio verso la stazione, entro nella sala di aspetto, guardo il tabellone. Il regionale veloce delle quattordici e quarantatre è previsto al binario quattro, come sempre. Mi incammino verso il sottopassaggio, salgo le scale e percorro la banchina fino in fondo. Questo mi permette di salire sui vagoni di testa che solitamente sono più vuoti e all’arrivo sono più vicini all’uscita. Aspetto leggendo qualche pagina del mio libro. La vocina dall’altoparlante, annuncia che il treno viaggia con un ritardo di cinque minuti. Niente di grave, penso, cinque minuti sono fisiologici, mi preoccuperei se arrivasse in orario. Continuo a leggere. Mi interrompe di nuovo il “dlin dlon” dell’altoparlante che rettifica: il treno è in arrivo con dieci minuti di ritardo. E subito dopo annuncia, al binario tre, l’arrivo dell’intercity previsto alle quattordici e cinquantadue. A me andrebbe bene anche l’intercity, però per fare le cose per bene dovrei correre alla biglietteria e fare l’integrazione all’abbonamento. Inizio a fare i calcoli su chi arriverà prima, sapendo che ogni mia valutazione verrà inesorabilmente confutata dalla legge di Murphy.

Mentre penso e ripenso sul daffarsi parte il valzer dei ritardi: “il regionale veloce viaggia con un ritardo di quindici minuti contrariamente a quanto annunciato in precedenza”, “l’intercity viaggia con un ritardo di dieci minuti”. E ancora, regionale veloce, venti minuti. Intercity, quindici. Venticinque. Venti. Ad un tratto, la sorpresa: il regionale veloce è in arrivo al binario sei. Come un branco di bufali, tipo quelli del parco del Serengeti quando devono attraversare il fiume Mara (ho già usato in un altro post questa metafora, lo so, ma mi piace troppo, è tutta colpa di superquark!), gli aspiranti viaggiatori si buttano nel sottopassaggio per raggiungere il binario sei.

Siamo tutti in fila che ci sporgiamo sul binario per vedere se all’orizzonte appare questo treno fantasma, senza oltrepassare la linea gialla ovviamente, quando giunge un altro messaggio inquietante, l’intercity è in arrivo al binario tre. La tentazione di fare un altro scatto e di salirci abusivamente senza l’integrazione è forte. Però un mix di pigrizia, paura di dover fare una sceneggiata al controllore e fatica di cambiare nuovamente il binario mi fa desistere.

Aspetto con pazienza al binario sei. L’intercity arriva e riparte, quando lo vedo sparire nel punto di fuga della prospettiva dei binari, mi assale una certa inquietudine. E infatti, nonostante la lucina sul tabellone si ostini a lampeggiare per l’arrivo imminente, i minuti di ritardo diventano trenta, trentacinque.

Alla fine ecco il regionale veloce che si avvicina lentamente. Si ferma, vado alla porta della carrozza a me più prossima e, visto che sono la prima ad arrivarci, tento di aprirla. Ma non ci riesco. Ad un tratto, il treno riparte. Che sta succedendo? Riparte senza nemmeno aprire le porte? Le lamentele aumentano di volume. Ma per fortuna il treno percorre soltanto qualche metro e si riferma. Adesso il più vicino alla porta è un signore con una valigia, che riesce dove io avevo fallito.

Saliamo sul treno e ci sistemiamo.  Aspettiamo che riparta. Aspettiamo. Aspettiamo ancora. Si sente gracchiare l’altoparlante, “il treno ha un guasto al locomotore ed è costretto a una sosta della durata al momento non quantificabile, il prossimo treno è in arrivo al binario quattro alle quindici e quarantatre”. Già, perché nel frattempo è passata un’ora dall’inizio di questa avventura. Quindi, di nuovo, la transumanza dei viaggiatori verso il binario quattro. Non mi sembra il caso di riportare qui i loro commenti, potrei urtare la sensibilità dei miei pochi lettori.

Rieccoci, ancora una volta, tutti in fila sul binario quattro. E rieccola, l’odiosa vocina dall’altoparlante: “il treno bla bla bla in arrivo al binario quattro viaggia con dieci minuti di ritardo”. Basta! Vi prego, ditemi che è un incubo, ditemi che siamo tutti su “Scherzi a parte” e facciamoci una risata sopra! Non ce la faccio più!

Ma non è ancora finita. Riecco la vocina stridula e beffarda “Il regionale veloce delle quattordici e quarantatre (quello con il locomotore guasto, per intenderci) è in partenza in ritardo al binario sei”.

E, ancora una volta, la massa informe dei viaggiatori si sposta al binario sei. Solita carrozza, solito posticino, aspettiamo la partenza. Aspettiamo… Aspettiamo ancora… E riecco la vocina: “Si avvisano i signori viaggiatori che questo treno è soppresso”. Ad alcuni viene la bava alla bocca. Ancora, ancora una volta, tutti al binario quattro.

Alla fine, con quindici minuti di ritardo, ecco che arriva piano piano il regionale delle quindici e quarantatre.

Arrivo a casa un’ora e mezzo dopo il previsto. L’appuntamento con il tecnico è saltato, ho perso un pomeriggio di lavoro e ne dovrò perdere un altro la prossima settimana. Che bella giornata!

Fusi orari

La sveglia stamani mi sorprende. “No, è già ora!” Quando la mia testa si solleva dal cuscino, Marco si è già alzato e si sta vestendo. Lui è sempre più reattivo di me la mattina, io sono come un motore diesel, mi ci vuole un po’ di tempo per partire. Mi esorta: “Forza!” Anche io alla fine mi alzo, vado in bagno e inizio a preparare la colazione. Quando arriviamo in cucina siamo ormai sufficientemente svegli, Marco mi racconta della serata passata con gli amici, io lo aggiorno con le notizie dalle vacanze di mio fratello e famiglia. Prendiamo il primo caffè della giornata, quello più buono, quello fondamentale per partire. Tutto come sempre insomma. Ad un certo punto, Marco si rende conto che stiamo sprecando un po’ troppo tempo in chiacchiere per la colazione e mi suggerisce di andare a finire di prepararmi, altrimenti finisce che facciamo tardi, io rischio di perdere il treno e lui trova traffico per la strada. Il suo tragitto in macchina è molto sensibile al traffico, partendo con cinque minuti di ritardo arriverebbe mezzora dopo il previsto al lavoro. “Mamma mia che buio stamani!” Fuori sta piovendo e poi le giornate si stanno accorciando a vista d’occhio. Marco prepara il sacchetto dell’immondizia e lo posa davanti alla porta. Io rifaccio il letto, preparo la borsa con il computer e prendo il cellulare. “Marco, come mai il mio cellulare segna le cinque e undici? Deve proprio avere dei problemi grossi! Anche ieri si è spento all’improvviso.“ Effettivamente sono un paio di giorni che mi dà dei problemi, ma ora è tardi, rimetterò a posto l’orario quando sarò sul treno. Torno in camera per prendere le ultime cose. Usciamo in fretta, chiudiamo la porta. “Che silenzio c’è stamani!” Marco accende la macchina, io butto il sacchetto dell’immondizia e lo raggiungo. Non c’è proprio nessuno per la strada. Arrivati alla stazione, non vediamo le facce di tutte le mattine, un sospetto inizia a farsi strada in entrambi… Ci guardiamo perplessi, le cifre sul display dell’orologio digitale sopra all’ingresso della stazione alla fine ci svelano l’arcano: sono le cinque e venticinque. Per sbaglio, ieri sera abbiamo selezionato sulla sveglia l’orario che avevamo impostato due settimane fa per prendere l’aereo. Insomma, siamo due ore in anticipo, siamo sul fuso orario del Bahrein e dell’Iran, di Cipro e della Bulgaria. Più semplicemente, siamo un po’ fusi e basta!

Non sopporto

Ispirata dalle prime pagine del libro di Paolo Sorrentino che sto leggendo (Hanno tutti ragione, Universale Economica Feltrinelli), stanca, stressata e desiderosa di ferie, voglio fare un elenco delle cose che non sopporto della mia vita da pendolare.

Quindi, oggi eccomi in versione Puffo Brontolone.

Non sopporto i treni affollati, dover smettere di leggere per estrarre dalla borsa l’abbonamento richiesto dal controllore, quelli che mettono i piedi sul seggiolino, quelli che gettano la plastica nel contenitore della carta e viceversa, dover cambiare treno perché quello su cui sono salita è rotto, l’aria condizionata che non funziona, l’aria condizionata che funziona troppo, arrivare alla stazione e dover scendere quando mi manca mezza pagina per finire il capitolo del libro che sto leggendo, i libri con i capitoli troppo lunghi, arrivare in ritardo e non avere il tempo di prendere il caffè al bar della stazione, la gente che urla quando parla al cellulare, le suonerie dei cellulari sparate a tutto volume, assistere alla scenetta tra controllore e passeggero senza biglietto e senza documenti, i bambini che piangono, le panchine tutte occupate quando vorrei sedermi, gli scioperi il venerdì, quelli che rubano il rame, i turisti che invadono con le valigie il corridoio, scendere e risalire le scale del sottopassaggio per cambiare binario, incontrare una vecchia conoscenza (di cui non sentivo proprio la mancanza) e rischiare di perdere il treno perché questa ha da raccontarti tutto-vita-morte-miracoli degli ultimi dieci anni in cui non ci siamo visti.

Non sopporto non avere nessuno che mi aspetta alla stazione, aver voglia di scrivere ma non sapere cosa, avere qualcosa da scrivere ma non avere tempo perché bisogna scendere, ascoltare i resoconti del weekend il lunedì mattina, che pare che tutti siano stati in località meravigliose e abbiano avuto esperienze fantastiche mentre io sono dovuta rimanere a casa per rimettermi in pari con i panni da stirare, arrivare trafelata di corsa sul binario proprio quando il treno sta iniziando a muoversi e le porte sono ormai tutte chiuse, il cambio del binario all’ultimo minuto, avere pochi minuti, a volte secondi, per cambiare da un treno in arrivo al binario 1A ad uno in partenza al binario 17, quelli che prendono il Frecciarossa in orario mentre io sto aspettando la mia caffettiera con le ruote in ritardo, prendere finalmente il Frecciarossa e scoprire che il posto indicato sul biglietto acquistato ieri sera on line coincide con quello di altre due persone, di cui un turista tedesco che non capisce e che pensa che io sia la solita italiana-pizza-mandolino che vuole fregarlo, comprare un ombrello a cinque euro dai venditori ambulanti perché improvvisamente è iniziato a piovere, che si romperà sicuramente appena uscita dalla stazione.

Non sopporto l’odore di umanità che si spande nella carrozza nel tardo pomeriggio quando l’aria condizionata è rotta, i cartelli gialli alle porte rotte, lo spread e il bund, le notizie catastrofiche riportate sui giornali gratuiti distribuiti alla stazione, le mamme che brontolano i bambini che piangono, il telefono che squilla mentre mi sto preparando per scendere, i finestrini bloccati, le porte aperte delle toilette, svegliarsi di soprassalto al suono della sveglia, addormentarsi alle nove di sera davanti alla televisione per la stanchezza accumulata durante il giorno, le pareti del sottopassaggio imbrattate dalle scritte, quelli che ogni  giorno mi si avvicinano per chiedermi qualche spicciolo benedicendo la mia famiglia e raccontandomi per l’ennesima volta tutte le loro sventure, non trovare l’abbonamento nella borsa perché l’ultima volta  il controllore me l’ha chiesto appena prima di scendere e per la fretta non l’ho rimesso nel solito posto.

Non sopporto il salasso al conto corrente che devo fare ogni inizio del mese per rinnovare l’abbonamento, il caldo torrido dell’estate se non sono in ferie, bruciarsi il palato con il caffè bollente, perché sono arrivata tardi stamani, ma non troppo tardi da doverci rinunciare, la nebbia che fa svolazzare i capelli stirati ieri dal parrucchiere, l’affollamento sull’autobus, il treno in ritardo quando ho un appuntamento importante al lavoro, il treno in ritardo la sera quando devo tornare a casa, il treno in ritardo, sempre.

Non sopporto i bivacchi nella stazione, quelli che chiedono di firmare per una petizione e poi chiedono un contributo per sostenere le loro iniziative, gli adolescenti che dicono le parolacce e bestemmiano in modo raccapricciante, la gita della scuola, l’uscita degli scout con i loro zaini megalitici, la gita dei pensionati, che attaccano discorso a chiunque gli capiti a tiro, quelli che dicono “si stava meglio quando si stava peggio”, quelli che dicono che i giovani di oggi non sono buoni a niente, le coppiette di adolescenti che stanno tutto il tempo del viaggio a baciarsi, le ragazzine che passano tutto il viaggio a discutere di smalti, i professori delle scuole superiori che si lamentano dell’inadeguatezza e della maleducazione dei loro studenti.

Non sopporto gli uomini d’affari impinguinati che passano il tempo del viaggio al telefono, discutendo le loro strategie vincenti, le signore che, andando a una visita medica, ritengono opportuno informare chiunque sul loro stato di salute e sull’originalità e gravità dei loro sintomi, gli aumenti del prezzo dell’abbonamento, dimenticarsi di convalidare il biglietto, i surgelati, quelli che salgono sul treno prima di far scendere le persone che sono arrivate, quelli che si piazzano proprio davanti alla porta ostacolando chi vuole scendere, la voce della macchinetta dei biglietti che esclama a tutto volume: “inserire la carta!!!”, non avere lo spazio libero accanto per posare la borsa, l’inizio della scuola, le toilette delle stazioni, la voce dell’altoparlante che mi informa che il treno che sto aspettando “oggi non sarà effettuato, ci scusiamo per il disagio”.