è passato il Carnevale

Mercoledì mattina, piove e i treni sono in ritardo. Decido di ingannare l’attesa prolungata più del solito prendendo un caffè al bar della stazione. Entro, faccio lo scontrino, mi avvicino al bancone e ordino la bevanda al barista. Ascolto distrattamente la radio, sta passando “I will survive”, inizio a canticchiarla.

“First I was afraid, I was petrified…” Muovo appena le labbra, emettendo un suono debole, almeno un’ottava sotto alla brillante voce di Gloria Gaynor, biascicando le parole delle strofe, che non ricordo bene. Noto che altri avventori del locale stanno facendo altrettanto: il labiale è confuso e incomprensibile in tutto il pezzo tranne nella parte “I will survive, eh, ehi” e nella seguente parte strumentale. Mi sembra un brano azzeccato, stamani.

Proprio mentre la canzone sfuma, entra nel locale un personaggio noto. Si tratta di un signore che trovo spesso nella stazione e che in più di un’occasione ha “attaccato bottone”, tentando di coinvolgermi in improbabili discussioni teologiche e di appiopparmi uno dei numerosi opuscoli a sfondo religioso che porta sempre con sé. Cerco di mimetizzarmi con gli arredi del bar, non ho proprio voglia sentire le sue teorie sulla fine del mondo, stamani. Per fortuna, però, la sua attenzione è rivolta al barista.

“Buongiorno!” irrompe con entusiasmo, decisamente non corrisposto dal suo interlocutore. “Come va, stamani?”

“Male!” risponde il barista, tra il distratto e lo scocciato, “Stamani è cominciata male. Non vedi? Piove…”

“Ehhhh” risponde l’uomo con gli opuscoli, un “eeehh” lungo, abbastanza lungo da contenere un “Non ti angustiare troppo, amico mio, c’è di peggio…” e, continua, “Se va male, è perché è passato il Carnevale!

Ed è con questa riflessione profonda, così profonda che non credo nemmeno di averla capita bene, che, di soppiatto, esco dal bar e vado, sotto la pioggia, a prendere il treno. In ritardo.

il grande e potente… Azz

In questo periodo dell’anno, in cui il mio orario di partenza la mattina coincide più o meno con l’alba, il cielo a volte regala degli spettacoli che compensano, almeno parzialmente, il disagio della levataccia. Stamani, per esempio, uno spesso strato di nuvole scure spadroneggiava a est, diventando via via più sottile e rarefatto nella parte alta del cielo, per poi svanire verso ovest. Il sole tentava con fatica di aprirsi uno spiraglio, come se dovesse sollevare una pesante serranda arrugginita e, mi piace immaginare, per lo sforzo era diventato tutto rosso. L’atmosfera era avvolta da questa luce morbida, nei toni dell’arancio, del rosa, del giallo. Tutto sembrava più bello: i visi ancora assonnati dei pendolari, il vetro sudicio dell’ascensore, le baracche abbandonate, persino le macchinette distributrici di cibarie e bevande, sul cui vetro si specchiavano i riflessi rossastri, avevano un inaspettato fascino. Mi sono spostata lungo il binario, verso la fine del marciapiede, per ammirare lo spettacolo e fare qualche foto. A un certo punto una lama di luce ha colpito i binari in un tratto che iniziava pochi metri davanti a me e proseguiva fino al punto ideale in cui, dopo una leggera curva verso sinistra, convergevano, all’orizzonte, rendendoli luccicanti come se fossero fatti d’oro. Una via dorata, quindi, anche se, invece che di mattoni, era fatta di ferro.
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Ho lasciato liberi di correre lungo quei binari luminosi la fantasia e i ricordi delle letture di quando ero piccola, e allora, ecco che la ragazzina “emo” con i capelli per metà neri e per metà blu e gli stivaletti pieni di borchie metalliche che brillavano, come d’argento,  è diventata Dorothy, il signore elegante con il completo grigio e la borsa per il portatile si è trasformato nell’Uomo di Latta, quel ragazzo con i vestiti trasandati, i capelli e la barba incolti non poteva che essere lo Spaventapasseri e la signora seduta sulla panchina, con quella cascata di riccioli biondi, il Leone pauroso. Tutti in attesa del treno per la Città di Smeraldo (previsto in arrivo con dieci minuti di ritardo). La magia è durata solo pochi secondi, poi le nuvole hanno avuto la meglio e tutto è tornato grigio come sempre. Sono rimasta sospesa, ancora per qualche istante, in questa specie di sogno ad occhi aperti, ma ci ha pensato la gracchiante voce dell’altoparlante, l’uccellaccio del malaugurio di noi poveri pendolari, a riportarmi alla realtà quotidiana: “Si avverte la gentile clientela che il treno 12345 proveniente dalla Città di Smeraldo e diretto alla Strega del Sud –quello che sto aspettando io, per intenderci- oggi non sarà effettuato per un guasto al treno, Trenitalia si scusa per il disagio”. Ed è da questo triste e così poco poetico epilogo della vicenda che trae origine il titolo del post 🙂

8 p.m. in Ponte a Elsa

Viaggio di ritorno di un qualsiasi giorno feriale in cui una riunione si è protratta un po’ troppo e ho fatto più tardi del solito. Stanca morta, passo il tempo sul treno leggendo un libro. La linea ferroviaria che percorro quotidianamente ha due caratteristiche che rendono ogni viaggio avventuroso e ricco di imprevisti più o meno (soprattutto meno, devo dire) divertenti. Innanzi tutto, per gran parte del suo percorso, è una linea a binario unico, con tutte le complicazioni che ne conseguono in termini di coincidenze e scambi fra treni che viaggiano in direzioni opposte. Come se non bastasse, nell’arco di poche decine di chilometri ci sono parecchi passaggi a livello e la probabilità che ne rimanga qualcuno erroneamente aperto è piuttosto concreta. Capita quindi abbastanza spesso che il treno si blocchi nel bel mezzo della campagna, per lunghi, lunghissimi minuti, a causa di qualche imprevisto. Di solito il capotreno in questi casi annuncia un “ritardo imprecisato” che, soprattutto di sera, quando hai voglia di spaparanzarti sul divano, fuori è già buio e non si vede niente, mette un pochino di inquietudine.

Siamo fermi già da almeno cinque minuti nel bel mezzo del nulla, quando sospendo la lettura e mi guardo intorno, un poco intimorita. Sul sedile di fianco al mio, dalla parte opposta del corridoio è seduto un signore anziano dall’aspetto simpatico, è salito poco fa, con la coda dell’occhio ho visto che armeggiava con una grossa cartellina da disegno, ma ero concentrata nella lettura e non ci ho fatto troppo caso. Non mi ero neppure accorta che una volta sistemato aveva aperto la cartellina e stava riordinando una serie di disegni realizzati con gli acquerelli, secondo la dimensione, dai più grandi ai più piccoli. Il suo aspetto mi ricorda molto quello di un pittore che avevo incontrato a Montmartre, durante un recente viaggio a Parigi, da cui avevo comprato un quadretto raffigurante la vetrina di uno degli innumerevoli café della capitale francese, che tra l’altro devo ancora appendere in casa.

Il mio sguardo curiosa tra i disegni, dal tratto e dai colori delicati. Uno in particolare mi colpisce: ritrae un grosso castagno dal tronco storto e nodoso e dalle foglie di un delicato colore verdolino. Mentre vedo scorrere i disegni, la mia mente torna a Parigi, immagino di essere non sul Regionale Veloce per Firenze SMN, ma su una linea del metrò parigino, magari la linea 6, quella che a un certo punto sbuca fuori dai sotterranei, attraversa la Senna sul ponte di Bir-Hakeim, per poi continuare in superficie, verso Montparnasse, su una struttura sopraelevata che permette di ammirare le strade, le piazze, i tetti con gli inconfondibili camini: Dupleix, La Motte Picquet-Grenelle, Cambronne… Mi sembra quasi di sentire l’inconfondibile odore di gomma proveniente dagli pneumatici dei treni, caratteristici proprio di questa linea. Immagino poi di scendere dal metrò alla fermata di Abbesses, non con la linea 6 però, quella fa tutto un altro percorso, di risalire le ripide scalinate, girare intorno al Sacre Coeur, raggiungere la Place du Tertre, sedermi ad un tavolino di uno dei tanti café e stare lì ad oziare per tutto il pomeriggio, in perfetto stile flâneur.

L’anziano pittore si accorge della mia curiosità e mi sorride. Ricambio il sorriso e gli dico che i suoi disegni sono molto belli, soprattutto quello del castagno. Non è mia abitudine attaccare discorso sul treno, ma questo signore mi ispira simpatia. “Le piacciono davvero?” mi chiede, con soddisfazione, “Allora gliene faccio vedere altri se vuole, tanto abbiamo tempo…” Siamo infatti ancora fermi nel bel mezzo del nulla. “Volentieri”, rispondo, contenta di aver trovato un insolito diversivo per ingannare quest’odiosa attesa. Inaspettatamente richiude la cartellina, la appoggia sul sedile libero di fronte a lui e si prende dalla tasca un moderno smartphone nero fiammante con annessa mela mangiucchiata. “Vede, io non ci capisco molto con questi aggeggi tecnologici, ma mio nipote che è bravo con i computer, mi ha messo tutti i quadri qui dentro: qui sì che si vedono bene!”. Il resto del nostro viaggio lo passa a scegliere immagini da cartelle virtuali, cliccare, spostare, selezionare, trascinare, ruotare il minuscolo schermo da quattro pollici o poco più, zoomare sui particolari… Per fortuna dopo poco il treno riparte, con solo ventisette minuti di ritardo.

Che peccato, per un attimo avevo quasi immaginato di essere stata catapultata nei magici Anni Venti della Ville Lumière, come lo sceneggiatore e aspirante scrittore Gil in“Midnight in Paris”, ma sono solo le otto e venticinque, qui, a Ponte a Elsa.

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Il treno dopo

A volte mi capita di dover far tardi al lavoro e di prendere il treno dopo, vale a dire quello che parte un’ora dopo l’orario solito. Ieri sera ho dovuto prendere il treno dopo al treno dopo. Mi sono quindi ritrovata alla stazione intermedia, dove devo cambiare, all’ora in cui di norma ho già finito di cenare, di rimettere a posto in cucina e mi sto avviando verso il meritato riposo sul divano.

Stanca morta, mi guardo intorno, un po’ disorientata. Questo luogo di transito dovrebbe essere ormai familiare, invece a quest’ora a malapena riconosco la struttura dell’edificio.

Manca la luce, ormai è buio già da un po’ ed è scesa una nebbia umida e opaca che confonde le forme e nasconde le distanze.

Mancano i gruppetti di studenti di ritorno dalle lezioni a scuola e all’università, chiassosi e allegri.

Mancano le tre signore che passano il tempo del viaggio sferruzzando infaticabili il loro lavoro a maglia, che parlano sempre di analisi mediche e malattie improbabili.

Mancano i ragazzetti che tornano dagli allenamenti di calcio, sempre a discutere tattiche e decisioni del mister.

Manca quel signore in giacca e cravatta, che ha sempre il cellulare appiccicato all’orecchio. Sarà a casa a giocare con il figlioletto. Come faccio a saperlo? Semplice, ho sbirciato lo sfondo del suo tablet una volta mentre scendevo dal treno e ho notato un bambino che rideva su una bicicletta rossa.

Manca il nonno che porta il nipotino a vedere il treno.

Le serrande del bar sono abbassate. Alla biglietteria non c’è più nessuno. Osservo l’immagine di me riflessa dal vetro, è spenta e grigia.

Siamo rimasti in pochi, pendolari ritardatari, e il cupo silenzio che avvolge tutto ci allontana, sembriamo ancora meno.

Sulla panchina lungo il binario due, una donna bionda, avrà sì e no la mia età, parla da sola. Ogni tanto scoppia in una grassa risata che scuote tutta la stazione. Ha con sé uno zaino scucito e due borse di plastica gonfie di oggetti eterogenei, da cui spunta un cartone di Tavernello.

Due uomini, con la barba incolta e i vestiti trasandati, passano in rassegna le macchinette distributrici di bevande e cibarie alla ricerca di qualche monetina dimenticata.

Un controllore, con la sua valigetta nera, si avvia verso l’uscita. Ha ancora la forza e la voglia di fischiettare un motivetto allegro, che stona un po’ con l’atmosfera triste che ha intorno.

Mi sento come catapultata in un mondo parallelo, che non conosco e che temo anche un po’. Una cosa però rimane immutata rispetto alla realtà di qualche ora fa, a me più familiare. Il treno che sto aspettando è in ritardo di più di venti minuti, a  fronte dei dieci silenziosamente dichiarati dal tabellone. Ma a quest’ora nessuno lo annuncia, e nessuno si arrabbia. Tanto, ormai, non c’è più nemmeno fretta.

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Alzarsi la mattina quaranta minuti in anticipo rispetto solito, per prendere il treno che precede quello consueto e arrivare in tempo e possibilmente non troppo trafelata a un importante appuntamento di lavoro, salvo poi vedere vanificare il tutto a causa dei quaranta minuti di ritardo accumulati per “inconvenienti al materiale rotabile” e arrivare al suddetto appuntamento appena in tempo, scapigliata e con il fiatone, non ha prezzo…. Anzi, ce l’ha: centotredici euro e cinquanta centesimi al mese per l’esattezza.

Per tutto il resto, c’è Trenitalia….

2012-08-29 17.41

Giocatori pendolari sfortunati

Ci risiamo. Dopo aver amorevolmente allevato un animalino virtuale in Pet Society, coltivato una rigogliosa fattoria a Farmville e costruito un sontuoso maniero a Castelville, sono ricaduta un’altra volta nella spirale perditempo dei “giochini sociali” (per chi non li conosce, quelli che ho nominato sono dei giochini di Facebook in cui ti ricrei una specie di ambiente virtuale e puoi andare a visitare gli ambienti creati dai tuoi amici, che per l’occasione diventano “vicini” di casa, fattoria, castello ecc.). Questa è la volta dell’ormai universalmente diffuso Ruzzle, di cui ha parlato anche Ilaria in questo suo post. L’ho installato nei giorni passati a casa con l’influenza e mi ci sono un po’ fissata, anche se adesso devo dire che la fase acuta dell’intossicazione è passata. Perché, a onore del vero, pur essendo abbastanza vulnerabile a cadere nella tentazione, a me queste passioni ludiche non durano poi molto, per fortuna. Chissà che fine avrà fatto l’animalino di Pet Society, sarà morto di stenti? E la fattoria di Farmville sarà infestata da erbacce e sterpaglie, mentre il maniero di Castelville starà ormai cadendo in rovina…

Scusate… è appena arrivato il messaggino che mi avverte che un mio amico  vuole sfidarmi a Ruzzle… devo andare… ok, ok, prima finisco il post!

Insomma, ancora non mi è passata, ma ha i giorni contati… Spero… E poi non è mica vero che è il passatempo ideale per il pendolare: a me, per esempio, giocare durante il viaggio, invece di rilassare, innervosisce. Il consueto stress del pendolare si somma alla sottile ansia della competizione, il giochino si insinua nei ritmi e nelle dinamiche del viaggio quotidiano, da un lato condizionandolo, ma anche subendone gli immancabili imprevisti.

Ecco quindi una serie di corollari della legge di Murphy applicabili ai pendolari giocatori di Ruzzle, dimostrati dalla mia seppur breve esperienza personale:

  1. Se aspetti che il treno arrivi prima di iniziare la partita a Ruzzle, il treno non arriverà.
  2. Se, preso dallo sconforto, inizierai la partita, il treno arriverà e dovrai interromperla sul più bello per salire.
  3. Se sei alla stazione e il treno che stai aspettando ha molto ritardo, per qualche motivo non ci sarà il segnale per il cellulare e non potrai giocare.
  4. Se sei sul treno, stai giocando e vincendo una partita a Ruzzle, passerà il controllore e dovrai interromperla.
  5. Se stai perdendo una partita, non passerà nessuno a chiederti il biglietto e potrai perderla in tutta tranquillità.
  6. Se stai vincendo la partita, il treno accelererà e arriverà a destinazione prima che tu la finisca, così la dovrai interrompere per scendere.
  7. Se il treno rallenta e accumula ritardo, lo farà in un punto della linea dove non c’è segnale e non potrai giocare a Ruzzle per passare il tempo.
  8. Se stai vincendo una partita il cellulare si scaricherà e si spegnerà, non avrai con te il cavetto per ricaricarlo e dovrai aspettare l’arrivo per vedere come va a finire.
  9. Se ti sposti in disparte sulla banchina per concentrarti in vista del terzo round a Ruzzle contro il tuo acerrimo avversario, inizierà a piovere e dovrai tornare di corsa sotto la pensilina, in mezzo alla calca.
  10. In tutti questi casi il tuo avversario a Ruzzle sarà comodamente seduto sul divano di casa, in condizioni psicofisiche ottimali per concentrarsi sul giochino, e ti sconfiggerà in modo impietoso.

 

Insomma, è chiaro che questo giochino, apparentemente un innocuo passatempo per ingannare l’attesa durante il viaggio, in realtà è fonte di tensioni, arrabbiature, corse e stress.

La conclusione? Meglio, molto meglio, un bel libro.

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Il thriller del tabellone

Con questo post festeggio il primo compleanno del blog, evviva! Non credevo di avere la costanza e il materiale  per scrivere con continuità per un anno intero e invece… eccoci qua! Per l’occasione ho anche cambiato look al blog: via il vecchio abito bianco e nero, ho scelto  un rilassante tema azzurrino, anche perché, come si usa dire da queste parti, “il celeste tutti i brutti li riveste” 😀 Grazie a tutti quelli che in questo anno hanno letto e apprezzato le mie storielle, spero che continuerete! Buona lettura!

Sono ormai diversi anni che, quasi quotidianamente, mi trovo ad avere a che fare con treni, orari e coincidenze, ma a certi fenomeni ancora non riesco ad abituarmi. Soprattutto, non riesco a comprenderli, perché, ne sono sicura, deve esistere una spiegazione logica, una motivazione, ma io non ci arrivo proprio.

Sto parlando della segnalazione dei treni in partenza e dei relativi binari nel tabellone dell’orario della stazione di Firenze – Santa Maria Novella, non so se è così anche nelle altre grandi stazioni.

Fino a qualche anno fa sopra alla scritta Salone Biglietti  della stazione troneggiava un enorme tabellone meccanico. Quando si aggiornava, riga per riga, le lettere della destinazione e le cifre dell’orario iniziavano a girare vorticosamente con un delicato trrrrrr che progressivamente trasformava Milano C.le in Pistoia, Pistoia in Roma Termini, Roma Termini in Pontassieve ecc.. C’era suspance, sembrava di essere alla Ruota della Fortuna.

La stazione si sta modernizzando: al posto delle sale d’attesa sono  spuntati un negozio di abbigliamento e il Club Eurostar, le severe geometrie del razionalismo italiano, di cui la stazione è un celebre esempio, sono sempre più interrotte da scritte fluorescenti. E anche il tabellone meccanico è stato sostituito da uno digitale, con le scritte arancioni che si aggiornano velocemente e in silenzio.

Questi ammodernamenti non hanno però risolto uno dei problemi che mi ha generato in molte occasioni un po’ d’ansia. La situazione tipica, che di solito si verifica nei giorni in cui non puoi proprio arrivare tardi, in cui hai gli orari strettissimi o appuntamenti importanti, è la seguente: il treno è previsto in partenza tra dieci minuti ma ancora sul tabellone il binario non è indicato, non è neppure indicato alcun ritardo. Passano lentissimamente i dieci minuti, lo sguardo oscilla tra l’orologio e il tabellone, come quello degli spettatori di una partita di tennis. Allo scadere dei dieci minuti, a fianco del nome del treno, sul tabellone, appare una cifra, un “5”, non in corrispondenza del binario però, bensì nella colonna che riporta i minuti di ritardo. L’attesa si prolunga e la tensione cresce. Passati i cinque minuti, ovviamente non succede niente e inizi a fare ragionamenti su dove possa essere andato a finire il treno, vai al tabellone cartaceo per trovare una prova tangibile che il treno esiste, ti ripeti ossessivamente in testa: “Eppure l’orario è quello giusto, eppure oggi non c’è sciopero, ho controllato, eppure oggi sono stata attenta…”

E inizi a pensare a possibili alternative e a calcolare i tempi necessari per cambiare strategia. Intanto i minuti di ritardo diventano dieci, e poi quindici. Per scaricare la tensione inizi a giocherellare con il telefono, a sfogliare il giornale, a spostarti avanti e indietro per la stazione, seguendo quella specie di corsie virtuali create sul pavimento alternando le lastre di marmo rosso a quelle di colore bianco. Appena ti distrai per un attimo, ecco che sul tabellone appare finalmente il numero del binario, ovviamente è dalla parte opposta rispetto a quella in cui ti trovi adesso. E, giusto per dare il colpo di grazia al sistema nervoso, appena aggiornato il binario, inizia a lampeggiare la lucina che indica la partenza imminente.

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Poggio e buca fan pari

Chi l’ha detto che la vita del pendolare è monotona? Ogni viaggio è una sorpresa, bella o (spesso ahimè) brutta. Quello di stamani ad esempio come posso definirlo? Non saprei, diciamo insolito. Ad attendermi alle 7.20 sul binario c’è una serie di carrozze nuove di zecca, come ieri, wow! Allora non è una coincidenza! Devono essere quelle di cui parlavano i quotidiani locali qualche giorno fa, acquistate dalla Regione per i treni pendolari. A dire il vero non speravo che toccassero proprio a me.  Ne scelgo una, salgo i gradini, entro, mi accoglie un’atmosfera insolita. Sento una musica nell’aria, a volume piuttosto alto, cerco la sorgente e mi accorgo con sorpresa che proviene dagli altoparlanti all’interno del vagone. Si tratta della Cavalcata delle Valchirie di Wagner, o, meglio, ascoltando con attenzione, di un pezzetto di quel brano di circa trenta secondi, riproposto ciclicamente. L’aria condizionata piuttosto gelida e il ritmo serrato del pezzo mi svegliano bruscamente dal torpore mattutino, come uno schiaffo. Mi siedo, per fortuna il treno è poco affollato, accendo il computer e inizio a lavorare. Alle note Wagner intanto si sostituisce la voce del capotreno, che con tono chiaro e gentile ci informa sulle fermate intermedie e sull’orario di arrivo.  Sono proprio contenta, non sono abituata a viaggiare in condizioni così confortevoli (l’aria condizionata è un po’ freddina, è vero, ma è sempre meglio di quando è rotta e il treno si trasforma in una fonderia). Lo so, non mi devo illudere, domattina probabilmente ci sarà il treno scassato degli altri giorni, ma per ora godiamoci il presente. Mentre mi abbandono a queste riflessioni ricche di soddisfazione, immagino un mondo di treni perfetti con temperatura perfetta e orari perfetti, una goccia di acqua dal soffitto cade proprio nel mezzo della tastiera del mio MacBook. Alzo lo sguardo e mi accorgo che, proprio sopra di me, lungo la canalina che percorre tutto il vagone, c’è una grossa fessura, da cui gocciola la condensa dell’aria condizionata. Ecco, appunto, mi sembrava che funzionasse tutto troppo bene! A parte questo piccolo neo, al quale ovvio semplicemente cambiando posto a sedere, il viaggio procede regolarmente: partenza e arrivo in orario, tutto calmo, a parte la consueta scenetta tra controllore e passeggero senza biglietto. Arrivo in ufficio più contenta del solito e la giornata lavorativa si rivela rilassata e proficua. Insomma, inizio a illudermi che forse il sistema funzioni. E rifletto anche su come sarebbe bello, quanto migliore sarebbe la nostra vita, se il sistema funzionasse!

Ma… che post sarebbe se non ci fosse un ma? E, infatti, come dice mia nonna, “poggio e buca fan pari”, per ristabilire il consueto tasso di disagio e malumore quotidiani, durante il viaggio di ritorno succede di tutto. Arrivo alla stazione e il binario del mio treno non è segnato sul tabellone. Il treno precedente, il locale che si ferma in tutte le stazioni, è previsto con trentacinque minuti di ritardo. I treni provenienti dalla direzione opposta viaggiano con ritardi di quindici e trentacinque minuti. Completano il quadro trentasette gradi di temperatura esterna e un’umidità assurda. Ho un brutto presentimento che presto si materializza: il locale viene soppresso e il mio cosiddetto regionale veloce oggi deve fare tutte le fermate… Tranne la mia ovviamente! Quindi, dovrò comunque cambiare treno a metà strada, ma con queste perturbazioni mi salteranno tutte le coincidenze.

Mentre scrivo, sono appena partita, il treno è pieno zeppo a causa della cancellazione di quello precedente, in un gruppetto più avanti, altri pendolari, si stanno raccontando a vicenda storie di ordinaria follia ferroviaria, storie di treni soppressi, spostati, compressi… Chissà a che ora arriverò?

Il canto delle sirene

Oggi propongo un racconto, ambientato come al solito sulle nostre linee ferroviarie regionali, ispirato dalle avventure del mitico Odisseo, narrate nel capolavoro della tradizione greca ma soprattutto dalle mie esperienze quotidiane.

Ecco quindi l’avventura di oggi dell’impavido Ulisse, che, dopo una giornata di lavoro intensa, è naufragato in una stazione di provincia. Appena sceso da un primo treno, aspetta la coincidenza con il secondo, che lo porterà fino a destinazione, alla sua cara Itaca.

Fuori tema: in questo momento è passato il controllore a verificare l’abbonamento, se immaginasse le cose che sto scrivendo…

Ma torniamo alla testimonianza del nostro Odisseo…

Come i muli si inerpicano sulla montagna percorrendo per anni sempre gli stessi sentieri, anche io scendo pazientemente le scale del sottopassaggio, procedo senza alzare il capo verso il binario, risalgo lentamente.

Arrivato sul binario però qualcosa mi disturba, c’è un’anomalia rispetto al consueto, nel binario accanto, di solito libero a quest’ora, oggi c’è un treno, aperto, fermo. Alzo lo sguardo verso il tabellone e vedo che la destinazione è la stessa del mio, Itaca Centrale, ma l’orario corrisponde alla corsa precedente, con a fianco un bel 15 min. in corrispondenza del ritardo.

C’è qualcosa che non va, dunque, sono le 17.56, il treno precedente doveva partire alle 17.28, con 15 minuti di ritardo, facendo il conto… no, non ci riesco a fare il conto a quest’ora, comunque penso che sarebbe dovuto partire già da un bel po’.

Ma in fondo, cosa me ne importa? Io devo prendere quello dopo… E invece no, me ne importa, eccome, perché a causa di questo ritardo, erroneamente segnalato tra l’altro, tutti i passeggeri si sono riversati nel mio e adesso non c’è più posto nemmeno in piedi nelle toilette.

No, non ce la posso fare dopo una giornata così a stare ancora trentacinque minuti in piedi, pressato, in mezzo a un gruppo di turisti giapponesi, ognuno dei quali con un paio di valigie  di un metro cubo ciascuna. Mi allontano tristemente e mi siedo nella panchina lungo il binario, aspettando che la sorte mi sorrida di nuovo.

Naufragato sull’anonimo binario di una stazione secondaria, iniziano i miraggi. Vedo un Frecciarossa che si ferma davanti a me, scende un controllore e mi annuncia che sostituisce il regionale misteriosamente scomparso (ancora, sul tabellone, è segnalato con quindici minuti di ritardo). Ma l’illusione svanisce subito e il Frecciarossa si trasforma in uno sferragliante convoglio merci che trasporta cisterne variopinte contenenti chissà cosa.

Ed eccolo, il canto delle sirene, che m’ipnotizza, che mi chiama: “Regionale 12432 proveniente da… e diretto a… in arrivo al binario sei”. Poi, mi rassicura: “Treno in transito al binario quattro, allontanarsi dalla linea gialla”. E ancora, mi avverte: “Si avvisano i signori viaggiatori che è vietato aprire le porte e salire e scendere dal treno quando questo non è completamente fermo”. E mi protegge: “Si invitano i signori viaggiatori a non lasciare incustoditi i propri bagagli”. Ma non dice niente sulla sorte del treno scomparso, è come se fosse stato dimenticato, eppure è lì, vuoto, che aspetta chissà cosa.

Passa il tempo e si approssima l’arrivo della nuova corsa, quella che spero di poter finalmente prendere. E a un tratto, il tabellone accanto al treno abbandonato si rianima, la lucina gialla inizia a ballare freneticamente segnalando l’imminente partenza, con un ritardo annunciato di settanta minuti. E le sirene iniziano a chiamarmi: “Regionale 13425, diretto a Itaca Centrale in partenza in ritardo  al binario quattro”. E iniziano anche a confondermi: “Regionale 12345, proveniente da … e diretto a Itaca Centrale in arrivo al binario sette”.

Adesso il calcolo però lo devo proprio fare, chi partirà prima? Tra i due c’è una differenza nominale di quattro minuti, ampiamente all’interno della zona d’incertezza. Ovviamente i due sono in binari lontani tra loro e non è possibile usare il trucco di aspettare fino all’ultimo minuto. Bisogna fare una scelta. Decido di prendere quello teoricamente in orario.

Effettivamente arriva prima, ce l’ho fatta, ho vinto la scommessa, mi sento felice come se avessi fatto sei al Superenalotto (non esageriamo, diciamo come se avessi fatto quattro, è più realistico), felice di arrivare a casa con solo quaranta minuti di ritardo.