E’ quasi patologico, ormai: anche in vacanza, non riesco a evitare di scattare foto mentre prendo i mezzi pubblici… 🙂
Un tipo quadrato, di poche parole, ma ben inquadrato, solido, diciamo. Un carattere spigoloso, forse un po’ troppo rigido, ma, in fondo in fondo, dal cuore tenero. Un fisico robusto, bello pieno. È abituato a viaggiare, fa proprio parte della sua natura, si vede. Penso sia americano, a sentire le sue amiche, sedute lì, accanto. Perché lui tace, guarda solo fuori dal finestrino, in silenzio. Eppure, a guardarlo bene, sembrerebbe alla mano. E anche pieno di risorse, proprio pieno zeppo, sì. Se proprio vogliamo trovargli un difetto, beh, mi sembra un po’ pesante, ecco. Non legge, non dorme, non ascolta la musica, non smanetta con il telefono, semplicemente, siede, impettito, leggermente infastidito dal riflesso del sole sul finestrino, e aspetta di arrivare dove deve arrivare. Non cambia mai posizione, oscilla solo leggermente quando il vagone passa sopra uno scambio: non se lo aspettava, evidentemente, ma, a parte il leggero tremolio, non mi pare troppo infastidito. Arriva il controllore, verifica i biglietti delle due amiche americane e passa oltre, lo ignora. Sale una signora un po’ anziana, claudicante, lo guarda male, probabilmente vorrebbe sedersi al suo posto (“ah questi giovani di oggi!”, leggo nel suo sguardo), ma ce n’è un altro libero, più avanti, e procede oltre. Il treno rallenta, tra poco devo scendere, faccio appena in tempo a immortalarlo in una foto con il cellulare, per poterlo presentare anche a voi, il mio vicino di viaggio di oggi, un tipo quadrato, di poche parole. 🙂
Come ogni primo giorno del mese lavorativo, Pendolo partì di casa quindici minuti prima del solito per recarsi alla stazione: quella mattina doveva rinnovare l’abbonamento. Alla biglietteria c’era una bella coda, decise quindi di mettere da parte la sua innata avversione nei confronti di tutti i congegni tecnologici e di affrontare una delle due temutissime macchinette automatiche. A dire il vero la fila era tutta alla biglietteria umana, non c’era nessuno alle macchinette e questo già sarebbe bastato a qualsiasi pendolare con un minimo di esperienza a far venire almeno un leggero sospetto… Ma i due dispositivi erano accesi, su entrambi appariva un invitante messaggio di benvenuto e non c’erano avvisi o segnali particolari, quindi, di che doveva aver paura? Se fossero state guaste, se ci fossero stati problemi di qualsiasi tipo, lo avrebbero segnalato, no? Ahimè, il buon Pendolo era un inguaribile ottimista e confidava sempre nella fortuna, nella buona fede e nella buona volontà altrui, specialmente di lunedì mattina.
Alla macchinetta, selezionò con cura la stazione di partenza e quella di arrivo, specificò cognome, nome e data di nascita. La macchinetta, senza fare tanti complimenti, gli chiese subito di pagare la consistente gabella mensile. Selezionò la modalità di pagamento con bancomat, al che il freddo marchingegno ordinò, con voce decisa: “Inserire la carta!”. Pendolo eseguì il comando, un po’ timoroso. Uno strano rumore di aggeggi meccanici che sbattevano tra loro, frammisto a un poco rassicurante ronzio elettrico, iniziò a uscire dalla fessura dove aveva inserito la tesserina magnetica. Dopo qualche istante, la voce imperiosa ordinò: “Estrarre la carta!” Pendolo, di nuovo, obbedì. Per fortuna la tesserina magnetica era ancora integra. Non era ancora passata una frazione di secondo che l’odiosa macchinetta ordinò: “Inserire la carta!” E lui, scattando sull’attenti come al comando di un ufficiale, obbedì. Di nuovo, si ripeté lo strano rumore meccanico, come di denti metallici intenti a masticare un pezzo di plastica, e di nuovo, l’irrazionale ordine: “Estrarre la carta!”
Dietro di lui si era intanto formata una piccola coda, capeggiata da un turista straniero, magrolino e piccoletto, dall’incredibile somiglianza con Einstein, che ballonzolava avanti e indietro, nervoso, e commentava: “Iz leit, iz leit, de ticchet, ai nid de ticchet!”.
Un altro tentativo ancora, ma niente, la macchinetta non ne voleva sapere della tesserina magnetica del povero Pendolo. Alla terza iterazione inserire/estrarre la carta, si rassegnò all’idea che quella macchinetta fosse guasta e si decise a provare l’unica altra disponibile. Ma le persone che stavano dietro di lui avevano avuto la stessa idea una frazione di secondo prima e tutta la coda si era già spostata in modo monolitico, così che il povero Pendolo si ritrovò all’ultimo posto della fila, a pochi minuti dalla partenza del suo treno.
Era il turno del turista sosia dello scienziato, anche lui era in palese difficoltà, probabilmente aggravata dal suo essere straniero e dalla poca confidenza con le ribelli macchinette italiche. Continuava a inserire e disinserire velocemente una tesserina magnetica dorata, brontolando nervosamente “Iddasen uok, iddasen uok” per poi guardarsi intorno, preoccupato, “ueris di ader, ueris di ader”. Pendolo iniziava a temere seriamente di perdere il treno, guardando il tabellone si accorse infatti che era iniziata a lampeggiare la lucina che indicava l’imminente partenza.
I minuti successivi gli sembrarono lunghi quanto secoli. Un signore in giacca e cravatta si offrì di aiutare l’inesperto turista; in due, tentando di dialogare tra loro in una strana lingua, ce la fecero a stampare l’agognato biglietto. Dopo il turista toccava a una ragazza con un ciuffo viola e le unghie variopinte, troppo lunghe per poter interagire per bene con il touch screen della macchinetta: ci mise un bel po’ a stampare l’abbonamento. Era poi il turno del suddetto signore in giacca e cravatta, che si era già dimostrato un pendolare esperto e per fortuna impiegò pochissimo tempo, poi toccava a uno studente con il cavallo dei pantaloni pericolosamente basso e un paio di cuffie gigantesche alle orecchie, da cui filtravano inconfondibili note distorte heavy metal…
Alla fine anche Pendolo ce la fece a raggiungere la testa della fila. Al primo tentativo l’algoritmo s’inceppò sulla selezione della stazione di arrivo, fissandosi per lunghi, lunghissimi istanti, su un’insopportabile schermata con su scritto “Attendere, prego”, per poi resettarsi all’improvviso. Pendolo ormai aveva perso il proverbiale buonumore mattutino, sostituito da un desiderio irrefrenabile di sfasciare quel marchingegno maledetto a colpi di spranga. Trovò tuttavia la forza di resistere e riprovò con più attenzione, tenendo a fatica a bada il fascio dei suoi nervi imbizzarriti. Ogni volta che toccava il touch screen per selezionare le varie opzioni, lo faceva ormai con cattiveria e violenza, come se il suo dito indice fosse il coltello di un efferato assassino che infieriva sulla sua vittima. Finalmente, brontolando, sferragliando, recalcitrando, la dannata macchinetta, offesa, ferita, stizzita, sputò disgustata l’agognato pezzetto di cartoncino mensile.
La lucina sul tabellone continuava a lampeggiare, c’era un tenue barlume di speranza di poter prendere il treno. Pendolo si fiondò sulle scale del sottopassaggio, scendendo e poi risalendo i gradini a due a due, aiutandosi anche con le braccia, con la grazia di un gibbone in fuga nella foresta. Quando riemerse dal sottopassaggio, fece appena in tempo a vedere la coda del treno sparire, dietro la curva appena fuori dalla stazione. Dal finestrino dell’ultimo vagone gli sembrò persino di vedere un ghigno soddisfatto sul volto del capotreno, ma forse quella era solo un’impressione.
Tanta fatica per niente, aveva perso il treno e ora doveva aspettare per quaranta minuti quello successivo. Che ovviamente arrivò in ritardo. Ritardo sul ritardo, ritardo al quadrato, all’ennesima potenza, anzi, ritardo esponenziale. Al lavoro lo aspettava di sicuro una bella ramanzina da parte del suo capo… Ed era pure iniziato a piovere… E non aveva nemmeno l’ombrello… E faceva un gran freddo, lì, sul binario, ad aspettare… Ed era solo lunedì.
Essere pendolari tra due delle città più belle d’Italia, anzi, direi del mondo, è davvero un privilegio. Poter far colazione prima di partire all’ombra della cupola del Brunelleschi e magari prendere il caffè dopo pranzo in piazza del Campo non è da tutti… Ma, ovviamente, pur avendone la possibilità, non lo faccio mai: la mattina sono sempre di fretta, riesco a malapena a prendere il treno di corsa e a pranzo difficilmente esco, troppo presa dalle questioni di lavoro.
Quando ero ragazzina e vivevo in campagna ero abituata a riconoscere l’inizio della bella stagione con l’arrivo delle rondini e il canto del “cucco” (come è chiamato il cuculo dalle mie parti). I tempi sono cambiati: come il ragazzo della via Gluck, sono andata a vivere in città e adesso, invece la primavera per me arriva quando vedo per le strade e i marciapiedi, i piedi nudi delle turiste americane ciabattare nelle infradito, bianchi come le vecce, direbbe la mia nonna. Di solito questo succede verso fine febbraio: io giro ancora con il piumino, gli stivali e i calzettoni di lana, mentre loro osano già minigonne vertiginose e shorts variopinti. Non so come facciano a non prendere un accidente! Sono sempre allegre e chiassose, soprattutto la sera, grazie anche a qualche bicchiere (o bottiglia) di Chianti di troppo: la gioia dei giovanotti autoctoni a caccia di nuove conquiste esotiche. Prendono sempre il treno di corsa all’ultimo momento, irrompendo rumorosamente nello scompartimento e passando il tempo del viaggio tra risate grasse e cori improvvisati.
I giapponesi sono invece i turisti più disorientati. Viaggiano sempre con gli occhi fissi sulla mappa aperta, rischiando di investire coloro che si trovano sul loro tragitto. Sono quelli che mi fermano più spesso per chiedermi informazioni, di solito non sono mai dove pensavano di essere e li devo reindirizzare. Dato che né il mio né il loro inglese è a livelli shakespeariani, la nostra conversazione si trasforma inesorabilmente in uno spettacolo di mimo improvvisato per strada. Quando pensano di avere capito, mi ringraziano con un leggero inchino e si incamminano, sempre controllando la mappa. Alla stazione più volte li ho sorpresi a fotografare i treni, non solo Italo o le Frecce, ma soprattutto i regionali scassati… Forse nel loro mondo iper-tecnologico le nostre vecchie caffettiere sono degli affascinanti pezzi vintage… chissà…
I più preparati sono i tedeschi: nella mano destra una guida intitolata “Toskana”, un pratico zainetto in spalla, una reflex con uno zoom a cannone al collo, giubbottino leggero senza maniche da pescatore su camicia a quadretti, cappellino con visiera Jack Wolfskin, pantaloni al ginocchio e ovviamente gli immancabili sandali con calzino bianco. Sul treno sono quieti e tranquilli, non sbagliano mai un orario o una fermata. Leggono la guida, riguardano gli scatti della giornata o, più semplicemente, dormono tranquilli, come questi due qui 🙂
Un po’ li invidio, i turisti: anche a me piacerebbe avere più tempo per andare a scoprire le meraviglie delle mie città. A volte, quando vedo un gruppo con la guida, mi avvicino per sentire cosa sta raccontando. Spesso scopro cose che non sapevo, e mi sento un po’ in colpa: ma come, questi attraversano mezzo mondo per vedere questo palazzo, ed io, che ci passo tutti i giorni sotto, nemmeno me ne accorgo?
Oggi* cambio di orario e di mezzo. Sono seduta nella sala d’attesa della stazione degli autobus, aspettando la mia corsa, prevista in partenza per le 13.35. Accanto a me un turista giapponese fissa già da un po’ la stessa pagina della guida che ha in mano, probabilmente si è appisolato, ma da qui non riesco a capire bene. Ecco arrivare due adolescenti appena usciti da scuola, strascicando i piedi: il primo è esile e minuto, ha una criniera bionda che gli scende fin sulle spalle, abbigliamento e accessori da metallaro, il secondo, un po’ più alto e robusto, sfoggia una bella acconciatura da “Ultimo dei Mohicani” e una ricca collezione di pearcing sulle orecchie e sul sopracciglio sinistro. Alla mia sinistra, all’angolo, una tranquilla signora, ha con se una piccola valigia un po’ rétro, piena zeppa.
Al nostro eterogeneo gruppetto in attesa si avvicina un’altra signora, visibilmente disorientata, visibilmente nord-europea, guardando alternativamente una mappa che regge con la mano sinistra, essendo la destra impegnata nel trascinare un trolley blu scuro, e un punto imprecisato di un orizzonte che non esiste, essendo tutti noi dentro a un’autostazione.
La nuova arrivata si siede titubante accanto all’altra signora, le due sono quasi coetanee, stimo, ma totalmente diverse tra loro: la prima arrivata è bassa, cicciottella, con i capelli mori raccolti dietro la nuca, la turista disorientata è invece alta, magra, con un collo molto lungo e capelli biondissimi tagliati a caschetto. Lo so, la descrizione sembra un po’ stereotipata, ma è proprio così che erano queste due mie compagne di attesa di autobus delle 13.35 di ieri.
Dopo un breve sorriso e un educato saluto, la signora appena arrivata rivolge all’altra la classica domanda:
“Exuse me, do you speak English?”
L’altra rimane un attimo interdetta, inizia a scuotere la testa per negare, ma non fa in tempo a rispondere niente che la nostra turista continua:
“I need to go to S’nta M’ria N’v’lla railway station…”
Nel sentire le parole “Santa”, “Maria” e “Novella” la passeggera autoctona si illumina. Certo che lo sa dov’è! E non sarà certo la non conoscenza della lingua a impedirle di comunicarlo. Insomma, siamo o no discendenti di Marco Polo e Cristoforo Colombo? Figuriamoci se non riuscirà a far capire da questa turista danese, tedesca, olandese o qualsiasi cosa sia, dov’è la stazione di Santa Maria Novella (che, tra l’altro, è vicinissima: basta uscire dal garage degli autobus e ce la troviamo praticamente davanti).
Inizia così una descrizione del percorso a metà tra lo spettacolo di un mimo e i comunicati della sicurezza delle hostess sugli aerei prima del decollo:
“Allora, qui fuori a destra…”
(nel pronunciare la parola destra solleva vistosamente il corrispondente braccio per far capire bene la direzione)
“…c’è l’USCITA, U-SCI-TA…”
(scandisce bene la parola USCITA, con volume molto alto, come se la non conoscenza della lingua italiana della povera turista dovesse essere necessariamente accompagnato a una qualche forma di sordità, e tracciando con gli indici delle sue mani, nello spazio davanti a lei, la parte superiore di un rettangolo delle dimensioni approssimative di una porta)
“… poi gira a sinistra…”
(evidenzia l’azione mostrando il braccio corrispondente, il sinistro in questo caso, e flettendo il polso ad angolo retto, in quello che nel suo linguaggio corporale dovrebbe rappresentare l’atto dello svoltare)
“… e va avanti per venti metri…”
(il venti è facile da rappresentare, basta mostrare per due volte le dieci dita di entrambe le mani, per essere sicura ripete questa operazione due volte, per un totale di quaranta dita)
“… poi attraversa al semaforo …”
(rappresentato formando un cerchio con i pollici e gli indici delle due mani)
“… e sale le scalette …”
(per spiegare l’azione del salire le scale, fa oscillare alternativamente indice e medio della mano destra, mentre il polso descrive una traiettoria ascendente)
“… e così arriva a Santa Maria Novella.”
La signora nord-europea osserva, durante la descrizione, con aria piuttosto dubbiosa, e ripete in scala ridotta le coreografie della sua improvvisata guida, per fissare bene le informazioni ricevute. Appena sente dire “Santa Maria Novella” capisce che il percorso virtuale è giunto a destinazione e ringrazia gentilmente. Il suo sguardo mi ricorda quello mio e dei miei compagni di classe quando il professore di chimica, alla fine della lezione, ci chiedeva: “E’ tutto chiaro?” Ed era chiaro che niente era chiaro, ma nessuno osava farglielo notare, per evitare che ripartisse con la supercazzola. E infatti la nostra turista si affretta ad alzarsi, riprende mappa e trolley, saluta educatamente tutto il gruppetto, compresi i due metallari, che ricambiano con uno sguardo distratto, e si avvia velocemente verso l’uscita.
* (in realtà la storia è di ieri ma solo oggi ho avuto tempo per trascriverla e pubblicarla)