Giocatori pendolari sfortunati

Ci risiamo. Dopo aver amorevolmente allevato un animalino virtuale in Pet Society, coltivato una rigogliosa fattoria a Farmville e costruito un sontuoso maniero a Castelville, sono ricaduta un’altra volta nella spirale perditempo dei “giochini sociali” (per chi non li conosce, quelli che ho nominato sono dei giochini di Facebook in cui ti ricrei una specie di ambiente virtuale e puoi andare a visitare gli ambienti creati dai tuoi amici, che per l’occasione diventano “vicini” di casa, fattoria, castello ecc.). Questa è la volta dell’ormai universalmente diffuso Ruzzle, di cui ha parlato anche Ilaria in questo suo post. L’ho installato nei giorni passati a casa con l’influenza e mi ci sono un po’ fissata, anche se adesso devo dire che la fase acuta dell’intossicazione è passata. Perché, a onore del vero, pur essendo abbastanza vulnerabile a cadere nella tentazione, a me queste passioni ludiche non durano poi molto, per fortuna. Chissà che fine avrà fatto l’animalino di Pet Society, sarà morto di stenti? E la fattoria di Farmville sarà infestata da erbacce e sterpaglie, mentre il maniero di Castelville starà ormai cadendo in rovina…

Scusate… è appena arrivato il messaggino che mi avverte che un mio amico  vuole sfidarmi a Ruzzle… devo andare… ok, ok, prima finisco il post!

Insomma, ancora non mi è passata, ma ha i giorni contati… Spero… E poi non è mica vero che è il passatempo ideale per il pendolare: a me, per esempio, giocare durante il viaggio, invece di rilassare, innervosisce. Il consueto stress del pendolare si somma alla sottile ansia della competizione, il giochino si insinua nei ritmi e nelle dinamiche del viaggio quotidiano, da un lato condizionandolo, ma anche subendone gli immancabili imprevisti.

Ecco quindi una serie di corollari della legge di Murphy applicabili ai pendolari giocatori di Ruzzle, dimostrati dalla mia seppur breve esperienza personale:

  1. Se aspetti che il treno arrivi prima di iniziare la partita a Ruzzle, il treno non arriverà.
  2. Se, preso dallo sconforto, inizierai la partita, il treno arriverà e dovrai interromperla sul più bello per salire.
  3. Se sei alla stazione e il treno che stai aspettando ha molto ritardo, per qualche motivo non ci sarà il segnale per il cellulare e non potrai giocare.
  4. Se sei sul treno, stai giocando e vincendo una partita a Ruzzle, passerà il controllore e dovrai interromperla.
  5. Se stai perdendo una partita, non passerà nessuno a chiederti il biglietto e potrai perderla in tutta tranquillità.
  6. Se stai vincendo la partita, il treno accelererà e arriverà a destinazione prima che tu la finisca, così la dovrai interrompere per scendere.
  7. Se il treno rallenta e accumula ritardo, lo farà in un punto della linea dove non c’è segnale e non potrai giocare a Ruzzle per passare il tempo.
  8. Se stai vincendo una partita il cellulare si scaricherà e si spegnerà, non avrai con te il cavetto per ricaricarlo e dovrai aspettare l’arrivo per vedere come va a finire.
  9. Se ti sposti in disparte sulla banchina per concentrarti in vista del terzo round a Ruzzle contro il tuo acerrimo avversario, inizierà a piovere e dovrai tornare di corsa sotto la pensilina, in mezzo alla calca.
  10. In tutti questi casi il tuo avversario a Ruzzle sarà comodamente seduto sul divano di casa, in condizioni psicofisiche ottimali per concentrarsi sul giochino, e ti sconfiggerà in modo impietoso.

 

Insomma, è chiaro che questo giochino, apparentemente un innocuo passatempo per ingannare l’attesa durante il viaggio, in realtà è fonte di tensioni, arrabbiature, corse e stress.

La conclusione? Meglio, molto meglio, un bel libro.

ruzzle

Per cortesia!

Stamani piove e come sempre in questi casi il primo treno della mattina è in ritardo così che devo rinunciare al cappuccino al bar appena fuori dalla stazione, peccato, perché ne ho proprio bisogno, per affrontare meglio questo freddo e questa umidità.

Ho tuttavia un po’ di tempo per un caffè al volo nel bar dentro la stazione, che non mi piace tanto, ma stamani dovrò accontentarmi. Faccio diligentemente la breve coda per lo scontrino e mi avvicino al bancone. Per metà è occupato da tre signori in giacca, cravatta e ventiquattrore che hanno già consumato, ma stanno lì immobili a parlare di lavoro. L’altra metà è inaccessibile a causa di una coppia di corpulenti turisti con invadenti valigie a seguito. Non essendo molto alta di statura non ho modo di farmi notare dal barista per ordinare, ma vedo che i due turisti hanno quasi finito la loro colazione e se ne stanno per andare, per cui mi preparo ad occupare il loro spazio. Per evitare di essere investita dalle loro valigie, mi sposto leggermente di lato. Gravissimo errore, un signore elegante con un impermeabile chiaro arrivato un attimo fa, ne approfitta per superarmi, ostacolandomi con una leggera spallata.

“Ma che modi!” esclamo, ma lui non sente, essendo impegnato in un’animata telefonata.

Lo osservo: non ha certamente l’aspetto del pendolare, è troppo elegante e sofisticato, di sicuro è un cliente di qualche Freccia, probabilmente di classe business, e sta andando a qualche riunione in cui parlerà di budget con un sacco di zeri e proietterà una colorata presentazione Power Point ricca di grafici ad altre persone eleganti e sofisticate come lui.

Sempre parlando al telefono, mostra lo scontrino al barista e, mentre sta parlando il suo interlocutore, con un movimento labiale molto esplicito ma privo di suoni, per non interrompere la preesistente conversazione, con aria molto solenne, di chi sta discutendo di cose veramente importanti, chiede un caffè.

Nonostante tutto, riesco a guadagnare la mia porzione di bancone e ad ordinare. Arriva prima il caffè del signore e lui come un falco si avventa sulla zuccheriera posta tra noi due. Dolcifica abbondantemente il suo caffè e ripone la zuccheriera dalla parte opposta rispetto a me, ignorandomi completamente. Poco male, io tanto lo prendo amaro.

L’atteggiamento scortese e  arrogante del signore stimola il mio sistema nervoso più della caffeina, anzi, la calda bevanda, nonostante tutto, ha su di me un effetto calmante. Finisco prima di lui, nel frattempo dietro di noi sono arrivate altre persone e c’è un po’ di affollamento. Ne approfitto per restituirgli la spallata, fingendo di andare a sbattere con l’ombrello tutto bagnato contro il suo impermeabile immacolato. Chiedo velocemente scusa e mi avvio tranquilla verso il lavoro.

al bar

Pendolari fashion (o, meglio, fèscion)

Questa mattina la sveglia si è dimenticata di fare il suo lavoro. Poverina, non è colpa sua, sono le batterie che iniziano a reclamare un cambio. Sta di fatto che mi sveglio solo grazie al mio “orologio interno”, che oggi ha funzionato come parziale backup, dieci minuti dopo l’orario previsto. Che saranno mai dieci minuti? Dieci minuti sono un ritardo pazzesco, se confrontati con il tempo totale a mia disposizione. Come nella famosa scena del primo Fantozzi, sono praticamente al limite delle capacità umane. Non sto a descrivere le fasi concitate della rocambolesca preparazione, che ricordano il già citato film. La cosa significativa, oggi, è il risultato. Mi sono vestita pescando a caso dall’armadio: un paio di jeans già messi nei giorni scorsi, una maglia color giallino-smorto, scarpe basse da corsa (oggi ne avrò bisogno), calzini a righe colorate che niente hanno a che vedere con il resto (ma che non si vedono per fortuna, dato che i jeans sono abbastanza lunghi), spolverino blu, sciarpina indiana comprata al mercato. Trucco? Non se ne parla proprio stamani. La cosa più orribile sono i capelli, li ho lavati ieri sera, li ho tirati un po’, ma ero troppo stanca e sono andata a dormire a metà del lavoro. Il risultato di oggi è un informe ammasso di sterpi, che riesco a domare solo raccogliendoli in una coda con un elastico. Così facendo mi accorgo che anche il colore ha bisogno di un ritocco… Insomma, un disastro.

Come se non bastasse, a calpestare ulteriormente la mia autostima, oggi sotto il livello di guardia, ci pensa anche la mia compagna di viaggio. Il destino beffardo ha deciso di assegnare al seggiolino di fronte al mio una bella signora sulla cinquantina, tailleur-munita, borsa di Prada, decolté color tortora con tacco non troppo alto, occhiali da sole giganti alla Grace Kelly, orecchini delicati, giro di perle. Completano il quadro una messa in piega che sfida le leggi di gravità, tipo non-mi-toccate-sono-appena-uscita-dal-coiffeur, un trucco leggero ma impeccabile, unghie perfette, laccate di un bel rosso brillante. Anche lei mi squadra da capo a piedi. Forse è solo una mia impressione, ma mi pare anche un po’ schifata. “Affari suoi” reclama la parte bohémien della mia anima, e mi immergo nella lettura. In realtà mi sento meschina e totalmente inadeguata, vorrei tanto tornare a casa, subito.

Mentre sfoglia annoiata una rivista di moda, le squilla il cellulare. Estrae il telefono dalla borsa e pronuncia un sonoro “Prooontoooo?” con una insospettabile voce da chioccia e uno spiccato accento aretino. Inizia così una lunga conversazione telefonica, che non è possibile non seguire, visto il livello di emissione acustica, anche se il mio libro sarebbe molto più interessante. Dalla metà del dialogo che sento, deduco che sta parlando con un’amica, o meglio, stanno spettegolando cattiverie su una loro conoscente comune, che viene etichettata con una serie di aggettivi poco lusinghieri, di cui il più carino è “insignificante”.  La conversazione procede, continua la narrazione di quanto perfida, infida, traditrice, sia la persona in questione. Nella mia testa le parole piano piano si mescolano con il rumore di fondo, diventano un tutt’uno omogeneo che mi consente di riprendere la lettura. Di tanto in tanto il volume del dialogo però aumenta e cattura di nuovo la mia attenzione (nella fretta di stamani ho dimenticato le cuffie, maledizione!). Gli argomenti evolvono, dallo spettegolare si passa alle attività quotidiane. A un certo punto, le mie orecchie captano questo stralcio di conversazione: “… poi oggi pomeriggio passo dalla mia amica all’erboristeria, per farmi dare qualcosa per dimagrire, che da quando so’ in menopausa, mangio come ‘na maiala, ho un gran caldo e so’ sempre tutta suda come ‘na cavalla!” Proprio così, giuro, testuali parole! Il ragazzo nel seggiolino dietro al suo si volta, incredulo. Sgrano gli occhi, faccio uno sforzo sovrumano per non scoppiare a ridere, a un tratto la mise della signora mi sembra meno impeccabile di prima e la mia autostima si riprende un po’, finalmente.

Bidibi Bodibi Bu!

Ieri sono stata a una riunione importante a Milano. Per un giorno ho abban­­­donato lo scoppiettante trenino regionale e ho preso il mitico Freccia Rossa, l’ammiraglia della premiata flotta FS, la Ferrari sui binari, che sFreccia a trecento all’ora portando passeggeri indaffarati su e giù per lo Stivale.

La giornata è partita subito in modo diverso dal solito: niente jeans sdruciti, maglione gigante, vecchio piumino e scarpe da corsa. Oggi tailleur grigio d’ordinanza, stivaletto con tacco, borsa delle grandi occasioni,  cappottino elegante. Per un giorno lascio a casa il passo triste e rassegnato di tutte le mattine e mi cimento in una bella falcata da donna in carriera che non ha tempo da perdere. Arrivo alla stazione e scanso con rinnovata altezzosità i pendolari che si avvicinano ai rispettivi binari, parlando al cellulare con un collega. Salgo sul mio treno, cerco il mio posto, accendo il portatile e inizio a ripassare la presentazione Power Point…wow!

Purtroppo però la favola dura un giorno solo, passata la mezzanotte… puff… la carrozza si trasforma di nuovo in zucca, e il Freccia Rossa si trasforma nel consueto regionale scassato. Rieccomi allora di nuovo qui, stamani, grigia come tutte le altre mattine, che strascico i piedi per arrivare al binario e che impreco quando apprendo che il mio treno è stato soppresso per motivi tecnici, mentre un signore tutto elegante e distinto mi dà una spinta, parlando al cellulare prima di salire sul Freccia Rossa per Milano.

Sotto-passaggi

Mi chiamo Gabriele. Vivo in una grande città, non occorre specificare quale, perché i quartieri periferici come quello dove abito sono tutti uguali, fatti di brutti palazzi, vecchie fabbriche ormai chiuse e abbandonate, aree che dovevano essere giardini, ma che ormai sono invase dalle sterpaglie. Di lavoro faccio il musicista. Ogni mattina parto con la mia chitarra, arrivo nel sottopassaggio della stazione ferroviaria vicino a casa mia, sistemo la scatola da scarpe per terra, vicino a me, e inizio a suonare. Non è una stazione centrale, la mia, nel sottopassaggio non ci sono negozi o bar, ma solo graffiti e sporcizia di vario tipo. Da qui non passano turisti spaesati con i trolley colorati e gli uomini d’affari con la ventiquattrore di pelle, ma solo pendolari stanchi. Li vedo, sono stanchi già la mattina,  che strascicano le gambe verso il rispettivo treno.

C’è un signore che arriva sempre tardi e corre verso il binario, purtroppo però spesso quando arriva a salire le scale del sottopassaggio, il treno è già arrivato e sta svuotando il suo carico di passeggeri. Il signore allora si ritrova a percorrere le scale in salita e “controcorrente”, un po’ come i salmoni, che risalgono i fiumi, talvolta non ci riesce e torna indietro mestamente.

C’è  una signora, anche lei arriva sempre tardi, con i pantaloni attillati, la borsa all’ultima moda e i tacchi rigorosamente a spillo. Anche lei tenta di correre per raggiungere il binario, ma con quei tacchi, a camminare, mi ricorda tanto un Tirannosaurus  Rex.

C’è poi un uomo sulla trentina, vestito da impiegato, che ogni mattina mi lascia qualche spicciolo. “Bisogna supportare gli artisti”, mi disse una volta. Chissà, forse voleva diventare anche lui un musicista, magari anche un musicista di strada come me. Magari qualche anno fa aveva i capelli lunghi e pensava di poter cambiare il mondo. Ma poi come tutti, ha preferito accontentarsi di un lavoro sicuro, il cosiddetto posto fisso, un po’ monotono magari, come ha avuto il coraggio di dire un certo ministro, ma che almeno gli permette di pagare il mutuo in banca e mantenere la famiglia.

La sera vedo gli stessi personaggi che percorrono il tragitto in senso opposto. Sempre più stanchi, procedono verso le loro macchine e le loro abitazioni, senza curarsi di niente e nessuno, nemmeno di me, che cerco inutilmente di svegliarli con ritmi allegri.

Un pomeriggio, fuori dal sottopassaggio, un gruppo di attivisti di sinistra stava distribuendo volantini sul valore della Resistenza. C’era una ragazza carina tra loro, sembrava anche molto simpatica, che, oltre a distribuire i volantini, tentava di scambiare qualche parola con i passanti, per spiegare loro le varie iniziative che stavano promuovendo. Senza molti risultati, visto che nelle stazioni ferroviarie tutti hanno sempre fretta. Si stava abbattendo, la vedevo, allora ho iniziato a suonare “Bella ciao”.

L’altra settimana ho preso l’influenza e sono stato a casa per quattro giorni. Quando sono tornato, ho notato che tutte queste ombre erano un po’ meno indifferenti, anche se gli spiccioli erano sempre pochi, per lo meno qualcuno mi ha sorriso, qualcun altro, passandomi davanti, ha rallentato un pochino. Quella sera sono tornato a casa più contento del solito.