Mi raccomando, chiama Massimo!

E’ lunedì, il cielo è grigio, cade una pioggerella leggera, troppo leggera per aprire l’ombrello, ma sufficiente per inumidire i miei capelli e renderli orrendi. La sveglia è suonata con troppa irruenza, sono ancora sotto shock, il caffè che ho preso a colazione non ha fatto alcun effetto. Ho due occhiaie che mi rendono simile a un panda. L’umore è dello stesso colore del cielo: grigio.

Alla stazione, cerco di evitare qualsiasi interazione con altre forme di vita pendolare. Non ho voglia di mettermi a chiacchierare, di sentir raccontare cosa hanno fatto nel fine settimana i miei compagni di viaggio, non ho voglia di discutere del meteo o delle recenti vicende politiche, di imparare nuove gustosissime ricette, di lamentarmi dei ritardi dei treni.  All’arrivo del Regionale Veloce, studio accuratamente il flusso di persone e scelgo la carrozza più lontana, di solito più vuota delle altre.

Lo so, lo so, sono antipatica, stamani, e allora? Avete qualcosa da ridire in proposito?

Per fortuna lo scompartimento è quasi deserto, saremo in tutto sette o otto, non di più. Scelgo il posto in fondo, in modo da non avere vicini accanto o davanti. Il viaggiatore più prossimo è seduto più avanti, sulla destra. Dal mio posto vedo solo le sue gambe accavallate e il quotidiano che sta leggendo. Bene, si preannuncia un viaggio tranquillo. Prendo il libro dalla borsa, cerco il punto dove sono arrivata e inizio a leggere.

Arrivata alla fine del capitolo, alzo per un attimo lo sguardo e noto che il mio vicino  ha posato il quotidiano sul sedile davanti a lui, utilizzandolo per distendere le gambe ed evitare di posare le scarpe sulla seduta. Sembra essere proprio comodo. Gli arti inferiori sono mollemente incrociati all’altezza delle caviglie, le punte dei piedi e delle ginocchia sporgono in fuori, il bacino è scivolato in avanti. Indossa un paio di scarpe di cuoio nero, non nuove ma curate, strette da due lacci sottili, un paio di pantaloni scuri, ma non troppo eleganti. La posa rilassata li ha fatti risalire un poco, rivelando, sotto, un paio di calzini di colore bordeaux e di lunghezza insufficiente,  e un paio di centimetri almeno degli stinchi villosi.

Riprendo la lettura, anche se per poco: sono circa a metà della seconda pagina del nuovo capitolo quando una fastidiosa musichina richiama brutalmente la mia attenzione. È la suoneria del cellulare del mio vicino. Che, con molta calma, sufficiente a sviluppare completamente il tema melodico, si accinge a rispondere. La conversazione si svolge con un livello di emissione acustica simile alla suoneria.

“…”

“Vi siete sentiti poi ieri sera?”

“…”

“Mi ha detto che ti chiamava, ti ha chiamato?”

“…”

“Ah, l’hai chiamato tu? E che cosa ti ha detto?”

“…”

“Ah, ho capito, e poi?”

“…”

“Giusto, io però prima sentirei anche Massimo.”

“…”

“Sì, hai ragione, ma chiama anche Massimo, prima!”

“…”

“Sì, sì, ma Massimo lo sa sicuramente…”

“…”

“No, no, lui lo sa, sono sicuro, lo ha finito la settimana scorsa…”

“…”

“Ho capito, ma io sentirei anche Massimo, prima…”

“…”

“Non ce l’hai il numero di Massimo? Aspetta, te lo do io!”

“…”

“…”

“… aspetta, non lo trovo Marco, Matteo, Massimo, ma questo non è quel massimo lì, aspetta, Massimo… Massimo… forse è questo… no…”

“…”

“…”

“Eccolo, ci sei? Allora, tre-tre-otto…”

“…”

“Prego, mi raccomando, chiamalo, Massimo, senti lui come ha fatto, vedrai che te lo dice!”

“…”

“Comunque se vuoi stare tranquillo senti Massimo, te lo dico, io!”

“…”

“…”

“Vai, ci sentiamo dopo, ciao!”

“…”

“Ciao!”

Lo scompartimento torna in una quiete ovattata, in sottofondo si sente solo lo sferragliare delle ruote sui binari e saltuariamente la voce dell’altoparlante che ci ricorda di convalidare il titolo di viaggio. Dalla postazione del mio vicino, adesso, arrivano pochi, sommessi rumori: il click della chiusura della borsa, seguito dal fruscio di un sacchetto di carta e quindi da un piacevole profumo di mandarini. Riprendo la lettura. Vado avanti ancora tre pagine e poi riecco l’ormai familiare musichetta da cellulare.

“Pronto?”

Risponde il mio vicino, con la voce un po’ impastata, poiché, nonostante stia parlando al cellulare, non smette di mangiare i suoi mandarini.

“…”

“Ah, e che ti ha detto Massimo?”

“…”

“…”

“…”

“Lo sapevo, Massimo è una garanzia!”

“…”

“Visto? Hai fatto bene a chiamarlo!”

“…”

“Ok, va bene, fammi sapere come va, poi! Ci sentiamo, ciao!”

Continuo a leggere, questa volta mi concentro di più. Solo quando sono quasi arrivata mi accorgo che il mio compagno di viaggio è già sceso, in una delle fermate intermedie.

Esco dalla stazione, m’incammino verso l’uscita. Ho ancora sonno, ma l’umore è un po’ migliorato.

Perché adesso so che, qualsiasi cosa mi capiterà oggi, ho già pronta la soluzione: chiamerò Massimo!

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Personalità inquietante

Seduto davanti a me oggi c’è un bel ragazzo sobriamente vestito, sui venticinque anni. Dal titolo delle fotocopie che sbucano dallo zaino intuisco che deve essere uno studente di medicina o qualcosa del genere. Pochi minuti dopo essere partiti, china il capo dalla parte del finestrino e chiude gli occhi: deve essere stata una giornata pesante anche per lui. Iniziano i regolari scossoni del treno in corsa che pure su di me hanno effetto soporifero, mi appisolo. Passano pochi istanti e il trillo improvviso del cellulare del mio vicino mi risveglia bruscamente.

“Pronto!” risponde lui con una vitalità e un entusiasmo che non credevo possibile in una persona addormentata da cinque minuti.

“Amore mio, che bello sentirti, che fai?”

Dunque, come posso descrivere il tono della sua voce? Se avesse un colore, sarebbe un rosa tenero con tanti fiorellini minuscoli azzurri. Se avesse una forma, direi che sarebbe ricca di orpelli, fronzoli e ghirigori. Se avesse una consistenza, immagino sarebbe quella dell’ovatta. Se avesse un sapore, sarebbe quello della meringa inzuppata nel miele… Insomma, ho reso l’idea?

La conversazione si protrae per buona parte del viaggio. L’interlocutrice viene appellata con nomignoli che vanno dai classici “Cicci” e “Pucci” a termini più elaborati, tipo “Pulcettina” o “Mostriciattolo”.

Mancherebbe solo la musica di un paio di violini come sottofondo per completare il quadro.

“Sei tanto stanca tesorino mio? Povera piccina, sei così silenziosa stasera! Ti riempirei di bacini…”

Ho la glicemia alle stelle e mi si stanno ormai cariando i denti quando i due finalmente si salutano, con un’interminabile sequenza di “ciao amore, ci sentiamo presto, ciao, ciao, ciao…”

Ma la pace dura poco, il telefonino, ancora caldo, riprende a squillare. Il ragazzo risponde di nuovo, con un secco “Pronto!”. Una trasformazione che non avrei potuto immaginare. Il tono adesso è secco, rapido e incisivo.

“Ciao Mario, hai trovato occupato, vero? Ero al telefono con la mia ragazza, una rompipalle che non ti dico!”

Sembra che un demone si sia impossessato di lui tanto è differente da appena pochi minuti fa.

“Mi ha tenuto al telefono per mezzora, ero anche stanco e mi volevo riposare! Ma mi deve raccontare sempre un sacco di cose, guarda, una cosa allucinante!”

Segue il corpo vero e proprio della telefonata, finalizzato a concordare la serata giusta per una cena insieme ad altri amici, difficile da definire a causa dei vincoli di vario tipo imposti dalle varie “rompipalle”.

Il treno rallenta entrando nella stazione, ed io, un po’ sconvolta e incredula, finalmente, scendo.

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