Buon inizio settimana, Pendolo!

Come ogni primo giorno del mese lavorativo, Pendolo partì di casa quindici minuti prima del solito per recarsi alla stazione: quella mattina doveva rinnovare l’abbonamento. Alla biglietteria c’era una bella coda, decise quindi di mettere da parte la sua innata avversione nei confronti di tutti i congegni tecnologici e di affrontare una delle due temutissime macchinette automatiche. A dire il vero la fila era tutta alla biglietteria umana, non c’era nessuno alle macchinette e questo già sarebbe bastato a qualsiasi pendolare con un minimo di esperienza a far venire almeno un leggero sospetto… Ma i due dispositivi erano accesi, su entrambi appariva un invitante messaggio di benvenuto e non c’erano avvisi o segnali particolari, quindi, di che doveva aver paura? Se fossero state guaste, se ci fossero stati problemi di qualsiasi tipo, lo avrebbero segnalato, no? Ahimè, il buon Pendolo era un inguaribile ottimista e confidava sempre nella fortuna, nella buona fede e nella buona volontà altrui, specialmente di lunedì mattina.

Alla macchinetta, selezionò con cura la stazione di partenza e quella di arrivo, specificò cognome, nome e data di nascita. La macchinetta, senza fare tanti complimenti, gli chiese subito di pagare la consistente gabella mensile. Selezionò la modalità di pagamento con bancomat, al che il freddo marchingegno ordinò, con voce decisa: “Inserire la carta!”. Pendolo eseguì il comando, un po’ timoroso. Uno strano rumore di aggeggi meccanici che sbattevano tra loro, frammisto a un poco rassicurante ronzio elettrico, iniziò a uscire dalla fessura dove aveva inserito la tesserina magnetica. Dopo qualche istante, la voce imperiosa ordinò: “Estrarre la carta!” Pendolo, di nuovo, obbedì. Per fortuna la tesserina magnetica era ancora integra. Non era ancora passata una frazione di secondo che l’odiosa macchinetta ordinò: “Inserire la carta!” E lui, scattando sull’attenti come al comando di un ufficiale, obbedì. Di nuovo, si ripeté lo strano rumore meccanico, come di denti  metallici intenti a masticare un pezzo di plastica, e di nuovo, l’irrazionale ordine: “Estrarre la carta!”

Dietro di lui si era intanto formata una piccola coda, capeggiata da un turista straniero, magrolino e piccoletto, dall’incredibile somiglianza con Einstein, che ballonzolava avanti e indietro, nervoso, e commentava: “Iz leit, iz leit, de ticchet, ai nid de ticchet!”.

Un altro tentativo ancora, ma niente, la macchinetta non ne voleva sapere della tesserina magnetica del povero Pendolo. Alla terza iterazione inserire/estrarre la carta, si rassegnò all’idea che quella macchinetta fosse guasta e si decise a provare l’unica altra disponibile. Ma le persone che stavano dietro di lui avevano avuto la stessa idea una frazione di secondo prima e tutta la coda si era già spostata in modo monolitico, così che il povero Pendolo si ritrovò  all’ultimo posto della fila, a pochi minuti dalla partenza del suo treno.

Era il turno del turista sosia dello scienziato, anche lui era in palese difficoltà, probabilmente aggravata dal suo essere straniero e dalla poca confidenza con le ribelli macchinette italiche. Continuava a inserire e disinserire velocemente una tesserina magnetica dorata, brontolando nervosamente “Iddasen uok, iddasen uok” per poi guardarsi intorno, preoccupato, “ueris di ader, ueris di ader”. Pendolo iniziava a temere seriamente di perdere il treno, guardando il tabellone si accorse infatti che era iniziata a lampeggiare la lucina che indicava l’imminente partenza.

I minuti successivi gli sembrarono lunghi quanto secoli. Un signore in giacca e cravatta si offrì di aiutare l’inesperto turista;  in due, tentando di dialogare tra loro in una strana lingua, ce la fecero a stampare l’agognato biglietto. Dopo il turista toccava a una ragazza con un ciuffo viola e le unghie variopinte, troppo lunghe per poter interagire per bene con il touch screen della macchinetta: ci mise un bel po’ a stampare l’abbonamento. Era poi il turno del suddetto signore in giacca e cravatta, che si era già dimostrato un pendolare esperto e per fortuna impiegò pochissimo tempo, poi toccava a uno studente con il cavallo dei pantaloni pericolosamente basso e un paio di cuffie gigantesche alle orecchie, da cui filtravano inconfondibili note distorte heavy metal…

Alla fine anche Pendolo ce la fece a raggiungere la testa della fila. Al primo tentativo l’algoritmo s’inceppò sulla selezione della stazione di arrivo, fissandosi per lunghi, lunghissimi istanti, su un’insopportabile schermata con su scritto “Attendere, prego”, per poi resettarsi all’improvviso. Pendolo ormai aveva perso il proverbiale buonumore mattutino, sostituito da un desiderio irrefrenabile di sfasciare quel marchingegno maledetto a colpi di spranga. Trovò tuttavia la forza di resistere e riprovò con più attenzione, tenendo a fatica a bada il fascio dei suoi nervi imbizzarriti. Ogni volta che toccava il touch screen per selezionare le varie opzioni, lo faceva ormai con cattiveria e violenza, come se il suo dito indice fosse il coltello di un efferato assassino che infieriva sulla sua vittima. Finalmente, brontolando, sferragliando, recalcitrando, la dannata macchinetta, offesa, ferita, stizzita, sputò disgustata l’agognato pezzetto di cartoncino mensile.

La lucina sul tabellone continuava a lampeggiare, c’era un tenue barlume di speranza di poter prendere il treno. Pendolo si fiondò sulle scale del sottopassaggio, scendendo e poi risalendo i gradini a due a due, aiutandosi anche con le braccia, con la grazia di un gibbone in fuga nella foresta. Quando riemerse dal sottopassaggio, fece appena in tempo a vedere la coda del treno sparire, dietro la curva appena fuori dalla stazione. Dal finestrino dell’ultimo vagone gli sembrò persino di vedere un ghigno soddisfatto sul volto del capotreno, ma forse quella era solo un’impressione.

Tanta fatica per niente, aveva perso il treno e ora doveva aspettare per quaranta minuti quello successivo. Che ovviamente arrivò in ritardo. Ritardo sul ritardo, ritardo al quadrato, all’ennesima potenza, anzi, ritardo esponenziale. Al lavoro lo aspettava di sicuro una bella ramanzina da parte del suo capo… Ed era pure iniziato a piovere… E non aveva nemmeno l’ombrello… E faceva un gran freddo, lì, sul binario, ad aspettare… Ed era solo lunedì.

La banalità di un cappuccino

Alla stazione di arrivo, sono in coda alla cassa del bar: ho solo dieci minuti di tempo, ma un’assoluta necessità direi quasi fisiologica di caffeina, per partire con la giornata lavorativa.

Davanti a me ci sono tre persone: due ragazze, probabilmente studentesse universitarie, e una signora più matura con un trench marrone.

È il turno della signora:

<<Buongiorno, un caffè e una pasta, per favore.>>

La cassiera:

<<Sono due euro, che pasta le do?>>

<<Quella lì con la crema, no, non quella, che mi sembra bruciacchiata, l’altra, ecco sì, quella! Me la incarta per favore? Grazie, arrivederci.>>

La signora si sposta al lato della coda e sistema nel borsellino decorato da strass il resto. È il turno delle ragazze, che stanno parlottando tra loro. La cassiera le incoraggia:

<<Prego?>>

Si fa avanti una delle due:

<<Buongiorno, un’informazione: nel caffè al ginseng c’è la caffeina?>>

La cassiera, chiaramente non troppo preparata sull’argomento, risponde con malcelata incertezza:

<<Non credo, no, no, in quello al ginseng la caffeina non c’è…>>

La signora col trench, intanto, s’intromette:

<<Io invece sapevo che c’era… Sì, sì, una minima parte di caffeina c’è anche nel caffè al ginseng, anch’io lo prendo a volte, mi piace…>>

Guardo l’orologio, impaziente, rischio di fare tardi… La ragazza si consulta con l’amica:

<<Allora che si fa? Se c’è la caffeina, tu non lo puoi bere… Prendiamone uno in due, vai, se lo assaggi e basta vedrai che non ti fa niente!>>

La ragazza paga e prende il resto e insieme all’amica si sposta verso il bancone. Finalmente è il mio turno.

<<Buongiorno. Un cappuccino, per favore.>>

<<Vuole anche una pasta?>>

<<No, no, solo un cappuccino.>>

Pago in fretta, prendo lo scontrino e mi avvicino al bancone. Davanti a me ho le tre donne di prima e una coppia, un uomo e una donna, entrambi molto alti di statura, con un bel fisico atletico, arrivati dall’altra cassa. È il loro turno per ordinare, inizia la donna:

<<Un caffè alto, macchiato con latte di soia.>>

<<Non abbiamo latte di soia, mi spiace…>>

<<Ma alla cassa mi avevano detto che ce l’avete… Vabbè lasci stare, un caffè alto e basta allora.>>

Tocca al suo compagno ordinare:

<<Per me un latte macchiato tiepido, con pochissimo caffè se possibile.>>

Poi ecco le nostre tre conoscenze, la signora col trench:

<<Un caffè al vetro non troppo alto… Mi può passare lo zucchero di canna?>>

Seguono le due ragazze del ginseng, e finalmente, arriva il mio turno:

<<Buongiorno, un cappuccino per favore…>>

Il barista indugia qualche secondo, attendendo qualche requisito fantasioso, ma io non aggiungo altro. Lui allora m’incalza:

<<Normale?>>

Rispondo, forse un po’ bruscamente:

<<Sì, sì, normale>>

Il barista, deluso, inizia la preparazione della ormai tanto attesa bevanda. Il tempo a mia disposizione è quasi finito, bevo il mio cappuccino “normale” in fretta e per poco non mi scotto. Esco dal bar con una fastidiosa sensazione di inadeguata banalità.

IMG_0628