Il sabato del pendolare

La donzelletta vien dalla stazione

in sul calar del sole…

Con mezzora di ritardo.

 

E alla fine è arrivato anche un altro venerdì sera. Nonostante il consueto ritardo finalmente sono a casa. Anche questa settimana, che sembrava interminabile, è finita.

Come ogni lunedì era iniziata con il trauma della sveglia la mattina, la corsa alla stazione, la delusione per il ritardo mattiniero del treno (“Maledizione… Potevo dormire un quarto d’ora in più!”), il viaggio strapazzato, la corsa verso l’ufficio, le email, le scadenze, le relazioni da rileggere, le mille cose da fare e da rifare, i caffè frettolosi, le riunioni noiose, la seconda corsa alla stazione, il viaggio di ritorno strapazzato, il passaggio a livello bloccato che ferma il treno per venti minuti, finalmente a casa, la cena a base di surgelati pronti in dieci minuti, un po’ di televisione, mamma mia che sonno, a letto, che domattina si riparte.

Lunedì… martedì… mercoledì… giovedì…

E arriva il venerdì, la settimana pendolare si chiude e inizia il weekend, con le sue speranze e il suo carico di aspettative. E’ già un paio di giorni che è nell’aria e le quotidiane chiacchierate con i colleghi hanno spesso come oggetto: ”Allora, che fai questo fine settimana? Noi si va… bla bla bla bla…”. Io di solito non ho mai programmi troppo complicati, il mio obiettivo è riposarmi e riprendere fiato.

 

Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia…

Finalmente avrò un po’ di tempo per me stessa, potrò… che ne so, andare al cinema, fare una bella passeggiata al sole, visitare quella bella mostra in centro, ascoltare quel bel disco che mi hanno regalato…

Sabato mattina la sveglia tace, ma mi sveglio lo stesso alle sei, per l’abitudine. Mi ostino a rimanere a letto fino alle otto e mezzo. Quando mi alzo, mi sento un po’ in colpa. Ancora in pigiama, gironzolo un po’ per casa, non sono abituata a vederla con la luce naturale del giorno, ci sono un sacco di cose da fare e sono già le nove. Il sabato mattina passa “a fare le faccende”, come diceva la mia nonna: pulizie dappertutto, caricare la lavatrice, tendere i panni e infine, come nei videogiochi, il mostro finale, il ferro da stiro. Per rimettermi in pari da tutte le incombenze domestiche non mi basta la mattinata del sabato e sconfino inesorabilmente nel pomeriggio. Un attimo, che ore sono? Di già? Ma è tardissimo! Abbiamo fissato di trovarci con degli amici a cena, devo ancora fare la doccia, lavarmi i capelli e vestirmi… La serata è piacevole, il locale è carino, i nostri amici hanno un sacco di cose da raccontarci, ma io verso le nove e mezzo inizio già a sbadigliare. Il maledetto orologio biologico del pendolare, anche il sabato sera vuole dire la sua. Mi sforzo di rimanere sveglia, cerco di dissimulare il sonno, con notevole sforzo resisto fino a fine serata.

La domenica mattina, tipicamente soffro una specie di jet-lag, con mal di testa, sonnolenza e umore grigio. Le condizioni non migliorano a pranzo, sempre dai genitori, con l’irruzione frequente di qualche parente che, non vedendoti da tanto tempo, si sente in dovere di farti il terzo grado. Si arriva alla domenica pomeriggio, ormai

…tristezza e noia
recan l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier fa ritorno…

Avevo voglia di andare a fare una passeggiata in centro e visitare la mostra, che sta anche per finire, ma il tempo è brutto e minaccia di piovere.  La tentazione di rimanere in casa a poltrire sul divano è davvero forte. Per oggi ce la faccio a resistere: prendo l’ombrello ed esco.

E arriva veloce, troppo veloce, la domenica sera, cena leggera (dopo il pranzo dai genitori ho calorie sufficienti fino almeno a mercoledì) e a letto presto, che domattina alle sei e dieci si riparte! Menomale!

2012-08-15 11.07.24

Tempi moderni 2.0

E’ venerdì mattina, la stanchezza inizia a farsi sentire, arrivo alla stazione all’ultimo minuto, quando il treno sta già avvicinandosi lungo il binario due. Di solito scelgo uno dei vagoni di testa, quelli più lontani e meno affollati, ma stamani non ho tempo e salgo su uno centrale, affollato dagli studenti delle superiori. Riesco comunque a trovare un posto, mi siedo vicino al finestrino e inizio a leggere

“… Essa era alta e snella per i quindici anni appena compiuti . Aveva il volto pallido, soffuso di quella patina dell’adolescenza che è come un pulviscolo d’oro e di luna cosparso sulle sembianze, impossibile a dirsi...”

Sollevo lo sguardo dal libro, sui dedili di fronte siedono due studentesse dei primi anni delle superiori.  Quella davanti a me biascica come un cammello una gomma da masticare, digitando freneticamente qualcosa sul suo telefonino. Ha gli occhi incorniciati da un trucco pesante sui toni del nero, una maglia lunga, leggins neri su pesanti anfibi. I capelli hanno un taglio dalla geometria ben definita, asimmetrico, e sono perfettamente lisci. Un brillantino spunta dalla narice sinistra. Riprendo a leggere.

“…Gli occhi grigi acciaio infossati nelle orbite, davano al suo sguardo un che di infantile dispetto…”

 

La ragazza, con lo sguardo fisso sul telefonino, gonfia un palloncino di gomma da masticare e lo fa esplodere rumorosamente.

“…Il naso delicatissimo, come ambrato, sulle labbra che erano naturalmente rosse e scoprivano i denti piccoli e fitti. Una scialbatura di efelidi agli zigomi trascolorava sull’avorio vivo della pelle. Era bella e innocente, vergine in ogni atteggiamento, in ogni espressione…“

Dietro il mio seggiolino, tre o quattro ragazzi parlano e ridono sguaiatamente.

“…Tutte le sue parole, anche le più consumate e proverbiali, acquistavano un sapore di schiettezza, tanto si avvertiva la persuasione che le ispirava…”

La mia lettura si interrompe bruscamente, un rumore improvviso mi fa trasalire, è stato uno dei ragazzi dietro di me, che ha emesso un sonoro rutto. Non ho mai sentito una cosa del genere, non riesco a capire come un fisico  esile e acerbo come quello del quindicenne, autore della prodezza, riesca a generare una simile potenza sonora. Gli amici si complimentano con lui, ridendo e bestemmiando in modo raccapricciante.

Chiudo il libro, lo rimetto in borsa, per oggi mi è passata la voglia di leggere.  Forse bisogna che cambi genere…

 

Il pendolare oscuro

Le giornate finalmente stanno iniziando ad allungarsi e la mattina quando parto c’è già un po’ di luce. Menomale, perché se avessi incontrato un paio di mesi fa il personaggio di stamani, quando ancora era buio pesto, sarei scappata a gambe levate.

E’ seduto nell’ultima panchina lungo il marciapiede, ai limiti della pensilina. Tiene le gambe accavallate, la schiena è curva e la testa bassa. E’ vestito completamente di nero e ha con sé uno zaino, che tiene vicino al suo fianco destro sulla panchina. Non capisco se sia un uomo o una donna. Il grosso cappuccio del suo giubbotto copre quasi tutto il volto e getta un’ombra scura sulla parte inferiore, teoricamente visibile.

Si massaggia continuamente le mani, come si fa quando ci si dà la crema, per farla assorbire, ma l’ostinata ripetizione dei movimenti dei polsi e delle dita e il ritmo preciso rendono quel semplice gesto innaturale e inquietante. Osservo meglio, le mani sono piccole e sottili, questo mi fa pensare che si tratti di una donna, ma non ne sono sicura. La carnagione è leggermente olivastra. Sbirciando (da lontano!) dentro al cappuccio mi accorgo che le labbra si stanno muovendo. Faccio qualche passo nella sua direzione e presto attenzione per cercare di sentire. Apparentemente sta parlando da solo. Una cantilena monotona, con un’intonazione tra l’irritato e il minaccioso.

A un certo punto dalla tasca del giubbotto estrae una busta da lettera, è piegata a metà e dal suo volume intuisco che deve contenere diversi fogli. La osserva per qualche istante, sempre parlottando. Il volume è molto basso, non riesco a sentire cosa dice e nemmeno a capire la lingua. Con le mani gira e rigira la busta, mi accorgo che su un lato c’è scritto qualcosa a mano, probabilmente l’indirizzo del destinatario. Dall’altra tasca estrae quindi un accendino, con cui incendia la busta. Per un po’ la tiene sospesa con la mano sinistra, osservando le fiamme che la avvolgono e la divorano. Mi pare di vedere le piccole fiamme riflettersi, rosse, sui suoi occhi arrabbiati, ma questa probabilmente è solo una mia suggestione. Quando ormai non può più tenerla, la lascia cadere in terra. L’odore della carta bruciata si spande lungo la banchina. Mentre il fuoco finisce di consumare la busta e il suo contenuto, trasformandoli in fragili farfalle di cenere che volano verso l’ingresso del sottopassaggio, l’oscuro personaggio continua il suo sommesso monologo e riprende a massaggiarsi le mani.

Finalmente arriva il treno, la gente inizia a muoversi, lui rimane seduto sulla panchina, con le gambe accavallate e la schiena curva. Lo perdo di vista mentre salgo in treno, entro nella carrozza e mi siedo. Appena sistemata, mi affaccio dal finestrino e guardo verso l’ultima panchina, ma il pendolare oscuro non c’è più…

viaggiatoreoscuro

Dopo appena due settimane avevo quasi dimenticato…

… Il trillo improvviso della sveglia la mattina. L’odore del primo caffè. I lampioni ancora accesi. La nebbia. La macchinetta per i biglietti nel sottopassaggio che grida “Inserire la carta”. I consueti dieci minuti di ritardo annunciati dalla voce metallica  dell’altoparlante. Il freddo umido che entra nelle ossa durante l’attesa lungo il binario. Il rumore del treno in arrivo al binario due. La ricerca del posto libero ottimale. Il cinguettare allegro di un gruppo di ragazzine, alle prese con i commenti delle foto di Capodanno pubblicate su Facebook in cui sono state taggate. Il “ronf, ronf” leggero e ritmico della signora seduta accanto a me. La sequenza delle fermate del treno nelle stazioni intermedie. Il libro che sbuca dalla borsa e reclama di essere letto. Il gruppetto di signore pendolari che si scambiano ricette. Il controllore, che arriva quatto quatto alle spalle reclamando “Biglietto prego”. Lo squittire frenetico di un gruppetto di liceali che non hanno fatto i compiti di matematica e che stanno cercando nervosamente di copiarli dal loro compagno secchione. I loro dubbi e le fantasiose teorie sulle regole di trigonometria. L’arrivo a destinazione e la fatica di rimettersi il giubbotto per uscire di nuovo. I negozi ancora chiusi, lungo le vie del centro. I residui addobbi natalizi, ormai mesti e malinconici. Il mio ufficio. Le email di lavoro accantonate prima di Natale, che devono essere riprese. Il piacere del cappuccino al bar. Le incombenze e le scadenze che iniziano già ad affacciarsi.

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Una consolazione… non troppo magra

Questo repentino abbassamento della temperatura mi ha fatto ancora più apprezzare il momento della giornata che racconto in questo post, una delle poche soddisfazioni quotidiane che mi sono concesse nella parte pendolare della mia vita.

Alzarsi la mattina prima dell’alba, riemergere dal tepore  del letto, prepararsi in fretta, correre alla stazione, prendere il primo treno della giornata: sono tutte attività che richiedono un grosso sforzo. C’è bisogno di un piccolo premio, un incentivo insomma. Per questo ho la consuetudine di concedermi, appena arrivata, un cappuccino nel bar appena fuori dalla stazione.

Una parentesi di calma e relax prima di rituffarsi nel caos della giornata.

Una gioia per tutti i sensi. La vista:  il barista  riesce a disegnare dei bellissimi fiori stilizzati con la schiuma del latte, quasi quasi mi dispiace distruggere queste opere d’arte aggiungendo lo zucchero e mescolando. L’olfatto: il profumo del cappuccino appena preparato mi dà una bella sferzata di energia, anche se è più delicato e discreto di quello del caffè. L’udito: nel bar c’è più calma che nel treno e nella stazione, la radio a volume moderato a quell’ora spesso trasmette canzoncine degli anni ’80 che mi riportano alla prima adolescenza. Il tatto: che piacere riscaldarsi le mani gelate con la tazza tiepida del cappuccino! E infine, ovviamente, il gusto.

Cinque minuti di pausa, e poi, di nuovo, via di corsa verso un’altra giornata e un’altra settimana…