Viaggi pendolari… da brivido

Il primo aggettivo che mi è venuto in mente quando l’ho visto sedersi, di fronte a me, stamani sul treno, è stato “oscuro”. Innanzitutto per il colore di base dell’abbigliamento, il nero, appunto: stivaletti con vistose borchie metalliche, jeans stretti e sciupati in più punti, e la T-shirt, che riportava, stampata sul davanti una convulsa scena i cui i protagonisti erano teschi con espressioni beffarde, zombie e altri mostri di vario genere, corpi solo vagamente antropomorfi, sfatti, tumefatti, smembrati, il tutto contornato da un’iscrizione con caratteri gotici che non sono riuscita a decifrare. I lobi delle orecchie erano martoriati da diversi piercing, spunzoni metallici fondamentalmente, mentre numerosi tatuaggi ornavano gli avambracci: ancora teschi, ma anche stelle a cinque punte, scritte e simboli per me sconosciuti e misteriosi. Da un paio di auricolari collegato a un telefonino usciva un ronzio ritmato, in cui era possibile riconoscere il gemito lamentoso di una chitarra elettrica distorta e la voce cavernosa e gutturale di un cantante tutt’altro che melodioso.

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Le premesse, insomma, non erano molto promettenti. I simboli tatuati sulle braccia, in particolare, erano particolarmente inquietanti e sinistri e richiamavano alla mia memoria mitologie e riti oscuri. Io, poi, di solito sono abbastanza paurosa: quando, per sbaglio, in televisione m’imbatto in un film horror cambio subito canale e durante la visione di qualsiasi thriller tengo a portata di mano un cuscino dove nascondere la faccia durante le scene più violente e truci. Stamani per ovvi motivi non avevo con me il cuscino di protezione e ho dovuto arrangiarmi: che fare? Rimanere indifferenti, fingere di dormire, magari, scappare a gambe levate… Calma, mi sono detta, non siamo in un film, ragioniamo.

Nei film dell’orrore e nei thriller molta della paura nasce dalle atmosfere tenebrose e dalle note tese e sospese della colonna sonora. Stamani, invece, era una bella mattinata di ormai fine estate, soleggiata ma fresca, gli altri viaggiatori leggevano o sonnecchiavano, gli unici rumori erano il familiare e tranquillo sferragliare delle ruote sulle rotaie e gli sporadici messaggi automatici dall’altoparlante. Dopo il primo, poco rassicurante impatto, mi sono fatta coraggio e ho osservato un po’ meglio il mio occasionale compagno di viaggio, badando bene di non farmi vedere.

C’erano delle cose che non tornavano, in effetti. Il colore della pelle, innanzi tutto. Molto chiaro, devo dire, ma tendente al roseo, quasi rubicondo in certi punti del viso, non il poco salubre colorito grigio-verdognolo che ci si aspetterebbe, per una siffatta creatura delle tenebre (e, poi, che ci faceva una creatura delle tenebre su un anonimo treno pendolari, alle sette e mezzo di mattina?). Guardando, ancora, mi sono soffermata un attimo sulle guance, belle piene, paffutelle, altro che la pelle grinzosa e cadente, i visi scarni e scheletrici dei mostri sulla sua maglietta. La maglietta, appunto: quelle due pieghe perfettamente diritte, sulle maniche, verso le spalle, tradivano una sapiente stiratura, una perfetta piegatura, nonché la disposizione in un armadio ordinato e pulito, sicuramente incompatibile con l’antro scuro, umido e caotico di un serial-killer. Dalla maglietta leggera emergeva un corpo decisamente in salute, anzi, tendente al rotondetto, specialmente nella zona degli addominali: un fisico compatibile con una dieta a base di lasagne fatte in casa e una modesta attività fisica, non martoriato dagli eccessi e privazioni di una vita dannata. E, poi, gli occhi, quegli occhi marroni, svegli e vivaci, a ben guardare ispiravano più simpatia che terrore. Riflettendoci su, non ho più sentito la necessità di fuggire a gambe levate in un altro scompartimento, e devo dire che non ho neppure rimpianto troppo il mio cuscino.

Ma, allora, vi chiederete, perché questo titolo al post? In effetti durante il viaggio ho tremato… ma non di paura, di freddo! L’aria condizionata in tutto il treno era infatti tarata su una temperatura veramente polare e per di più avevo dimenticato la maglia a casa.

E la colonna sonora? Beh, invece che un pezzo dei Goblin (quelli di Profondo Rosso), cui avevo pensato inizialmente, alla fine per stamani ho optato per questa canzone degli Skiantos… 🙂

 

 

Se avessi la macchina del tempo…

Se avessi la macchina del tempo, se potessi invertire il moto delle lancette dell’orologio, sicuramente vorrei tornare a rivivere l’età dei perché: quel periodo dell’infanzia in cui tutto è nuovo, meraviglioso, da scoprire. L’età in cui la realtà si mescola con la fantasia, le cose che per noi grandi sono normali, banali, scontate, appaiono ancora misteriose e affascinanti. Insomma, l’età di quei due bambini che stamani stanno aspettando alla stazione il treno per Firenze Santa Maria Novella, in compagnia dei nonni. La più grande dei due è una bella bimba, con i capelli raccolti in due treccine chiuse con dei fiocchetti colorati, un vestitino estivo a fiori con delle graziose gale sulle spalle e sull’orlo della gonna.

“Come sei bella, stamani!” la schernisce il nonno, “Oh quanti ammennicoli ti sei messa?” indicando i numerosi braccialetti colorati che adornano i polsi della nipotina.

“Hai fatto bene, stamani si va in città! Si va a vedere il Duomo!” replica la nonna.

Il fratellino è leggermente più piccolo, capelli corti a spazzola, occhi incredibilmente vivaci, non riesce a stare fermo e fa continuamente avanti e indietro tra la panchina e la linea gialla lungo i binari (che “non deve essere toccata, sennò arriva il controllore e ti manda via dalla stazione” cit. la nonna).

Appena arriva il treno, si blocca con un’espressione di gioia e di stupore. Che meraviglia! Guardandolo bene, anche a me oggi sembra meno brutto.

Il gruppetto sale sulla mia stessa carrozza e si sistema nei seggiolini di fianco al mio: i nonni siedono uno di fronte all’altro, sul lato del corridoio, lasciando ai piccoli i posti accanto al finestrino. I due bambini stanno in piedi per tutto il viaggio, con il naso e le mani appiccicati al vetro.

Il treno dopo qualche minuto dalla partenza passa lungo un grigio cantiere di periferia, aperto da anni, ormai, dove stanno nascendo come funghi anonimi edifici, tutti uguali. Ma non tutti, stamani, la pensano come me:

“Nonno, guarda, una ruspa! Un’altra, laggiù, è più grossa! Guarda, c’è anche la gru! E lo schiacciasassi! Che cantiere grosso, non l’avevo mai visto un cantiere grosso così!”

Incrociamo un altro treno, che procede in direzione opposta.

“Guarda, è a due piani! Ha un piano di sotto e un piano di sopra! Perché non abbiamo preso quello anche noi?”

“Perché quello non va a Firenze, quando torniamo indietro cerchiamo di prendere anche noi il treno a due piani!” replica paziente la nonna.

“…Ma va più forte di questo?”

“Eh questo non lo so…”

A un certo punto incrociamo anche la superstar dei binari nostrani, lo stupore dei bambini, soprattutto il piccolo, diventa incontenibile.

“La Freccia Rossa! Guarda come va veloce! Dove va, nonno?”

“Penso che vada a Bologna, o a Milano, o a Venezia…”

“Andiamo anche noi a Bologna? Dai!”

“La prossima volta, magari, oggi si è detto che si va a Firenze.”

“… Ma va più forte la Freccia Rossa o Italo? ”

Sull’argomento i nonni, devo dire, non sono molto preparati.

Ci fermiamo in una stazione appena fuori Firenze. Siamo ancora fermi quando il treno sul binario accanto riparte.

“Si parte!” esclama il piccolo.

“Ma non vedi che siamo ancora fermi?” lo corregge la sorellina.

“No, siamo partiti, guarda!” replica indicando i finestrini dell’altro treno, che si stanno muovendo, effettivamente.

Il nonno allora tenta di spiegare in modo semplice il concetto di moti relativi al nipotino, che non sembra troppo convinto.

Entriamo finalmente nella stazione di  Santa Maria Novella, un tripudio di treni a uno, due piani, Frecce Rosse, Frecce Argento, Itali, mezzi di servizio, gente, valigie, negozi… Il treno si ferma, ci prepariamo a scendere. Il piccolo per mano alla nonna, la sorellina con il nonno, si avviano verso il centro. Chissà quante cose meravigliose scopriranno, oggi. Davvero, li invidio un po’ 🙂

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Incubo di un pomeriggio di mezza estate

Esco stanca e sudata dal lavoro, oggi non funzionava neppure l’aria condizionata. Ma sono tranquilla, non prenderò un malanno, dato nemmeno sul treno funziona. Per lo meno è quasi vuoto, mi metterò a leggere un po’, per rilassarmi. Rettifica, è appena salita una combriccola allegra, colorata e disordinata di gente proveniente dal mare. È formata da una quindicina di adulti e cinque o sei bambini sotto i tre anni, ovviamente accompagnati da borsoni, borsine, borsette, zaini, passeggini, borse termiche, borse da spiaggia, borse della spesa, asciugamani, cappelli, contenitori di ogni forma, colore e dimensione. L’aria calda e umida nella carrozza è pervasa da un odore di crema solare, panino con la mortadella, sudore. Sono stati tutto il giorno al mare, beati loro, sono contenti e riposati e trasmettono tutta la loro gioia agli altri passeggeri emettendo decibel e decibel di risate sgangherate. Vorrei le cuffie giganti che indossa quel ragazzetto seduto là in fondo: sembra così assorto e isolato dal resto della carrozza. Forse se mi concentro nella lettura non li sento. Ci riesco, quasi, ma all’improvviso uno dei bambini scoppia in una bizza disperata. Più che un pianto sembra un misto tra il grido di dolore di un animale preistorico e gli artigli di Freddy Krueger strisciati su una lavagna. I genitori lo ignorano totalmente. Se avessi il numero di cellulare di un esorcista, oggi lo chiamerei. Cambiare carrozza? Sono troppo stanca, poi, arrivando nella stazione e vedendo la quantità di gente che è salita non penso che la situazione migliorerà. Il viaggio sembra ancora più lungo, anche perché nel frattempo il treno per qualche inspiegabile motivo ha accumulato un quarto d’ora di ritardo. Guardo fuori dal finestrino, per distrarmi, ma non funziona. Finalmente il treno rallenta, gli adulti del gruppo confusionario raccolgono tutte le loro carabattole e si preparano a scendere. Una delle donne prende in collo il piccolo indemoniato, che sorprendentemente si mette a strillare ancora più forte, sbracciandosi e agitandosi, non riesco a capacitarmi di come tutto ciò sia fisicamente possibile. La mamma, per niente turbata, cerca con non troppa convinzione e scarsi risultati di calmarlo. Il convoglio si ferma, le porte si aprono, le emissioni acustiche piano piano si placano, finalmente. Si riparte e nelle orecchie ho il tipico fruscio che si percepisce dopo essere stati in discoteca o sotto le casse di un concerto heavy metal. Il treno giunge finalmente alla mia fermata, con passo stanco, quasi strascicando i piedi arrivo a casa e mi getto sotto la doccia, finalmente è finito l’incubo… fino a domani, almeno!

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di poche parole

Un tipo quadrato, di poche parole, ma ben inquadrato, solido, diciamo. Un carattere spigoloso, forse un po’ troppo rigido, ma, in fondo in fondo, dal cuore tenero. Un fisico robusto, bello pieno. È abituato a viaggiare, fa proprio parte della sua natura, si vede. Penso sia americano, a sentire le sue amiche, sedute lì, accanto. Perché lui tace, guarda solo fuori dal finestrino, in silenzio. Eppure, a guardarlo bene, sembrerebbe alla mano. E anche pieno di risorse, proprio pieno zeppo, sì. Se proprio vogliamo trovargli un difetto, beh, mi sembra un po’ pesante, ecco. Non legge, non dorme, non ascolta la musica, non smanetta con il telefono, semplicemente, siede, impettito, leggermente infastidito dal riflesso del sole sul finestrino, e aspetta di arrivare dove deve arrivare. Non cambia mai posizione, oscilla solo leggermente quando il vagone passa sopra uno scambio: non se lo aspettava, evidentemente, ma, a parte il leggero tremolio, non mi pare troppo infastidito. Arriva il controllore, verifica i biglietti delle due amiche americane e passa oltre, lo ignora. Sale una signora un po’ anziana, claudicante, lo guarda male, probabilmente vorrebbe sedersi al suo posto (“ah questi giovani di oggi!”, leggo nel suo sguardo), ma ce n’è un altro libero, più avanti, e procede oltre. Il treno rallenta, tra poco devo scendere, faccio appena in tempo a immortalarlo in una foto con il cellulare, per poterlo presentare anche a voi, il mio vicino di viaggio di oggi, un tipo quadrato, di poche parole. 🙂

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Alla ricerca di…

Nei moderni treni pendolari è sempre più frequente trovare carrozze dove i sedili non sono organizzati in gruppi di quattro, vis à vis, per intenderci, ma sono disposti a coppie, tutti nello stesso verso, come sui pullman, con direzioni opposte sui due lati del corridoio. Questa sistemazione ha l’indubbio vantaggio di poter garantire un maggiore numero di posti a sedere ai viaggiatori, ma toglie un po’ di comfort e, perché no, di poesia, al viaggio in treno. Avere di fronte il retro dei due sedili antecedenti dà inoltre la sensazione di chiuso, di essere isolati, soli con i propri pensieri. Così finisce che, costretti in questo spazio limitato, che erroneamente percepiamo come intimo e privato, non ci rendiamo conto che a pochi passi di distanza, in direzione opposta, un’altra pendolare, con un libro in mano, una blogger per di più, ci sta osservando…

 

La faccia non è nuova, anzi, è una di quelle figure che incontro quasi quotidianamente, che mi sembra di conoscere, nonostante non ci abbia mai scambiato parola. Maschio, alla soglia degli –anta, aspetto molto curato. Veste sempre abiti molto eleganti: giacca, cravatta, in genere in colori scuri, all’orecchio porta sempre un auricolare. Per questi motivi dentro di me l’ho soprannominato “l’agente Smith”.

Con gli occhi semichiusi nascosti da un paio di lenti scure, guarda fuori dal finestrino il paesaggio che corre verso di lui: le colline, gli alberi, il cielo, le nuvole, l’infinito….

E cerca… cerca dentro di sé, cerca ciò che non può trovare, là, fuori.

Un ricordo del passato, reminiscenze di un’infanzia che ormai è svanita, oppure un pensiero fisso, dentro la sua mente, nel punto più nascosto, inaccessibile. Come un’odiosa incrostazione, lo infastidisce, lo turba, vorrebbe eliminarla con tutte le sue forze. Ma prima deve scovarla, nelle oscure caverne del suo inconscio…

E ci mette davvero tutto il suo impegno in questa estenuante ricerca di se stesso… aiutandosi con il dito indice della mano destra, alternato con il mignolo.

Cerca, cerca ovunque, esplora ogni pertugio, con minuziosa perizia. Periodicamente estrae le falangi dalle oscure cavità, distoglie lo sguardo dal paesaggio e osserva il risultato, per poi riprendere, imperterrito, questo lavoro di manuale pulizia interiore.

La sua intensa attività distoglie la mia attenzione dal libro che sto leggendo per alcuni istanti. Cerco di non fissarlo troppo, non vorrei turbarlo in questo momento d’intimità e mi costringo a concentrarmi sulle pagine, che però non riescono a scorrere.

E ancora, prima una falange, poi anche un pezzetto della seconda, per raggiungere le profondità più recondite del proprio “io” e liberarle dalle impurità e dalle incrostazioni. I suoi occhi, sempre persi, verso l’orizzonte, l’infinito, ignorano la presenza degli altri viaggiatori.

Tutta la magia di questi lunghi istanti di vita pendolare svanisce all’improvviso, con un trillo metallico: come destatosi da un sogno, estrae dalla tasca l’impeccabile smartphone nero e risponde alla chiamata. Dopo pochi istanti arriviamo alla sua fermata e, sempre parlando al telefono, scende dal treno.

La bella addormentata… sul treno

Pomeriggio di inizio giugno, rientro dal lavoro, sul treno.  Il primo caldo della stagione ha un effetto soporifero su di me, ma anche sugli altri viaggiatori. Tutto lo scompartimento, stranamente, è avvolto in un silenzio ovattato: cullati dalle lievi oscillazioni sui binari, c’è chi legge, chi ascolta la musica, ma siamo tutti mezzi addormentati.

In questa scena quasi onirica a un certo punto irrompe il controllore, per la consueta verifica dei biglietti. Tutto procede regolarmente, con discrezione direi, quasi per non disturbare. Poco distante da me sono sedute due ragazze, giovani e carine, con abbigliamento estivo che lascia libere le gambe e le braccia, sulle quali sfoggiano una bella abbronzatura ambrata, il viso è nascosto da giganti occhialoni da sole. Dormono profondamente, a giudicare dalla postura stravaccata e dalla bocca semi aperta. È il loro turno per la verifica del biglietto: il controllore con discrezione accenna:

“Biglietto, prego!”

Nessun cenno di reazione.

“Biglietto, prego… ticket please…”

Ancora niente, prova delicatamente a scuotere la spalla della ragazza seduta sul lato del corridoio.

“Ticket please!”

Niente. Prova con quella seduta accanto al finestrino.

Ticket please!”

La ragazza pare riprendersi da un sonno ancestrale, come se dormisse da un secolo, con aria tra l’assonnato e l’infastidito rivolge finalmente la sua attenzione al controllore.

Ticket please!”

Ripete ormai ossessivamente il controllore. La ragazza gli risponde, non capisco in che lingua, indicando la sua amica. Intuisco che i biglietti li ha lei, che ancora giace serena tra le confortevoli braccia di Morfeo.

Il controllore risponde ancora in inglese, lei ribatte accennando a un airport. Alla fine è lui a cedere, dicendo:

“Scendete a Firenze? …Florence?

E la ragazza, con aria innocente e un po’ disorientata, tipica proprio delle turiste americane appena atterrate (un attimo, però, manca qualcosa… non hanno le tipiche mastodontiche valigie con loro!):

“Yes, Florence…

E lui:

“Va bene, via, ripasso tra un po’ allora, later…

Appena il controllore esce dallo scompartimento, le facce di entrambe le ragazze, anche quella della bella addormentata, si contraggono in una smorfia che in pochi secondi si trasforma in una grassa risata. Tra le risa, commentano la scena, in un perfetto italiano con la “c” bene aspirata.

Scendono entrambe nella mia stessa stazione, due fermate prima di Firenze Santa Maria Novella.

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Incontri su un treno… del diciannovesimo secolo

Si era all’inizio della primavera. Era già il secondo giorno che ero in viaggio. Capitava spesso che nel vagone entrassero persone che percorrevano brevi distanze e dopo un po’ scendevano. Ma tre passeggeri, oltre a me, erano in viaggio fin dalla città di partenza del treno: una signora bella e non più giovane, che fumava molto, dal volto emaciato, con indosso un soprabito di foggia maschile e un berretto in testa; un suo conoscente, uomo loquace sui quaranta, che portava un abito nuovo e di un’eleganza piuttosto ricercata, e infine un uomo che si teneva un po’ in disparte, di bassa statura, dai movimenti bruschi, non ancora vecchio, ma con certi capelli crespi incanutiti precocemente e degli occhi straordinariamente brillanti che si spostavano velocemente da un oggetto all’altro. Indossava un soprabito vecchio, ma di taglio elegante, dal bavero di pelo di agnello, e un alto berretto, anch’esso d’agnello. Quando si sbottonava il soprabito, si vedeva che portava sotto la poddevka e una camicia ricamata di foggia russa. Questo signore presentava inoltre la peculiarità che ogni tanto emetteva degli strani rumori, come se si schiarisse la voce o se scoppiasse in una risatina subito interrotta.

Per tutto il viaggio questo signore aveva accuratamente evitato ogni rapporto e ogni forma di contatto con gli altri passeggeri. A ogni approccio rispondeva brevemente e seccamente, e per tutto il tempo non aveva fatto altro che leggere, oppure guardar fuori dal finestrino fumando, o bere del tè o mangiare qualcosa che tirava fuori da un suo vecchio sacco.

Mi sembrava che la solitudine gli pesasse ed ero stato più volte sul punto di attaccar discorso con lui, ma ogni volta che i nostri sguardi s’incontravano – cosa che accadeva spesso, giacché sedevamo in diagonale l’uno di fronte all’altro – lui subito distoglieva lo sguardo, prendeva il suo libro o si metteva a guardare fuori dal finestrino…

Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, traduzione di Gianlorenzo Pacini, collana Universale Economica «I classici», Feltrinelli.

 

Mi raccomando, chiama Massimo!

E’ lunedì, il cielo è grigio, cade una pioggerella leggera, troppo leggera per aprire l’ombrello, ma sufficiente per inumidire i miei capelli e renderli orrendi. La sveglia è suonata con troppa irruenza, sono ancora sotto shock, il caffè che ho preso a colazione non ha fatto alcun effetto. Ho due occhiaie che mi rendono simile a un panda. L’umore è dello stesso colore del cielo: grigio.

Alla stazione, cerco di evitare qualsiasi interazione con altre forme di vita pendolare. Non ho voglia di mettermi a chiacchierare, di sentir raccontare cosa hanno fatto nel fine settimana i miei compagni di viaggio, non ho voglia di discutere del meteo o delle recenti vicende politiche, di imparare nuove gustosissime ricette, di lamentarmi dei ritardi dei treni.  All’arrivo del Regionale Veloce, studio accuratamente il flusso di persone e scelgo la carrozza più lontana, di solito più vuota delle altre.

Lo so, lo so, sono antipatica, stamani, e allora? Avete qualcosa da ridire in proposito?

Per fortuna lo scompartimento è quasi deserto, saremo in tutto sette o otto, non di più. Scelgo il posto in fondo, in modo da non avere vicini accanto o davanti. Il viaggiatore più prossimo è seduto più avanti, sulla destra. Dal mio posto vedo solo le sue gambe accavallate e il quotidiano che sta leggendo. Bene, si preannuncia un viaggio tranquillo. Prendo il libro dalla borsa, cerco il punto dove sono arrivata e inizio a leggere.

Arrivata alla fine del capitolo, alzo per un attimo lo sguardo e noto che il mio vicino  ha posato il quotidiano sul sedile davanti a lui, utilizzandolo per distendere le gambe ed evitare di posare le scarpe sulla seduta. Sembra essere proprio comodo. Gli arti inferiori sono mollemente incrociati all’altezza delle caviglie, le punte dei piedi e delle ginocchia sporgono in fuori, il bacino è scivolato in avanti. Indossa un paio di scarpe di cuoio nero, non nuove ma curate, strette da due lacci sottili, un paio di pantaloni scuri, ma non troppo eleganti. La posa rilassata li ha fatti risalire un poco, rivelando, sotto, un paio di calzini di colore bordeaux e di lunghezza insufficiente,  e un paio di centimetri almeno degli stinchi villosi.

Riprendo la lettura, anche se per poco: sono circa a metà della seconda pagina del nuovo capitolo quando una fastidiosa musichina richiama brutalmente la mia attenzione. È la suoneria del cellulare del mio vicino. Che, con molta calma, sufficiente a sviluppare completamente il tema melodico, si accinge a rispondere. La conversazione si svolge con un livello di emissione acustica simile alla suoneria.

“…”

“Vi siete sentiti poi ieri sera?”

“…”

“Mi ha detto che ti chiamava, ti ha chiamato?”

“…”

“Ah, l’hai chiamato tu? E che cosa ti ha detto?”

“…”

“Ah, ho capito, e poi?”

“…”

“Giusto, io però prima sentirei anche Massimo.”

“…”

“Sì, hai ragione, ma chiama anche Massimo, prima!”

“…”

“Sì, sì, ma Massimo lo sa sicuramente…”

“…”

“No, no, lui lo sa, sono sicuro, lo ha finito la settimana scorsa…”

“…”

“Ho capito, ma io sentirei anche Massimo, prima…”

“…”

“Non ce l’hai il numero di Massimo? Aspetta, te lo do io!”

“…”

“…”

“… aspetta, non lo trovo Marco, Matteo, Massimo, ma questo non è quel massimo lì, aspetta, Massimo… Massimo… forse è questo… no…”

“…”

“…”

“Eccolo, ci sei? Allora, tre-tre-otto…”

“…”

“Prego, mi raccomando, chiamalo, Massimo, senti lui come ha fatto, vedrai che te lo dice!”

“…”

“Comunque se vuoi stare tranquillo senti Massimo, te lo dico, io!”

“…”

“…”

“Vai, ci sentiamo dopo, ciao!”

“…”

“Ciao!”

Lo scompartimento torna in una quiete ovattata, in sottofondo si sente solo lo sferragliare delle ruote sui binari e saltuariamente la voce dell’altoparlante che ci ricorda di convalidare il titolo di viaggio. Dalla postazione del mio vicino, adesso, arrivano pochi, sommessi rumori: il click della chiusura della borsa, seguito dal fruscio di un sacchetto di carta e quindi da un piacevole profumo di mandarini. Riprendo la lettura. Vado avanti ancora tre pagine e poi riecco l’ormai familiare musichetta da cellulare.

“Pronto?”

Risponde il mio vicino, con la voce un po’ impastata, poiché, nonostante stia parlando al cellulare, non smette di mangiare i suoi mandarini.

“…”

“Ah, e che ti ha detto Massimo?”

“…”

“…”

“…”

“Lo sapevo, Massimo è una garanzia!”

“…”

“Visto? Hai fatto bene a chiamarlo!”

“…”

“Ok, va bene, fammi sapere come va, poi! Ci sentiamo, ciao!”

Continuo a leggere, questa volta mi concentro di più. Solo quando sono quasi arrivata mi accorgo che il mio compagno di viaggio è già sceso, in una delle fermate intermedie.

Esco dalla stazione, m’incammino verso l’uscita. Ho ancora sonno, ma l’umore è un po’ migliorato.

Perché adesso so che, qualsiasi cosa mi capiterà oggi, ho già pronta la soluzione: chiamerò Massimo!

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Un anello per ghermirli

La linea ferroviaria tra Granburrone e Minas Tirith è caratterizzata, nella zona dove un tempo si trovavano le antiche miniere di Moria, da un lungo tratto in galleria. Il moderno tunnel è stato realizzato solo di recente per abbreviare il percorso, che prima passava dalla Torre di Saruman, facendo un giro molto più lungo e tortuoso. Le ferrovie della Terra di Mezzo si stanno aggiornando, altroché.

Stamani, proprio mentre il mio treno attraversava questo tetro passaggio tra le montagne, davanti a me si è seduto un tipo dall’aspetto poco gradevole: andatura dinoccolata, schiena curva, pelle grigiastra, pochi capelli, lunghi e appiccicosi, un paio di occhi rotondi e sporgenti su un viso magro e grinzoso. Emanava un fastidioso odore, che sapeva di stantio e di pesce. Nonostante la sua presenza non troppo rassicurante, ho continuato a leggere il mio libro, cercando di non curarmi troppo di lui. Con la coda dell’occhio ho notato comunque che mi stava studiando, per cui ho cercato di non estraniarmi troppo, come faccio di solito quando mi concentro nella lettura, e di mantenere un certo livello di attenzione.

A un certo punto, mi sono accorta che dalla sua manica è scivolato qualcosa per terra, il gesto è stato dissimulato con due sonori colpi di tosse:

“Gollum! Gollum!”

Era un oggetto luccicante: un grosso anello dorato, tipo quello che il Signore Oscuro aveva forgiato per domare tutti gli altri e che quel Frodo Baggins della Contea era riuscito a distruggere. Gli mancava solo la scritta sulla superficie laterale nei caratteri strani, della lingua oscura che ormai nessuno capisce più. Dopo un attimo, il tipo losco ha finto una faccia sorpresa, ha raccolto l’anello e me l’ha mostrato, tutto contento:

“Guardi, ssssignora, le è caduto un anello!”

Ed io, prontamente:

“No, no, non è mio.”

Lui allora si è piegato un po’ in avanti, avvicinando l’anello al mio viso, perché lo guardassi bene:

“Guardi che bello, è d’oro, un vero tessssoro, chissssà quanto vale!”

Ho continuato a fissare il mio libro, anche se quella presenza inopportuna mi disturbava. Avevo già capito che il tipo voleva farmi la classica truffa dell’anello: mi avrebbe offerto di prenderlo, spacciandolo per un oggetto di valore e pretendendo in cambio di un po’ di soldi. Ma è vecchia, ormai, non ci casco più!

E infatti dopo poco ha iniziato:

“Lo prenda lei, guardi com’è bello, è d’oro, ssssi vede!”

Certo, come no, sapesse, caro signore, quanti anelli d’oro ho trovato per terra sul treno, ne ho una collezione a casa! Dunque: ho i tre anelli dei re degli elfi, sette dei nani e otto di quelli degli umani, guardi, me ne mancava giusto uno e per finire un’altra serie… Ma per favore!

“No, guardi, non m’interessa.” Ho risposto, un po’ scocciata.

Ma lui ha continuato a insistere, con quella fasssstidiosa essssse sssssibilante e quegli occhiacci malefici. Anche il suo alito sapeva di pesce. Ho portato pazienza per un po’ ma alla fine ho sollevato il viso dal libro, l’ho guardato male e ho esclamato:

“Non lo voglio, ho detto!”

Rendendosi conto che non avrei ceduto alla sua offerta, si è alzato, tutto risentito, ed è andato a sedersi davanti a una ragazza straniera, alla quale ha ripetuto la scenetta con lo stesso, sgualcito, copione, ottenendo peraltro lo stesso magro risultato.

Che poi, a pensarci bene, non bisogna mai accettare degli anelli nelle gallerie di Moria. Guardate quanti guai ha combinato quel Bilbo della Contea a prenderlo a Gollum: ci hanno dovuto scrivere un librone di migliaia di pagine e quel regista neozelandese ci ha dovuto girare ben sei film per raccontarli tutti!20140122_203256

Il treno dopo

A volte mi capita di dover far tardi al lavoro e di prendere il treno dopo, vale a dire quello che parte un’ora dopo l’orario solito. Ieri sera ho dovuto prendere il treno dopo al treno dopo. Mi sono quindi ritrovata alla stazione intermedia, dove devo cambiare, all’ora in cui di norma ho già finito di cenare, di rimettere a posto in cucina e mi sto avviando verso il meritato riposo sul divano.

Stanca morta, mi guardo intorno, un po’ disorientata. Questo luogo di transito dovrebbe essere ormai familiare, invece a quest’ora a malapena riconosco la struttura dell’edificio.

Manca la luce, ormai è buio già da un po’ ed è scesa una nebbia umida e opaca che confonde le forme e nasconde le distanze.

Mancano i gruppetti di studenti di ritorno dalle lezioni a scuola e all’università, chiassosi e allegri.

Mancano le tre signore che passano il tempo del viaggio sferruzzando infaticabili il loro lavoro a maglia, che parlano sempre di analisi mediche e malattie improbabili.

Mancano i ragazzetti che tornano dagli allenamenti di calcio, sempre a discutere tattiche e decisioni del mister.

Manca quel signore in giacca e cravatta, che ha sempre il cellulare appiccicato all’orecchio. Sarà a casa a giocare con il figlioletto. Come faccio a saperlo? Semplice, ho sbirciato lo sfondo del suo tablet una volta mentre scendevo dal treno e ho notato un bambino che rideva su una bicicletta rossa.

Manca il nonno che porta il nipotino a vedere il treno.

Le serrande del bar sono abbassate. Alla biglietteria non c’è più nessuno. Osservo l’immagine di me riflessa dal vetro, è spenta e grigia.

Siamo rimasti in pochi, pendolari ritardatari, e il cupo silenzio che avvolge tutto ci allontana, sembriamo ancora meno.

Sulla panchina lungo il binario due, una donna bionda, avrà sì e no la mia età, parla da sola. Ogni tanto scoppia in una grassa risata che scuote tutta la stazione. Ha con sé uno zaino scucito e due borse di plastica gonfie di oggetti eterogenei, da cui spunta un cartone di Tavernello.

Due uomini, con la barba incolta e i vestiti trasandati, passano in rassegna le macchinette distributrici di bevande e cibarie alla ricerca di qualche monetina dimenticata.

Un controllore, con la sua valigetta nera, si avvia verso l’uscita. Ha ancora la forza e la voglia di fischiettare un motivetto allegro, che stona un po’ con l’atmosfera triste che ha intorno.

Mi sento come catapultata in un mondo parallelo, che non conosco e che temo anche un po’. Una cosa però rimane immutata rispetto alla realtà di qualche ora fa, a me più familiare. Il treno che sto aspettando è in ritardo di più di venti minuti, a  fronte dei dieci silenziosamente dichiarati dal tabellone. Ma a quest’ora nessuno lo annuncia, e nessuno si arrabbia. Tanto, ormai, non c’è più nemmeno fretta.