Scambi ferroviari

Sulla banchina, lungo i binari due e tre, aspetto come ogni mattina il treno che mi porta al lavoro. Adesso che ancora scuola non è ricominciata c’è molta quiete: i viaggiatori, perlopiù pendolari come me, a quest’ora della mattina, sono assonnati e silenziosi, le conversazioni sono scarse e non troppo animate. Tranne quella tra due donne, a una decina di metri da me: una delle due si sta lamentando vivacemente e ad alta voce di qualcuno, ma non comprendo subito il problema:

“Quello stronzo, è proprio uno stronzo, gliel’ho detto diecimila volte che dovevo prendere il treno stamani! Ah, ma stavolta non la passa liscia, eh!”

E’ tesa, nervosa, si muove a scatti. L’altra risponde a volume più basso, spero che stia cercando di smorzare i toni dell’amica, rassicurandola e incoraggiandola.

“Ora mi tocca anche chiamarlo, ma non si può andare avanti così, NON SI PUO’, cazzo!!

Il volume e la frequenza della conversazione aumentano, , mi sembra quasi che stia per scoppiare a piangere, ormai ha catturato la mia attenzione. Prende il telefono, seleziona il numero, attende in linea.

“Dove sei!? Come sei partito ora, tra un minuto ho il treno! Guarda, te lo dico, io stamani non lo perdo! Se arrivi in tempo bene, sennò vieni a Pisa!”

Inizia a gridare.

“Eh no, caro stamani tu vieni a Pisa, te lo avevo detto!”

E’ sempre più tesa, la voce sempre più incrinata.

“Basta, mi sono rotta con questa storia, non si può andare avanti così! Fai sempre i tuoi comodi!”

Riattacca e sbuffa. Riprende la discussione con l’amica.

“Sempre così non è possibile, ah ma io chiamo l’avvocato, questa volta mi sono proprio rotta, vedrai ci pensa lui!”

Squilla il telefono. Lo afferra con irruenza.

“Dove vuoi che sia? Al binario due come tutte le mattine… Muoviti che sta arrivando il treno!”

Qualche istante ed ecco che dal sottopassaggio sbuca un giovanotto imponente: sale le scale di corsa, goffo e trafelato. Sembra un gigante un po’ bambino, mi ricorda Shrek, anche se non ha la pelle verde. Si dirige verso la donna, che lo fissa risentita, ma, sembra, un po’ sollevata. L’espressione di colpevole imbarazzo dell’uomo si trasforma improvvisamente in un ampio sorriso appena il suo sguardo si posa in un punto dietro la gonna lunga della donna. Ed ecco che proprio da lì spunta una bella bimbetta di circa tre anni, con la coda di cavallo, e dei lineamenti identici a quelli della mamma, anche se meno tesi e più morbidi, che allunga le braccia verso il gigante bambino.

Appena in tempo, sta arrivando il treno che stavano aspettando, con cinque minuti di ritardo. Menomale, penso, altrimenti il gigante non ce l’avrebbe fatta ad arrivare in tempo e sarebbe stato un bel problema! La mamma, in compagnia dell’amica, si avvicina alla porta del vagone più vicino. Prima di salire si volta verso la bimba e sorride, finalmente. Il gigante bambino prende in braccio la figlia, entrambi ricambiano il sorriso della mamma. Si fermano per un po’ sulla banchina, aspettano che riparta il treno, la bambina fa “ciao” con la mano alla mamma, che, schiacciando le dita sul finestrino, ricambia. Sul suo viso non c’è più il risentimento di qualche minuto fa, al suo posto, mi pare, un velo di tristezza. Ma forse è solo il riflesso del vetro.

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Se avessi la macchina del tempo…

Se avessi la macchina del tempo, se potessi invertire il moto delle lancette dell’orologio, sicuramente vorrei tornare a rivivere l’età dei perché: quel periodo dell’infanzia in cui tutto è nuovo, meraviglioso, da scoprire. L’età in cui la realtà si mescola con la fantasia, le cose che per noi grandi sono normali, banali, scontate, appaiono ancora misteriose e affascinanti. Insomma, l’età di quei due bambini che stamani stanno aspettando alla stazione il treno per Firenze Santa Maria Novella, in compagnia dei nonni. La più grande dei due è una bella bimba, con i capelli raccolti in due treccine chiuse con dei fiocchetti colorati, un vestitino estivo a fiori con delle graziose gale sulle spalle e sull’orlo della gonna.

“Come sei bella, stamani!” la schernisce il nonno, “Oh quanti ammennicoli ti sei messa?” indicando i numerosi braccialetti colorati che adornano i polsi della nipotina.

“Hai fatto bene, stamani si va in città! Si va a vedere il Duomo!” replica la nonna.

Il fratellino è leggermente più piccolo, capelli corti a spazzola, occhi incredibilmente vivaci, non riesce a stare fermo e fa continuamente avanti e indietro tra la panchina e la linea gialla lungo i binari (che “non deve essere toccata, sennò arriva il controllore e ti manda via dalla stazione” cit. la nonna).

Appena arriva il treno, si blocca con un’espressione di gioia e di stupore. Che meraviglia! Guardandolo bene, anche a me oggi sembra meno brutto.

Il gruppetto sale sulla mia stessa carrozza e si sistema nei seggiolini di fianco al mio: i nonni siedono uno di fronte all’altro, sul lato del corridoio, lasciando ai piccoli i posti accanto al finestrino. I due bambini stanno in piedi per tutto il viaggio, con il naso e le mani appiccicati al vetro.

Il treno dopo qualche minuto dalla partenza passa lungo un grigio cantiere di periferia, aperto da anni, ormai, dove stanno nascendo come funghi anonimi edifici, tutti uguali. Ma non tutti, stamani, la pensano come me:

“Nonno, guarda, una ruspa! Un’altra, laggiù, è più grossa! Guarda, c’è anche la gru! E lo schiacciasassi! Che cantiere grosso, non l’avevo mai visto un cantiere grosso così!”

Incrociamo un altro treno, che procede in direzione opposta.

“Guarda, è a due piani! Ha un piano di sotto e un piano di sopra! Perché non abbiamo preso quello anche noi?”

“Perché quello non va a Firenze, quando torniamo indietro cerchiamo di prendere anche noi il treno a due piani!” replica paziente la nonna.

“…Ma va più forte di questo?”

“Eh questo non lo so…”

A un certo punto incrociamo anche la superstar dei binari nostrani, lo stupore dei bambini, soprattutto il piccolo, diventa incontenibile.

“La Freccia Rossa! Guarda come va veloce! Dove va, nonno?”

“Penso che vada a Bologna, o a Milano, o a Venezia…”

“Andiamo anche noi a Bologna? Dai!”

“La prossima volta, magari, oggi si è detto che si va a Firenze.”

“… Ma va più forte la Freccia Rossa o Italo? ”

Sull’argomento i nonni, devo dire, non sono molto preparati.

Ci fermiamo in una stazione appena fuori Firenze. Siamo ancora fermi quando il treno sul binario accanto riparte.

“Si parte!” esclama il piccolo.

“Ma non vedi che siamo ancora fermi?” lo corregge la sorellina.

“No, siamo partiti, guarda!” replica indicando i finestrini dell’altro treno, che si stanno muovendo, effettivamente.

Il nonno allora tenta di spiegare in modo semplice il concetto di moti relativi al nipotino, che non sembra troppo convinto.

Entriamo finalmente nella stazione di  Santa Maria Novella, un tripudio di treni a uno, due piani, Frecce Rosse, Frecce Argento, Itali, mezzi di servizio, gente, valigie, negozi… Il treno si ferma, ci prepariamo a scendere. Il piccolo per mano alla nonna, la sorellina con il nonno, si avviano verso il centro. Chissà quante cose meravigliose scopriranno, oggi. Davvero, li invidio un po’ 🙂

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L’uomo col fiore in bocca

Ieri sera dopo cena sono tornata alla stazione, ma non per prendere il treno, per una volta. Nel piazzale della stazione andava in scena “L’uomo col fiore in bocca” di Luigi Pirandello: non avevo mai visto quest’opera teatrale, in realtà non l’avevo neanche letta, e sono stata felice di aver avuto questa occasione, proprio vicino a casa, proprio nella stazione da dove ogni giorno partono i miei viaggi pendolari.

Qui trovate notizie sull’evento.

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Si tratta di un atto unico, di durata abbastanza breve, in cui uno sconosciuto, malato terminale di cancro, si racconta a un viaggiatore che ha appena perso il treno, nel caffè di una piccola stazione di provincia. Il dialogo tra una persona “comune” ed una che sa di essere a breve condannata ci fa riflettere sul rapporto dell’uomo con la morte. Per l’uomo dal fiore in bocca, che sa di avere a disposizione ormai poco tempo, tutti i particolari e le sfaccettature della vita di tutti i giorni assumono un valore immenso.

Una nota particolare: la rappresentazione doveva iniziare con la partenza del treno per Firenze Santa Maria Novella, che, come al solito, è arrivato con venti minuti di ritardo! Più realistico di così…

Riporto alcune parti dell’opera, qui trovate il testo integrale.

L’uomo dal fiore. […]

E così, ha lasciato tutti quei pacchetti in deposito alla stazione?

L’avventore. Perché me lo domanda? Non vi stanno forse sicuri? Erano tutti ben legati…

L’uomo dal fiore. No, no, non dico!

Pausa

Eh, ben legati, me l’immagino: con quell’arte speciale che mettono i giovani di negozio nell’involtare la roba venduta…

Pausa

Che mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rossa, levigata… ch’è per se stessa un piacere vederla… così liscia, che uno ci metterebbe la faccia per sentirne la fresca carezza… La stendono sul banco e poi con garbo disinvolto vi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben piegata. Levano prima da sotto, col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l’altro e ci fanno anche, con svelta grazia, una rimboccaturina, come un di più per amore dell’arte; poi ripiegano da un lato e dall’altro a triangolo e cacciano sotto le due punte; allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrere quanto basta a legare l’involto, e legano così rapidamente, che lei non ha neanche il tempo d’ammirar la loro bravura, che già si vede presentare il pacco col cappio pronto a introdurvi il dito.

L’avventore. Eh, si vede che lei ha prestato molta attenzione ai giovani di negozio.

L’uomo dal fiore. Io? Caro signore, giornate intere ci passo. Sono capace di stare anche un’ora fermo a guardare dentro una bottega attraverso la vetrina. Mi ci dimentico. Mi sembra d’essere, vorrei essere veramente quella stoffa là di seta… quel bordatino… quel nastro rosso o celeste che le giovani di merceria, dopo averlo misurato sul metro, ha visto come fanno? se lo raccolgono a numero otto intorno al pollice e al mignolo della mano sinistra, prima d’incartarlo.

Pausa

Guardo il cliente o la cliente che escono dalla bottega con l’involto appeso al dito o in mano o sotto il braccio… Li seguo con gli occhi, finché non li perdo di vista… immaginando… – uh, quante cose immagino! Lei non può farsene un’idea.

Pausa – Poi, cupo, come a se stesso:

Ma mi serve. Mi serve questo.

L’avventore. Le serve? Scusi… che cosa?

L’uomo dal fiore. Attaccarmi così – dico con l’immaginazione – alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata.

Pausa

Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… – ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire… sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. – Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì…

[…]

Non vede la relazione? Neanche io.

Pausa

Ma è che certi richiami d’immagini, tra loro lontane, sono così particolari a ciascuno di noi; e determinati da ragioni ed esperienze così singolari, che l’uno non intenderebbe più l’altro se, parlando, non ci vietassimo di farne uso. Niente di più illogico, spesso, di queste analogie.

[…]

Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla.

Con cupa rabbia:

E questo è da dimostrare bene, sa? con prove ed esempi continui, a noi stessi, implacabilmente. Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. I1 sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. I1 gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noje… a tante stupide illusioni… insulse occupazioni… Sì, sì. Questa che ora qua è una sciocchezza… questa che ora qua è una noja… e arrivo finanche a dire, questa che ora è per noi una sventura, una vera sventura… sissignori, a distanza di quattro, cinque, dieci anni, chi sa che sapore acquisterà… che gusto, queste lagrime… E la vita, perdio, al solo pensiero di perderla… specialmente quando si sa che è questione di giorni.

 

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L’omino che aspettava il treno

C’era una volta un omino che una mattina arrivò alla stazione e si mise ad aspettare il treno. Sul marciapiede, tra il binario due e il binario tre. Passarono i minuti, passarono vari convogli, ma il suo treno non arrivava. E l’omino  continuava, fiducioso, ad aspettare. Era inverno, tirava un vento gelido. Lui non lo sentiva, aspettava, guardando la ferrovia, verso nord. Passarono le ore, e poi i giorni, e poi le settimane. Una notte venne anche una bella nevicata. Lui non si spostò di un centimetro. I fiocchi si fermarono sui suoi capelli e sui vestiti. La mattina venne il sole e la neve si sciolse. Passarono i mesi. Arrivò anche la primavera, e poi l’estate. Faceva un caldo insopportabile, lì, lungo il binario. Bastava spostarsi di qualche metro per raggiungere l’ombra della pensilina e per poter prendere una bibita fresca dalla macchinetta distributrice. Ma lui non poteva, doveva aspettare. Il caldo torrido piano piano svanì, iniziarono le piogge, e poi di nuovo il vento, che portava con sé le foglie rosse degli alberi lungo la ferrovia. La pelle dell’omino era diventata via via più spessa e più dura. La superficie, martoriata dai capricci del tempo, era diventata ruvida e spigolosa. Era dimagrito, le gambe erano ridotte a poco più che due stecchi storti, nella faccia non si riconoscevano più gli elementi caratteristici: gli occhi, il naso, la bocca.

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E’ da quando ho iniziato la mia vita pendolare che, ogni mattina e ogni sera, vedo dal finestrino l’omino che aspetta il treno, tra il binario due e il binario tre della stazione di Poggibonsi. Non ho ancora capito se sta aspettando qualcuno che deve arrivare. Oppure è lì perché vuole partire ma non sa decidersi. Forse non sa dove andare. Oppure tanto tempo fa ha accompagnato qualcuno alla stazione e non ha saputo dirgli addio. Oppure è solo un pendolare come me e il suo treno è semplicemente un pochino in ritardo.

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Nota: come sapete, le mie storielle pendolari  prendono spesso spunto da quello che vedo dal finestrino del treno, l’omino di oggi è in realtà una scultura di questo signore qua: http://www.antonygormley.com/

🙂

Mentre aspetto il treno…

Oggi, mentre aspettavo il treno, ho letto questo:

[…] “Sulla scia di questa dimostrazione riguardante l’effetto dei nostri atti sull’insorgere delle cose dell’esistenza, segnalo che, se la previsione frettolosa viene spesso punita, lo è altrettanto l’attesa forsennata. Mentre l’essere umano immagina, con il suo fare ingenuo, che scrutare il futuro farà accadere il futuro, lasciatemi dire subito che prende una cantonata, e non ci giro intorno. Così accade con l’autobus, e scelgo un esempio di portata internazionale. Per estendere l’universalità del discorso si può sostituire l’autobus con la linea 4 del metrò, è equivalente. Dopo quattro minuti di attesa, tempo massimo che possa tollerare un essere umano normalmente strutturato qualunque sia l’evento auspicato (e qui non parlo di mia sorella, che è un caso del tutto particolare perché aspettare le piace e non desidera che l’evento si verifichi, ebbene sì, ragazzo mio, tua zia, ma non voglio annoiarvi con i miei guai di famiglia), dopo quattro minuti il viaggiatore scruta con muto fervore la strada, il viale, i binari, la pista, nella speranza di veder comparire il veicolo. Scruta, e con questo sovrappiù di sorveglianza del reale conta di provocare il verificarsi dell’evento.

È un errore fatale. Più scrutate e più l’autobus (il metrò, la piroga, il vaporetto) recalcitra. Uno scrutamento eccessivo può addirittura indurre il blocco completo del traffico. E perché? Perché scrutare significa sorvegliare, sorvegliare significa attendersi, attendersi significa assoggettarsi, e assoggettarsi significa diluirsi nella schiavitù, proprio così, ragazzo mio. E sappi che né all’autobus, né alla piroga, né al treno a vapore piace rispondere alla supplica di una creatura della cui felicità diventa di colpo responsabile. Fa dietrofront, e ne ha assolutamente diritto. Per l’autobus, obbedire, andare a collocarsi alla fermata,  significa assumersi il rischio non indifferente di alienare la propria libertà cedendo alla preghiera che grava sul suo collare a spalla. La servile attesa del viaggiatore può provocare, per feedback, la schiavitù dell’autobus. Da cui si evince che il principio dell’attesa determina il blocco istantaneo del veicolo per un naturale riflesso di sopravvivenza. Invece, chiudete gli occhi, comportatevi con disinvoltura, e l’autobus passerà.

Attenzione, vi metto in guardia, poiché l’autobus è tutt’altro che stupido, tanto vale saperlo subito: la finta disinvoltura, per quanto allettante, viene subito decifrata come vera attesa e non funziona. Donde la massima: squallidi stratagemmi, miseri risultati. Perciò non si tratta di fingere la disinvoltura, ma di compiere, durante l’attesa, un esercizio di intensa meditazione che vi introdurrà alla disinvoltura autentica. Questo stratagemma, frutto di anni di pratica, garantisce il sistema più sicuro per essere trasportati senza grosse preoccupazioni.” […] 

Fred Vargas

Piccolo trattato sulle verità dell’esistenza.

Einaudi Stile Libero Extra, 2013, pag. 25-27

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Di oroscopi, di (foto)romanze e di orbite ellittiche

Sottotitolo: Riflessioni sconclusionate di una pendolare al bar della stazione, davanti al suo cappuccino.

Più che al bar della stazione, questa mattina, mi sembra di essere in una puntata di “The Walking Dead”.  Il locale pullula di non-morti, o meglio, di non-svegli, con le facce di un poco rassicurante color grigiastro, che strascicano i piedi mentre si avvicinano prima alla cassa e poi al bancone. Per fortuna, invece dei loro simili televisivi, sempre a caccia di carne umana di cui cibarsi, questi anelano solo un po’ di caffeina, una sostanza miracolosa in grado di riportarli nel mondo dei viventi. Sono anch’io una di loro, ovviamente.

Le uniche ad avere un po’ di vitalità sono le bariste, intente come sempre a destreggiarsi tra un caffè lungo in tazza grande, uno  basso in vetro, un latte macchiato tiepido e un ginseng.

In questa mattinata assonnata, le conversazioni sono scarse e a volume molto basso. Non si distinguono nemmeno le singole voci, si sente solo un leggero e ovattato brusìo, i viaggiatori di passaggio nel bar, ancora in modalità “risparmio energetico”, limitano al minimo le emissioni acustiche.

Su questo soffice sottofondo si staglia, leggermente in rilievo, la voce della radio. Il volume è piacevolmente contenuto, tiene compagnia senza imporsi, con discrezione.

A quest’ora di solito passano sempre dei grandi classici della musica italiana, quei pezzi che tutti, proprio tutti, anche quelli con gusti sofisticati e sopraffini, non possono fare a meno di conoscere e inevitabilmente cantare, magari anche a  squarciagola: in macchina, al karaoke della festa aziendale di fine anno, quando si è ormai mezzi ubriachi, oppure sotto la doccia. Ma non a quest’ora.

Stamani, per esempio, è la volta della nostra amata Gianna da Siena.

“Ti telefono o no, ti telefono o no, io non cedo per prima…”

La massima espressione di coinvolgimento ce l’ha un insospettabile signore in giacca e cravatta, che aspetta il suo caffè,  battendo a ritmo l’indice sul bancone.

Quando parte il ritornello, lo vedo lanciarsi in un penoso playback: la sua voce è appena uno stridulo sussurro in falsetto.

“Quest’amore è una camera a gas…”

Ma si ferma subito, perché si incarta con le parole. Lo capisco, anch’io faccio sempre confusione e non mi ricordo mai se viene prima la “finta sul ring” o il “palazzo che brucia in città”.

Sulle ultime note della canzone si intromette una suadente voce femminile.

“Ariete: buongiorno, amici dell’Ariete…”

Seduta al tavolino del bar, osservo quasi ipnotizzata le volute bianche e marroncine che si sono create sulla superficie del mio cappuccino mescolando lo zucchero. Non ci credo negli oroscopi, ma quello della radio trasmesso la mattina mentre sono al bar e aspetto il treno, un po’ mi piace. Perché, pur non credendoci, non fa mica male sentirsi dire da quella voce sicura che oggi sarà una giornata splendida. Se ci fate caso, negli oroscopi alla radio dicono sempre cose belle, della serie “oggi farai un incontro che cambierà la tua vita”, oppure “amici del Sagittario, siete davvero in splendida forma oggi!”, oppure “nessuno potrà resistere al fascino che vi regala Venere, amici dell’Acquario”. Il messaggio più crudele che ho sentito finora è stato: “Attenzione, amici del … (non me lo ricordo), Mercurio in quadratura porta instabilità, copritevi quando uscite, altrimenti rischiate di prendere un raffreddore”. Ah, quindi sarebbe colpa di Mercurio che ce l’ha con un segno zodiacale sfigato se uno prende il raffreddore? Non del fatto che siamo in pieno inverno? Mah…

Vergine…

Ci siamo quasi, tra poco tocca a me. Vediamo cosa mi dice oggi…

Complimenti cari amici della Bilancia! Marte in transito nel vostro segno vi regalerà forza e bellezza. Vi sentirete davvero invincibili, oggi!

E bravo Marte, mi ci voleva proprio uno come te, stamani. Già che sei in transito nel mio segno, ti andrebbe di andare a quella riunione soporifera al posto mio, oggi pomeriggio? E visto che ti senti invincibile, puoi  convincere quelli della commissione a finanziare il mio progetto? Tanto, cosa hai da fare, tu, oggi? Hai solo da piroettare su te stesso e contemporaneamente percorrere un’orbita ellittica della quale il centro del Sole è uno dei fuochi, che ti ci vuole? Ok, devi stare attento che il quadrato del tempo che impieghi a percorrere la tua orbita sia proporzionale al cubo della tua distanza media dal Sole,  ma lo fai da ormai un sacco di anni, non ti dovrebbe costare tanta fatica. Pensaci bene, caro Marte, sei un pianeta fortunato, tu. Non hai mica sei miliardi di rompiscatole che ti pesticciano, ti sforacchiano, ti insozzano, ti affumicano, ti prosciugano, Te ne stai lì solo soletto, in mezzo al sistema solare… ma non ti annoi neanche un po’?

“Scorpione…”  

La parte che mi interessava dell’oroscopo è finita ed è finito anche il cappuccino. È l’ora di avviarsi verso il binario per prendere il treno. Ah dimenticavo, già che sei in transito da queste parti, caro Marte portatore di forza e bellezza, vedi di farlo arrivare in orario, almeno oggi.

A proposito di oroscopi, aruspici, di quelli che leggono il futuro nei fondi del caffè, ecco quello che mi è apparso un po’ di tempo fa, mescolando il cappuccino (non ho ritoccato la foto, giuro, a parte un filtro di Instagram)… sarà un segno? Che vorrà dire? Mah…

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Buon inizio settimana, Pendolo!

Come ogni primo giorno del mese lavorativo, Pendolo partì di casa quindici minuti prima del solito per recarsi alla stazione: quella mattina doveva rinnovare l’abbonamento. Alla biglietteria c’era una bella coda, decise quindi di mettere da parte la sua innata avversione nei confronti di tutti i congegni tecnologici e di affrontare una delle due temutissime macchinette automatiche. A dire il vero la fila era tutta alla biglietteria umana, non c’era nessuno alle macchinette e questo già sarebbe bastato a qualsiasi pendolare con un minimo di esperienza a far venire almeno un leggero sospetto… Ma i due dispositivi erano accesi, su entrambi appariva un invitante messaggio di benvenuto e non c’erano avvisi o segnali particolari, quindi, di che doveva aver paura? Se fossero state guaste, se ci fossero stati problemi di qualsiasi tipo, lo avrebbero segnalato, no? Ahimè, il buon Pendolo era un inguaribile ottimista e confidava sempre nella fortuna, nella buona fede e nella buona volontà altrui, specialmente di lunedì mattina.

Alla macchinetta, selezionò con cura la stazione di partenza e quella di arrivo, specificò cognome, nome e data di nascita. La macchinetta, senza fare tanti complimenti, gli chiese subito di pagare la consistente gabella mensile. Selezionò la modalità di pagamento con bancomat, al che il freddo marchingegno ordinò, con voce decisa: “Inserire la carta!”. Pendolo eseguì il comando, un po’ timoroso. Uno strano rumore di aggeggi meccanici che sbattevano tra loro, frammisto a un poco rassicurante ronzio elettrico, iniziò a uscire dalla fessura dove aveva inserito la tesserina magnetica. Dopo qualche istante, la voce imperiosa ordinò: “Estrarre la carta!” Pendolo, di nuovo, obbedì. Per fortuna la tesserina magnetica era ancora integra. Non era ancora passata una frazione di secondo che l’odiosa macchinetta ordinò: “Inserire la carta!” E lui, scattando sull’attenti come al comando di un ufficiale, obbedì. Di nuovo, si ripeté lo strano rumore meccanico, come di denti  metallici intenti a masticare un pezzo di plastica, e di nuovo, l’irrazionale ordine: “Estrarre la carta!”

Dietro di lui si era intanto formata una piccola coda, capeggiata da un turista straniero, magrolino e piccoletto, dall’incredibile somiglianza con Einstein, che ballonzolava avanti e indietro, nervoso, e commentava: “Iz leit, iz leit, de ticchet, ai nid de ticchet!”.

Un altro tentativo ancora, ma niente, la macchinetta non ne voleva sapere della tesserina magnetica del povero Pendolo. Alla terza iterazione inserire/estrarre la carta, si rassegnò all’idea che quella macchinetta fosse guasta e si decise a provare l’unica altra disponibile. Ma le persone che stavano dietro di lui avevano avuto la stessa idea una frazione di secondo prima e tutta la coda si era già spostata in modo monolitico, così che il povero Pendolo si ritrovò  all’ultimo posto della fila, a pochi minuti dalla partenza del suo treno.

Era il turno del turista sosia dello scienziato, anche lui era in palese difficoltà, probabilmente aggravata dal suo essere straniero e dalla poca confidenza con le ribelli macchinette italiche. Continuava a inserire e disinserire velocemente una tesserina magnetica dorata, brontolando nervosamente “Iddasen uok, iddasen uok” per poi guardarsi intorno, preoccupato, “ueris di ader, ueris di ader”. Pendolo iniziava a temere seriamente di perdere il treno, guardando il tabellone si accorse infatti che era iniziata a lampeggiare la lucina che indicava l’imminente partenza.

I minuti successivi gli sembrarono lunghi quanto secoli. Un signore in giacca e cravatta si offrì di aiutare l’inesperto turista;  in due, tentando di dialogare tra loro in una strana lingua, ce la fecero a stampare l’agognato biglietto. Dopo il turista toccava a una ragazza con un ciuffo viola e le unghie variopinte, troppo lunghe per poter interagire per bene con il touch screen della macchinetta: ci mise un bel po’ a stampare l’abbonamento. Era poi il turno del suddetto signore in giacca e cravatta, che si era già dimostrato un pendolare esperto e per fortuna impiegò pochissimo tempo, poi toccava a uno studente con il cavallo dei pantaloni pericolosamente basso e un paio di cuffie gigantesche alle orecchie, da cui filtravano inconfondibili note distorte heavy metal…

Alla fine anche Pendolo ce la fece a raggiungere la testa della fila. Al primo tentativo l’algoritmo s’inceppò sulla selezione della stazione di arrivo, fissandosi per lunghi, lunghissimi istanti, su un’insopportabile schermata con su scritto “Attendere, prego”, per poi resettarsi all’improvviso. Pendolo ormai aveva perso il proverbiale buonumore mattutino, sostituito da un desiderio irrefrenabile di sfasciare quel marchingegno maledetto a colpi di spranga. Trovò tuttavia la forza di resistere e riprovò con più attenzione, tenendo a fatica a bada il fascio dei suoi nervi imbizzarriti. Ogni volta che toccava il touch screen per selezionare le varie opzioni, lo faceva ormai con cattiveria e violenza, come se il suo dito indice fosse il coltello di un efferato assassino che infieriva sulla sua vittima. Finalmente, brontolando, sferragliando, recalcitrando, la dannata macchinetta, offesa, ferita, stizzita, sputò disgustata l’agognato pezzetto di cartoncino mensile.

La lucina sul tabellone continuava a lampeggiare, c’era un tenue barlume di speranza di poter prendere il treno. Pendolo si fiondò sulle scale del sottopassaggio, scendendo e poi risalendo i gradini a due a due, aiutandosi anche con le braccia, con la grazia di un gibbone in fuga nella foresta. Quando riemerse dal sottopassaggio, fece appena in tempo a vedere la coda del treno sparire, dietro la curva appena fuori dalla stazione. Dal finestrino dell’ultimo vagone gli sembrò persino di vedere un ghigno soddisfatto sul volto del capotreno, ma forse quella era solo un’impressione.

Tanta fatica per niente, aveva perso il treno e ora doveva aspettare per quaranta minuti quello successivo. Che ovviamente arrivò in ritardo. Ritardo sul ritardo, ritardo al quadrato, all’ennesima potenza, anzi, ritardo esponenziale. Al lavoro lo aspettava di sicuro una bella ramanzina da parte del suo capo… Ed era pure iniziato a piovere… E non aveva nemmeno l’ombrello… E faceva un gran freddo, lì, sul binario, ad aspettare… Ed era solo lunedì.

Aspettando

L’autobus

Che smetta di piovere

Il treno della mattina

Che qualcuno risponda al telefono

Che arrivi una ventata che mi porti via

Di diventare grande per poter guidare il treno

Toni di grigio

IMG_2380 copyGli ingredienti per una giornataccia, stamani, ci sono tutti. Una nebbia fitta mista avvolge la stazione e, insieme ad una pioggerellina insistente, rende l’atmosfera fredda e inospitale. C’è ancora poca luce, le giornate si stanno accorciando velocemente e il mio umore è dello stesso colore del cielo. La banchina è più affollata del solito, capisco presto il motivo: il treno precedente al mio è stato soppresso, ci informa la voce sintetica dell’altoparlante. La prima parte del mio viaggio quotidiano sarà probabilmente… come dire… compressa.

Arriva il treno, riesco a salire con difficoltà a causa delle persone che sostano nel vestibolo. Con qualche sforzo riesco a entrare nello scompartimento. Non c’è ovviamente posto a sedere, mi sostengo come posso alla sommità di un seggiolino. La mia sistemazione non è molto stabile, non posso far altro che reggermi e aspettare che il viaggio passi. Peccato perché ero arrivata a un punto chiave nel libro che sto leggendo.

Arrivo alla stazione dove devo cambiare treno con qualche minuto di ritardo, mi affretto a raggiungere il binario giusto. Appena imboccato il sottopassaggio, sono travolta da un’ondata di altri pendolari che si muovono in massa in direzione opposta alla mia a causa di una variazione del binario del loro treno, comunicata, come sempre, all’ultimo momento. Passata la valanga umana, il sottopassaggio rimane semi-vuoto. Dal fondo del tunnel sento echeggiare un frastornante rutto, seguito da grasse risate e commenti impronunciabili: realizzo subito che si tratta del solito gruppo di studenti svogliati, con cui spesso devo condividere il viaggio. Oggi però, per fortuna, hanno altri programmi e si dirigono allegramente verso l’uscita.

Il secondo treno è stranamente quasi vuoto e il viaggio tranquillo, nonostante ciò l’umore non migliora. Dal finestrino, guardo i girasoli rimasti nei campi. Non sembrano proprio le stesse piante di qualche mese fa, sempre alla ricerca dei raggi del sole, con i petali di quel bel colore giallo brillante che mi mette tanto di buonumore. Adesso sono smorti, avvizziti e ingobbiti, come spettri.

Arrivata a destinazione, entro nel bar. Stamani prenderò solo un caffè, non sono dell’umore giusto per il cappuccino: ho bisogno di svegliarmi. Dalla radio arrivano note inconfondibili, mi concentro sulla musica, e non sono sola: anche il barista si lascia andare e libera le sue insospettabili doti di vocalist.

Voglio una vita spericolata 

Voglio una vita come quelle dei film

Voglio una vita esagerata

Voglio una vita come Steve Mc Queen

Dalla mia borsa arriva un fastidioso beep, è un SMS: ”Ci sei vero? La riunione è alle nove e mezzo”. Rispondo velocemente: “Sto arrivando”.

Voglio una vita che non è mai tardi, di quelle che non dormi mai…

Veramente io ho un gran sonno stamani e avrei dormito volentieri un altro po’…

Voglio una vita, la voglio piena di guai…

Se faccio tardi alla riunione di stamani effettivamente potrei essere accontentata in questo senso.

Ehhhh

Ed eccolo, l’immancabile ”ehhhh” liberatorio, una costante irrinunciabile in tutte le canzoni di Vasco, per l’occasione enfatizzato e amplificato dalla possente ugola del barista.

E poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxy Bar, o forse non ci troveremo mai, ognuno a rincorrere i suoi guai.

Indugio ancora un po’ davanti al bancone: ormai voglio godermela tutta, la canzone.

Ognuno col suo viaggio ognuno diverso, ognuno in fondo perso dentro ai cazzi suoi…

Quando finalmente mi riprendo da questa specie di trance musicale, mi rendo conto che ho passato tutto il tempo a far girare a vuoto il cucchiaino nella tazzina, ancora non ho bevuto nemmeno un po’ di caffè. Ed è già freddo, accidenti.

Il treno dopo

A volte mi capita di dover far tardi al lavoro e di prendere il treno dopo, vale a dire quello che parte un’ora dopo l’orario solito. Ieri sera ho dovuto prendere il treno dopo al treno dopo. Mi sono quindi ritrovata alla stazione intermedia, dove devo cambiare, all’ora in cui di norma ho già finito di cenare, di rimettere a posto in cucina e mi sto avviando verso il meritato riposo sul divano.

Stanca morta, mi guardo intorno, un po’ disorientata. Questo luogo di transito dovrebbe essere ormai familiare, invece a quest’ora a malapena riconosco la struttura dell’edificio.

Manca la luce, ormai è buio già da un po’ ed è scesa una nebbia umida e opaca che confonde le forme e nasconde le distanze.

Mancano i gruppetti di studenti di ritorno dalle lezioni a scuola e all’università, chiassosi e allegri.

Mancano le tre signore che passano il tempo del viaggio sferruzzando infaticabili il loro lavoro a maglia, che parlano sempre di analisi mediche e malattie improbabili.

Mancano i ragazzetti che tornano dagli allenamenti di calcio, sempre a discutere tattiche e decisioni del mister.

Manca quel signore in giacca e cravatta, che ha sempre il cellulare appiccicato all’orecchio. Sarà a casa a giocare con il figlioletto. Come faccio a saperlo? Semplice, ho sbirciato lo sfondo del suo tablet una volta mentre scendevo dal treno e ho notato un bambino che rideva su una bicicletta rossa.

Manca il nonno che porta il nipotino a vedere il treno.

Le serrande del bar sono abbassate. Alla biglietteria non c’è più nessuno. Osservo l’immagine di me riflessa dal vetro, è spenta e grigia.

Siamo rimasti in pochi, pendolari ritardatari, e il cupo silenzio che avvolge tutto ci allontana, sembriamo ancora meno.

Sulla panchina lungo il binario due, una donna bionda, avrà sì e no la mia età, parla da sola. Ogni tanto scoppia in una grassa risata che scuote tutta la stazione. Ha con sé uno zaino scucito e due borse di plastica gonfie di oggetti eterogenei, da cui spunta un cartone di Tavernello.

Due uomini, con la barba incolta e i vestiti trasandati, passano in rassegna le macchinette distributrici di bevande e cibarie alla ricerca di qualche monetina dimenticata.

Un controllore, con la sua valigetta nera, si avvia verso l’uscita. Ha ancora la forza e la voglia di fischiettare un motivetto allegro, che stona un po’ con l’atmosfera triste che ha intorno.

Mi sento come catapultata in un mondo parallelo, che non conosco e che temo anche un po’. Una cosa però rimane immutata rispetto alla realtà di qualche ora fa, a me più familiare. Il treno che sto aspettando è in ritardo di più di venti minuti, a  fronte dei dieci silenziosamente dichiarati dal tabellone. Ma a quest’ora nessuno lo annuncia, e nessuno si arrabbia. Tanto, ormai, non c’è più nemmeno fretta.