Dove vorranno andare?

Oggi propongo un post un po’ visionario… Sarà mica colpa del caldo?

Fa già caldo di prima mattina, oggi, Minosse si è alzato presto stamani. All’orizzonte l’aria è già tremolante per il calore della superficie del terreno, sarà una giornata torrida. Sul binario, la solita gente, aspetta. C’è meno gente del solito, le scuole sono chiuse e in molti sono già in ferie, beati loro. Non mi rendo nemmeno conto di come sono arrivata qui, sul punto dove ogni mattina aspetto il treno, ho utilizzato il mio pilota automatico. Al mio fianco, su una panchina, due ragazze leggono. Accanto alla panchina, oggi, noto una presenza insolita: un paio di scarpe.

Sono scarpe da ginnastica, ma non di quelle alla moda, anzi, diciamo, un po’ bruttine. Sono molto consumate: i lacci sono tutti arrotolati, sono stati legati e sciolti un sacco di volte, sembra. La superficie di pelle, originariamente bianca, adesso è grigia, in molti punti sciupata e, soprattutto nella parte anteriore, tutta screpolata.   Devono aver fatto molti chilometri, quelle scarpe.  Chissà se a piedi o di corsa, sull’asfalto oppure, magari, tra i ciottoli di una stradina di campagna. Chissà, forse hanno scalato delle montagne. Oppure, forse, tutte quelle screpolature sono dovute alla salsedine, per aver corso chilometri e chilometri lungo una spiaggia.

La loro posizione non è casuale e nemmeno statica. Non sembrano proprio due scarpe buttate via, abbandonate. Sono quasi allineate, guardano verso il binario due, all’incirca come le  molte altre scarpe che stanno aspettando il treno lungo il marciapiede, comprese le mie. La destra è leggermente più avanti della sinistra, le punte sono un po’ in fuori. Pare che abbiano una propria identità e che stiano per scattare da un momento all’altro. Chissà, dove vorranno andare?

Arriva il treno, la mia attenzione si distrae da questa insolita visione mattutina. Salgo i gradini, entro nella carrozza, mi siedo. Attraverso il vetro del finestrino vedo di nuovo le scarpe. Il treno riparte, per un attimo mi pare di percepire un loro movimento, un breve scatto. Ma è solo per un istante, mi accorgo subito che è un effetto beffardo del moto relativo.

Michelle Schumacher

In questi giorni fa troppo caldo per percorrere a piedi il tragitto dall’ufficio e la stazione, soprattutto al ritorno, il pomeriggio, per cui prendo l’autobus. La strada percorsa diventa più lunga, perché a piedi taglio attraverso il centro, mentre il bus passa da fuori, lungo una strada piena di curve e saliscendi. Sono arrivata alla fermata da poco, manca ancora un paio di minuti prima dell’orario previsto, quando vedo arrivare il mezzo a velocità sostenuta. Immagino che alla guida ci sia un autista scoglionato e sudaticcio, che sta per finire il turno e ha fretta di arrivare al capolinea per staccare e tornare a casa. Invece l’autista di oggi, o meglio, direi la pilota, è una ragazza che dall’aspetto avrà poco più di venti anni, minuta e carina. Mi fa piacere, mi sono simpatiche le ragazze che fanno professioni che nell’immaginario collettivo sono riservate agli uomini.

Appena salita, mi sorprende una brusca accelerazione che mi fa retrocedere di quasi un metro (per fortuna senza investire nessuno!). Non ci sono posti liberi a sedere, mi reggo con due mani ai sostegni, ma nonostante ciò, nelle curve, la forza centrifuga mi sballotta, rischio più volte di cadere in collo alla signora seduta davanti a me. A un tratto la velocità diminuisce bruscamente, noto che davanti a noi c’è una Panda che procede lentamente. “Che sei, imbranato? Moviti! O che gente c’è a giro per la strada, certo che la patente la danno proprio a tutti!” e via dicendo, finché finalmente la Panda svolta a destra (rientra ai box) e finalmente abbiamo strada libera e possiamo fare il record su giro. Ad un incrocio, una macchina entra un po’ all’improvviso, intralciandoci, e di nuovo parte una catena di insulti: “Ma che sei deficiente? O guarda questo rincoglionito!”. A una fermata sale un ragazzo che sta discutendo animatamente al telefono. Il tono della sua voce è un po’ alto, è vero, ma nella situazione in cui siamo non è certo un disturbo, penso. Invece lei lo rimprovera subito: “Scusi, può abbassare il tono della voce? Se tutti facessero come lei si immagina che casino?” E questo giovanottone grande e grosso, che a occhio pesa più del doppio di lei, con la coda tra le gambe, congeda il suo interlocutore con un “Ti chiamo dopo!” e si mette buono buono in un angolino. Arriviamo alla stazione con una brusca frenata (questa volta non mi lascio sorprendere, però!) sei minuti prima del solito, abbiamo battuto il record, e come premio posso anche prendermi un caffè prima di salire sul treno.

Pendolariadi

Tempo fa ho ritrovato un mio diario delle superiori, una vecchia Smemoranda, tutta sformata per la quantità di ritagli che ci avevo appiccicato,  e ho iniziato a sfogliarla. Tra le varie cose che si scrivono a quell’età, c’era, racchiusa in una cornicetta tutta fiorita, con grafia curata, la frase:

Ogni mattina, in Africa, una gazzella si sveglia, sa che deve correre più in fretta del leone o verrà uccisa. Ogni mattina, in Africa, un leone si sveglia, sa che deve correre più in fretta della gazzella, o morirà di fame. Quando il sole sorge, non importa se sei un leone o una gazzella: L’importante è che cominci a correre…

Sono passati ormai venti anni, purtroppo non scrivo più sul diario della Smemoranda, anche se la rimpiango un po’ e più volte sono stata tentata di ricomprarmene una. Adesso scrivo su questo blog. Quindi, ecco una rielaborazione della frase precedente che rispecchia di più la mia realtà quotidiana attuale:

“Ogni mattina, nella stazione, un pendolare si sveglia, sa che deve correre più in fretta del treno, o lo perderà. Ogni mattina, nella stazione, un treno si sveglia, sa che deve correre, o i pendolari in orario si arrabbieranno. Quando il sole sorge, non importa se sei un pendolare o un treno. L’importante è che cominci a correre”.

In questi mesi il mio percorso pendolare include, due giorni alla settimana, un cambio nella stazione di Firenze Santa Maria Novella, tra un treno della linea Empoli-Pisa e uno Pontassieve-Arezzo. Il viaggio di andata, la mattina, di solito, non presenta particolari problemi, dato che ho un margine di un quarto d’ora tra uno e l’altro, che talvolta mi consente pure di prendere un caffè. La situazione si complica al ritorno, poiché il margine a quell’ora si riduce a sette minuti e il treno utile successivo parte dopo venticinque minuti. In questi sette minuti, che solitamente sono molto meno a causa dei fisiologici ritardi e della coda per scendere, devo in pratica attraversare tutta la stazione: i treni in arrivo da Arezzo di solito sono al binario sedici, mentre quelli per Empoli-Pisa partono dai binari uno o due.

Appena scesa, scatta quindi la corsa contro il tempo, una corsa disordinata e sconnessa, con sciarpe che svolazzano e borse che sbattono qua e là.  Una corsa a ostacoli che, contrariamente a quelli della disciplina sportiva, non sono fissi ed equispaziati, nel  mio caso sono mobili e imprevedibili: il gruppo dei corpulenti turisti tedeschi con i loro zaini e gli inconfondibili sandali con i calzini, inamovibili, di fronte ai binari dieci e undici  in attesa del Frecciarossa, i turisti giapponesi con i trolley scintillanti, che invece si muovono seguendo traiettorie caotiche e frenetiche, l’addetto alle pulizie con la sua macchinetta, che sterza sempre all’ultimo momento obbligandoti a bruschi cambi di traiettoria.

Come nelle gare ciclistiche gli addetti si affiancano ai corridori per dare loro qualcosa da bere, anche a me si affiancano vari personaggi, ma non per darmi un supporto. Mi parlano in varie lingue, ma le loro frasi finiscono puntualmente con “… un euro!”, io rispondo, in modo automatico, “No mi spiace non ho niente, devo scappare, scusa!” e continuo la mia corsa.

Non sono la sola a intraprendere questa sfida, durante il tragitto mi accorgo che ci sono altri che corrono nella mia stessa direzione, per raggiungere in tempo lo stesso treno. Allora, alla fretta, si aggiunge la competizione: l’obiettivo di prendere il treno diventa subordinato a quello di raggiungere e superare il pendolare corridore che ho davanti, appena lo faccio, anche lui accelera per riprendermi.  Leggevo giorni fa un articolo su National Geographic sull’argomento, intitolato, per l’appunto, “Siamo nati per correre”. Secondo gli autori dell’articolo, “la sensazione di euforia che regala la corsa è stata la spinta evolutiva che ci ha reso cacciatori più efficienti e, che ci piaccia o no, degli atleti.”

Arrivata al binario, a volte purtroppo mi accorgo che il treno si sta già muovendo, allora assaporo l’amaro della sconfitta. Altre volte le porte sono già chiuse, ma vedo, in fondo, la sagoma scura del capotreno che mi fa cenno di sbrigarmi. Allora, con l’energia rimasta, mi preparo allo scatto finale. Quando mi immagino questa scena da fuori, la vedo al rallentatore, con la colonna sonora di “Momenti di Gloria”, mentre con grandi falcate percorro tutta la lunghezza del treno, il capotreno avvicina il fischietto alla bocca e solleva il braccio con il fazzoletto verde. La realtà è un po’ diversa, il mio stile di corsa non è proprio elegante come quello di una gazzella, in questi momenti maledico la mia pigrizia e l’avversione nei confronti dell’attività fisica. L’ultima scintilla di energia mi serve per salire sul vagone, anche oggi ce l’ho fatta!